Tra le varie pratiche repressive adottate dall'Italia fascista nelle aree balcaniche occupate, l'internamento della popolazione civile si pone come una tra quelle più consolidate. Infatti, subito dopo l'invasione della Jugoslavia, il 6 aprile del 1941, la deportazione diventa una prassi ricorrente ed ampiamente utilizzata, come dimostra la creazione di veri e propri campi di concentramento destinati ad accogliere cittadini jugoslavi. Strutture nelle quali passano, ammassati gli uni accanto agli altri, circa 100.000 civili tra uomini, donne, vecchi e bambini, costretti a sottostare a una disciplina rigorosa e a vivere in condizioni igienico-sanitarie disumane. Una situazione estrema, alla quale si aggiunge anche l'assoluta insufficienza di una dieta alimentare costituita, molto spesso, da pochi mestoli di minestre acquose nelle quali galleggia una punta di pasta o qualche manciata di riso, cucinate in calderoni ricavati da bidoni di benzina e il cui valore nutritivo è pressoché nullo. La fame si presenta dunque come una delle principali cause di morte all'interno dei campi di internamento fascisti, circa duecento strutture disseminate lungo il territorio italiano e quello jugoslavo occupato, all'interno delle quali i decessi legati a denutrizione e stenti «superano, in percentuale, quelli registrati nei lager nazisti di non sterminio» [C.S. Capogreco, 1991]. Affidatario della gestione e del funzionamento di gran parte dei complessi concentrazionari è il Ministero della Guerra che, per mano del Regio Esercito, amministra strutture ricavate da edifici già esistenti (caserme, prigioni, ecc.) o luoghi costruiti ex novo sui quali sorgono baracche, recinti o semplici tendopoli chiuse con del filo spinato. A quest'ultima tipologia appartiene la struttura dell'isola di Arbe, in Dalmazia, che rappresenta il più tristemente noto tra la totalità dei campi allestiti dagli italiani, oltre che quello di maggiori dimensioni. Gestito direttamente dalla II Armata del Regio Esercito (che il 5 maggio 1942 muta la propria denominazione in Supersloda, ovvero Comando Superiore Slovenia e Dalmazia con sede a Sussak), si presenta fin dalla sua apertura, avvenuta nella primavera del 1942, come un'enorme tendopoli recintata da filo spinato dove mancano latrine, cucine, infermerie ed ogni tipo di servizio, e dove le prime baracche sono costruite soltanto a partire dalla primavera dell'anno successivo. L'ubicazione del campo in una piana acquitrinosa, lascia i prigionieri esposti alla bora, alla pioggia e alle intemperie del rigido clima invernale facendo registrare, nel solo inverno del 1942, un altissimo tasso di mortalità: migliaia di uomini, donne e bambini sloveni muoiono per fame, malattie e freddo. Dalla struttura di Arbe, punto nevralgico dell'intero universo concentrazionario fascista, dipendono, in territorio italiano, altri complessi adibiti all'internamento di cittadini jugoslavi: Cairo Montenotte (Savona) in Liguria, Renicci (Arezzo) in Toscana, Monigo di Treviso (Treviso) e Chiesa Nuova (Padova) in Veneto, Visco e Gonars, il più grande campo di concentramento per internati civili attivo in Italia durante il secondo conflitto mondiale.