Dopo l'arrivo delle truppe titine, la notte tra il 2 e il 3 maggio del 1945, la popolazione italiana di Fiume appare segnata da divisioni profonde, che vedono contrapporsi gli uni agli altri i sostenitori del ritorno della sovranità italiana, i fautori dello Stato Libero di Fiume e la locale classe operaia, in larga parte favorevole all'annessione della città alla Jugoslavia di Tito. Posizioni diametralmente opposte, destinate però a convergere subito dopo il primo impatto con il nuovo corso jugoslavo, che porta la quasi totalità della comunità italiana di Fiume a trasformarsi in un blocco granitico, omogeneo e compatto nel rifiutare un potere la cui azione non lascia intravedere "alcuno spiraglio favorevole" [M.Orlic, 2008]. E' in questo contesto, reso ancora più aspro dai gravi disagi economici e sociali lasciati in eredità dalla guerra, che matura negli italiani la decisione di lasciare la città. Una decisione dai contorni collettivi, alla cui elaborazione contribuisce certamente anche il sentimento di esclusione e di estraneità nel quale si trova proiettata la componente italiana che fin dal maggio del 1945 non ha più, di fatto, alcun contatto diretto con l'Italia, iniziando così a percepire quasi come scontata l'annessione di Fiume alla Jugoslavia. Una convinzione cementata anche dal comportamento tenuto dalla Commissione Interalleata, che durante la sua ispezione nei territori della Venezia-Giulia decide di non visitare il capoluogo quarnerino, esplicitando così la volontà di non voler "mutare la situazione determinatasi" [L. Ferrari, 1980]. A partire dalla fine dell'estate del 1945, la città inizia a svuotarsi, diventando il teatro di un vero e proprio esodo, che assume proporzioni consistenti già nel corso dell'anno successivo: a gennaio del 1946, saranno oltre 20.000 gli italiani che lasciano l'intera provincia di Fiume. Un processo che, con l'eccezione di una quota minoritaria della popolazione, coinvolge quasi tutti i fiumani, diventando integrale intorno al 1948, quando la gran parte degli italiani di Fiume decide di optare per la cittadinanza italiana e di trasferirsi in Italia. Complessivamente, saranno circa 38.000 i fiumani che prenderanno la via dell'esodo, sul totale dei circa 52.000 abitanti presenti in città nel 1945.
E questo nonostante l'atteggiamento tenuto delle autorità jugoslave, trovatesi ad essere investite da un fenomeno i cui riflessi sono diventati oramai incontrollabili con pesanti ripercussioni sul piano interno, dove si assiste a una consistente perdita di forza lavoro necessaria alla ricostruzione della città, e su quello politico internazionale. Coloro che lasciano la città diventano così il bersaglio dei poteri popolari, che da un lato mettono in atto una campagna mediatica dai toni violenti e intimidatori e dall'altro introducono una rigida regolamentazione delle partenze con il chiaro intento di scoraggiarle. Misure limitative di estrema durezza come dimostra, ad esempio, un comunicato diramato dal locale Comitato popolare di liberazione il 24 maggio del 1945, che impone ai partenti condizioni durissime come quella di poter portare con sé soltanto "un massimo di 50 Kg. di indumenti personali" e una quota di denaro che non superi l'importo di Lire 20.000 per il capofamiglia e di Lire 5.000 "per gli altri membri della famiglia che viaggiano con lui" [«La Voce del Popolo»]. Parole che sottendono, nemmeno troppo velatamente, un solo significato, e cioè la cessione definitiva, senza alcuna contropartita, di ogni bene al governo jugoslavo, ma che non riescono ad arginare il flusso delle partenze. Inoltre gli italiani che si apprestano a partire, si trovano in una condizione di "emarginazione e persecuzione" [M. Madieri, 1998], che si ripercuote su ogni segmento della vita quotidiana come dimostrano, ad esempio, gli sfratti dagli appartamenti in cui si vive con la propria famiglia o i licenziamenti, con decorso immediato, dai posti di lavoro occupati da anni. Una situazione, quest'ultima, che si ritrova nella vicenda di alcuni dipendenti della R.O.M.S.A., la nota raffineria di oli minerali della città dalla quale - come si legge in una corrispondenza intercorsa il 18 febbraio 1946 tra il Ministero degli Interni e il Comitato Romano per l'assistenza ai profughi giuliani - sono licenziati "senza alcuna indennità, 104 tra impiegati e dirigenti, e 13 operai" che dopo aver scelto di abbandonare la città, si rifiutano "di firmare le schede richiedenti l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia" [PCM, Archivio UZC].