Quello istriano è un mosaico complesso, nel quale ogni tassello appare impregnato del passato di questi luoghi. Un passato nel quale si possono scorgere i nomi dell'antica Roma, della quale l'Istria fu colonia fin dal I secolo avanti cristo, e della Repubblica di Venezia. Pola con l'imponenza della sua Arena e l'eleganza dell'Arco dei Sergi, testimonianze tangibili della romanità della città, e Rovigno le cui strade, lastricate e strette, ricordano le calli e i campielli veneziani, sono solo alcune tra le mille sfumature lasciate da queste presenze. Presenze che diventano radici, in grado di incidere in un intreccio di culture, fino a diventare patrimonio comune. Tracce che restano indelebili, si respirano nell'aria e impregnano ogni pietra, ogni via e ogni angolo d'Istria. Dopo Roma e Venezia è la volta degli Asburgo, il cui nome si lega a questa sponda dell'Adriatico fino al 1797 quando, in seguito al Trattato di Campoformio, la penisola passa sotto la diretta sovranità dell'Austria che, salvo una breve parentesi napoleonica tra il 1806 e il 1813, la governa fino al termine della prima guerra mondiale.
Il 3 novembre 1918, l'Italia firma a Villa Giusti il trattato di pace con l'Austria e il giorno successivo le truppe italiane entrano in Istria. In concomitanza con la firma dell'armistizio e in base agli accordi previsti dal patto di Londra (siglato nel 1915 con i rappresentanti della Triplice Intesa), l'esercito italiano si insedia in Dalmazia e occupa Fiume. A Pola, Trieste e nei centri costieri dell'Istria, dove appare più radicata la presenza italiana, la popolazione saluta con grande entusiasmo l'arrivo dell'esercito italiano. La stessa cosa non accade nelle zone interne della penisola che, popolate in maggioranza da sloveni e croati, accolgono i militari con evidenti segni di ostilità, che contribuiscono ad amplificare attriti politici e nazionalistici già esistenti nell'area istriana. Un territorio retto da un governatorato militare, affidato al generale piemontese Carlo Pettiti di Roreto, la cui gestione si protrae fino all'agosto del 1919, quando al regime di occupazione militare subentra un governatorato civile. La Dalmazia, invece, sotto la guida dell'ammiraglio Enrico Millio, continua ad essere soggetta a una reggenza di carattere militare.
Nel 1920 con la firma del Trattato di Rapallo, entrato formalmente in vigore nell'inverno dell'anno successivo, Jugoslavia e Italia cercano di porre rimedio a una situazione che presenta dinamiche geografiche e politiche piuttosto complesse: insieme all'Istria e a Zara, sono annesse al Regno d'Italia anche le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa in Dalmazia, dove l'Italia rinuncia ad ulteriori pretese territoriali. Il trattato di Rapallo prevede inoltre la possibilità per gli italiani della Dalmazia di optare per la cittadinanza italiana, fornendo quindi loro un' opportunità che garantisce una tutela superiore a quella accordata alle altre minoranze europee. Fiume è invece dichiarata città libera, status che la città del Quarnero mantiene fino al 27 gennaio 1924, quando gli accordi italo-jugoslavi di Roma, ne decretano il definitivo passaggio all'Italia. Tra il 1920 e il 1924 l'asse della frontiera orientale conosce dunque una nuova sistemazione: circa 400.000 sloveni e più di 100.000 croati entrano ufficialmente a far parte del Regno d'Italia, trasformando l'area giuliana e istriana in un territorio a popolamento misto, la cui situazione conosce un deciso mutamento durante gli anni della dittatura fascista, che attraverso una linea politica di italianizzazione spinta, intacca equilibri già fragili e modifica il quadro delle prospettive agendo a favore della componente italiana e a scapito di quella slava.