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Intervista ad Assunta Z. del 08/06/2009

1) Iniziamo con un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?

R.:"Sono nata a Dignano d'Istria, il 20 novembre 1942."

2) Mi può parlare della sua famiglia di origine? Quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.:"Allora...Mio papà lavorava a Pola, ed è stato sempre operaio in una fabbrica che, oltretutto, era di Milano...Adesso non ricordo cosa facessero, ed avevo anche una foto che non trovo...E la mamma faceva la casalinga, come tutte le donne istriane, credo. A lavorare non ci andavano!"

3) Ed eravate una famiglia numerosa?

R.:"Io e due fratelli. Due fratelli maschi."

4) lei riesce a descrivermi Dignano com'era da un punto di vista economico? Era una centro agricolo o industriale?

R.:"Eh beh, era agricola, perché era attorniata da campagna, a soli dieci chilometri da Pola e cinque da Fasana. Perciò a cinque chilometri sarebbe stato il mare, che dal campanile si vede il mare. Dal campanile, non dal paese. Una bella cittadina, il paese più grande dell'Istria, come paese, col campanile che si vantano tutti! Il campanile più alto dell'Istria, che si vede già mentre si arriva. Delle case in stile veneziano, come credo in tutti i paesi. Era un bel paesone, 12.000 abitanti, mi pare, tra il paese e i piccoli dintorni. Era un paese molto, molto vivace, tanto. C'era anche lì il coro, la banda, come in tutti i paesi, e mio papà si divertiva molto, [perché] suonava il violino, e tutte le note erano sue, ma tutte! Perciò quasi tutte le domeniche, nei periodi nuziali, lui aveva la sua festa. Poi l'abitudine degli uomini, c'era il solito bar, dove andavano a chiacchierare, a giocare a carte, [mentre] le donne cosa facevano? Mah, mia mamma andava al cinema con qualche amica, che c'era nel paese, mentre adesso per esempio non c'è più..E bon, una vita normale, di paese."

5) Dal punto di vista della popolazione Dignano com'era?

R.:"Quasi tutta italiana. Lungo la costa [la popolazione] era quasi tutta italiana. Nelle campagne erano insediati dei croati...Che oltretutto, come li chiamavano? Gli s'ciavoni...Pur andando d'accordo, si vede che c'era sempre un po' di astio."

6) Era un termine dispregiativo, dunque...

R.:"Mah, forse...Io ero bambina e non me lo [ricordo], ma forse si...Perché proprio nel paese...Perché in tutti i paesi dell'Istria direi che la maggioranza era proprio italiana. "

7) E posso chiederle com'erano i rapporti tra la componente croata e quella italiana?

R.:"Mah, io direi che erano anche buoni, perché in fondo erano della brava gente. Cioè, non ci sono mai stati dei disaccordi da doversi ammazzare o da bisticciare e che ne so...Almeno da quel che ne ho sentito parlare...Quelli che si conoscevano, che stavano così nei paesi delle campagne erano delle bravissime persone. E, oltretutto, mi ricordo mio papà che diceva che lui durante la guerra portava del carburo che aveva nella ditta dove lavorava e in cambio i croati gli davano delle uova in cambio del carburo per accendere la luce e fare quelle cose lì. Credo che i rapporti erano buoni, io non ho mai sentito disprezzarli o parlarne male, assolutamente. Almeno in casa, nella mia famiglia mai, nessun croato. Logicamente ce l'hanno avuta con il croato finale, con l'esodo, cioè per il fatto di averci mandati via, con Tito. Per carità, quando è arrivato Tito..."

8) Lei, per ragioni meramente anagrafiche, non ha vissuto in pieno gli anni del fascismo. Si ricorda però qualcosa di quel periodo? Le faccio questa domanda perché mi interessa sapere se le hanno raccontato qualcosa sul tentativo messo in atto dal regime di italianizzare i territori dell'Istria...

R.:"Nella mia famiglia di politica non si parlava, di politica non se ne è mai parlato. Però papà aveva il suo mondo: il suo coro, la sua osteria, io suo gioco di bocce...In casa la politica era proprio una cosa che non entrava. So che una volta hanno preso delle persone, e combinazione c'era anche lui perché era fuori casa, e li hanno portati via, e lui si è nascosto in un portico e non l'hanno visto e si è salvato. Però - mi ha detto - quella volta li portavano sulla strada per andare a Pola, dove avevano appeso delle persone morte. Cioè, avevano impiccato delle persone e portavano gli istriani di Dignano a vedere che cosa capitava se avessero fatto qualcosa."

9) Ma questo i tedeschi...

R.:"Eh, credo fossero stati poi i tedeschi. "

10) E della guerra ha qualche ricordo?

R.:"Della guerra...No, no...So che mia mamma diceva di quando c'era stato un grandissimo bombardamento, che da Pola arrivavano proprio le bombe verso il paese...Noi avevamo una casa che era abbastanza aperta, e loro [i miei genitori] non si erano neanche svegliati . Credevano che da questa parte buttassero di là, invece loro erano quelli che ricevevano, ma per fortuna non era successo niente. E della guerra no, non ricordo, ero troppo bambina."

11) Su Dignano e la guerra io ho raccolto alcune testimonianze relative alla borsa nera...

R.:"Si. Io so che un sacco di gente faceva borsa nera, paesani proprio. Specialmente le donne...Non dico mia zia, ma [altri] parenti facevano borsa nera: portavano l'olio, o forse da mangiare, uova e farina, in cambio di qualcosa, oppure vendevano, non so. Ma nella mia famiglia non è mai capitato, anche perché mio papà aveva qualche olivo vicino al paese, ma non tanti, perché ha sempre fatto l'operaio, non aveva campagna. [Invece] dalla parte di mia mamma avevano tanta campagna, particolarmente uva per far vino, però non hanno mai fatto borsa nera. So però che esisteva."

12) Quindi voi durante la guerra non avete, come si dice, patito la fame...

R.:"Beh, io mi son presa la pellagra perchè mangiavo farina di polenta, sono andata proprio a finire all'ospedale a Fiume! Mi ero presa la tigna e la pellagra...La tigna era un'altra cosa, forse perché toccavo oggetti [sporchi]...Ecco, a Fiume ero per la tigna. E la pellagra me l'ero presa perché si mangiava la polenta, quello che c'era, la campagna dava quello. La campagna dava granoturco, non è che dava [altro], e si mangiava quello. E non credo altro, perché c'era ben poco da mangiare!"

13) E i tedeschi lei li ricorda?

R.:"No, no, avevo cinque anni..."

14) E quindi neanche dei partigiani si ricorda...

R.:"Partigiani titini più o meno, perché mio zio era finito nel bosco, però lì bisognerebbe interrogare i cugini, non me, perché io non ne so niente! So che era entrato con i comunisti jugoslavi, magari sperava...Chissà che cosa...Sperava che andasse bene, e invece è andata male, non lo so...Poi è venuto via pure lui, dopo di noi, parecchio dopo, perché non voleva saperne, ma poi ha capito che era meglio andarsene."

15) Parliamo ora delle foibe. Lei quando ha iniziato a capire e conoscere l'uso che ne veniva fatto?

R.:"Io non ricordo di queste foibe, anche perché in casa se ne parlava anche poco, forse mai. So che esistevano, ma è solo adesso, ultimamente che abbiamo scoperto il tutto. Ma, probabilmente, anche la gente che non tornava, avranno capito che da qualche parte li avevano portati, perché li prendevano a caso dietro segnalazione oppure per ripicche, come capite dappertutto quando c'è la guerra. Li portavano via e non tornavano più. Credo [però] che delle foibe ne sapessero di più all'inizio dell'Istria, dove proprio ci sono queste cave [cavità]. Intorno a Dignano, essendo campagna piatta non esistevano e perciò li portavano proprio verso Basovizza o verso quelle foibe famose che ci sono. Oppure anche a Pisino, che mi pare ci siano delle foibe. E lì, chi è di quei paesi sa tutto, credo, perché avran sentito strilla, avranno visto."

16) E a Dignano ci son stati dei casi che lei sappia?

R.:"Credo pochi, credo pochi. Perché non ho mai sentito dire ai miei quello è finito nella foiba o l'hanno portato via. Credo che Dignano sia stato forse più fortunato rispetto ad altri paesi, mi sembra. A desso bisognerebbe chiederlo a chi è più vecchio di me, perché essendo bambina queste notizie non le conosco, e gli istriani anche lì a Lucento ce ne sono un sacco di istriani, anche di Dignano, tanti, tanti."

17) Di foibe ha comunque sentito parlare dopo...

R.:"Dopo, dopo...Perché da piccolina non se ne parlava, di politica non se ne parlava. Ultimamente, ero già proprio grande...Non avendone sentito parlare da ragazza o in casa, visto che i miei genitori di politica non hanno mai accennato niente, non ho mai saputo tante cose..."

18) Parliamo ora dell'esodo. Qual è il suo primo ricordo dell'esodo?

R.:"Il primo ricordo...Ero già arrivata a Sandigliano, perché io non so se son venuta...Senz'altro son venuta in treno...Quello [il campo] di Trieste non lo ricordo bene..."

19) Cerchiamo di fare un po' di ordine, quando parte?

R.:"Noi partiamo nel '49, credo a dicembre...A novembre- dicembre, in inverno."

20) Tardi quindi rispetto al grosso delle partenze...

R.:"Si, nel '47 è iniziato...Eh, ma sa, prima di decidere...Portare via i nonni da lì, e poi sempre la speranza che qualcosa cambiasse, che fosse soltanto una paura e nient'altro, e poi i miei si sono convinti a venire via, perché non cambiava assolutamente niente, ma peggiorava."

21) Voi dunque avete vissuto il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia...

R.:"Eh si, certo."

22) Ecco. Posso chiederle cosa cambia?

R.:"Mah, è cambiato decisamente tutto, a leggere anche nei libri è cambiato tutto. Anche quando siamo venuti via, quello che sapevamo è che non potevano più andare in chiesa, non potevano più parlare di politica tra di loro, non potevano più [fare] tante cose: è cambiato proprio il modo di vivere del paese. Ma anche il fatto che non si potevano più sposare in chiesa...La chiesa era proprio una cosa sprangata e chiusa quasi, cioè si andava di straforo. In paesi [come] il nostro abituati a vivere per la comunità della chiesa, devono avere avuto un bel colpo. Poi avevano licenziato i maestri, cioè avevano cambiato proprio decisamente...Cioè il popolo che lavorava presso il comune, presso le scuole, insomma credo che è stata dura per chi è rimasto, eh!"

23) A questo proposito mi rifaccio ad alcune altre testimonianze raccolte, dalla quale emergono difficoltà relative anche alla sopravvivenza, poiché nella Jugoslavia - e quindi anche in Istria - dell'epoca sembra mancasse tutto...

R.:"E certo, eh! Mancava proprio anche il cibo mancava...Sa, la Jugoslavia è proprio un paese diverso dal nostro...Sa, noi eravamo italiani e magari le cose arrivavano da là e poi si vendevano qua, non so...Ma poi loro si sono impossessati di tutte le terre, dalla prima all'ultima, e anche chi è rimasto ha dovuto dare...Mi ricordo che diceva un parente, che gli avevano tolto tutte le campagne e gli avevano tagliato gli olivi perché [la sua terra]doveva diventare grano: insomma, hanno fatto dei disastri, e non gli permettano più nemmeno di essere padroni delle proprie coltivazioni, si vede che gliene prendevano una buona parte. Non so, è stata dura...Per chi è rimasto è stata più dura che per noi: adesso, magari, stanno benino, perché col turismo e con un po' più di apertura attualmente...Finchè c'era Tudjman - si chiamava così il croato?- era terribile, attualmente vedo [invece] che si può parlare di tutto."

24) Ritorniamo a parlare dell'esodo. Mi diceva che parte nel '49. Riesce a raccontarmi questo viaggio?

R.:"Mi ricordo che il mio viaggio fino a Trieste non me lo ricordo. Poi mi ricordo invece quando siamo arrivati a Servigliano, che era di sera, probabilmente. E c'era una piccola direzione dove ci siamo presentati - non credo solo noi, ma a gruppi - e ci hanno dato delle brande, delle coperte e ci hanno messo nei cameroni. E allora, quando entrava qualcuno tutti gli altri si sollevavano e [dicevano]: sta arrivando della gente, e allora tutti a chiedere da dove [arrivate], di dove siete, qua e là. E le brande messe per terra lì per dormire, la divisione con delle coperte e la famiglia era tutta divisa così. Poi mano a mano si è migliorato un pochino anche lì, perché quella è stata proprio la prima sera, [mentre] poi avevamo delle piccole stanze...Perché noi essendo in sei - perché ci siamo portati dietro anche la nonna - avevamo sempre una stanza: da sei in su avevano una stanza, fino a cinque bisognava dividersi con o cartone quello giallo ondulato o con delle coperte, che mettevano dei legni...E [c'era] un'intimità, povere famiglie, che non le dico, perché...E ricordo quello, ma poi ero proprio bambina, andavo alle elementari..."

25) Lei parte da Dignano. Ma come, in treno?

R.:"Credo in treno fino a Trieste e poi in treno fino a Servigliano."

26) E poi da Trieste è andata al centro di smistamento di Udine?

R.:"No, no, credo al Silos. Silos e poi la destinazione. Lì destinavano proprio dove andare, perché mi ricordo mio zio che è andato giù fino ad Altamura, [mentre] noi eravamo a Servigliano e siamo stati due anni là. Poi lavoro non ce n'era, perché è una zona dove fabbriche non ce ne sono e insomma, il papà ha preferito venire a Torino da solo ì, è andato alle Casermette presso dei suoi parenti - suoi cugini - che l'hanno ospitato là, e ha trovato lavoro. E poi ha chiamato noi di venire su, perché se non altro aveva il suo stipendio e il suo lavoro, insomma."

27) Posso chiederle se ricorda il meccanismo dei trasferimenti. Cioè, come mai una persona veniva mandata in un posto piuttosto che in un altro?

R.:"Lo facevano in base ai posti. Non credo per politica o [per altro], lo facevano in base ai posti."

28) Quindi non si poteva scegliere di andare in un posto piuttosto che in un altro...

R.:2No, no, almeno che io sappia no. Ho sempre sentito dire ci hanno mandato."

29) Lei parte nel 1949 e, per ovvie ragioni anagrafiche, si trova a dover seguire la decisione presa dalla sua famiglia. Posso chiederle, in proposito, quali sono state le motivazioni che, secondo lei, hanno spinto i suoi genitori a decidere di partire?

R.:"Credo la libertà di vivere come si viveva prima, né più e né meno. Credo soltanto il fatto di sapere che molti se n'erano andati: Dignano è stata distrutta da questo, perché è un paese che sono andati via quasi tutti eh...Di 12.000 saranno rimasti, comprese le campagne, due o tre mila, eh! "

30) Era dunque un paese che si svuotava...

R.:"Eh, credo si si...Persino nel '52 sono venuti via, perché ho conosciuto una signora - che lei è più vecchia di me- che mi ha detto che lei è venuta [via] nel '52. E lei si è ritrovata, adesso, la casa che non era stata venduta allo stato. Come sia stato non lo so...Fortuna, non lo so! Comunque [Dignano] si è svuotata negli anni: mio papà si è deciso quando [era] già tardi, quando tanti erano andati via e allora ha detto: qui non si può far diverso. Che lui era già venuto via, da Dignano a Torino nel '28, quando c'è stata che si parla della crisi. Lui era un giovanotto, è venuto a Torino a trovare lavoro, a Torino lavorava e se non fosse stato per la richiesta del militare sarebbe restato a Torino già allora, non ci sarei nemmeno io! Perché già a quell'epoca, i giovani emigravano per trovare lavoro in altre città: Italia qui, Italia lì, prendevano il treno e venivano."

31) Quindi secondo lei il motivo scatenante la partenza è stato...

R.:"Ah, proprio per il modo di vivere, proprio decisamente. E poi il fatto di vedere che uno se ne va, l'altro se ne va, l'altro se ne va ti fa dire: ma io sto sbagliando a stare qua! Chi è rimasto è stato proprio per il fatto di non poter portare via i vecchi, perché proprio non volevano saperne di venir via. Perch anche mio zio, che poi si è finalmente convinto che stava sbagliando...Che poi farli venir via vuol dire farli morire di nostalgia, perché si sono quasi istupiditi: per loro la loro campagna, le loro abitudini...Era stato veramente serio, per gli anziani, son morti proprio di nostalgia."

32) E tra chi è rimasto c'è secondo lei qualcuno che lo ha fatto per motivi politici?

R.."Può anche essere, si, si. Qualcuno possa aver amato quel [sistema] c'era, credo di si. Che poi si sono anche sposati tra di loro, logico! In fondo bisognava vivere...I primi tempi saranno stati duri, per il fatto di essere licenziato se facevi lavoro statale, di essere controllati su cosa dicevano, di essere controllati se erano cattolici o meno...Eh beh, insomma, è stata dura anche per loro. Più che per noi, perché noi avremmo patito...Si, io mi sono fatta sette anni di campi profughi, e non è poco. A pensarci adesso non è poco!"

33) Lei arriva dunque a Servigliano. E lì cosa trova?

R.."Era un paese, una cittadina, in pianura, non in alto perché nelle Marche ci sono dei bellissimi paesi in alto che sono andata vedere quando i bambini erano grandi...Era un bel paesone, grande, e siamo rimasti appunto là questi due anni. Mio papà, forse, qualche lavoretto l'avrà fatto, ma non so che cosa..."

34) E il campo riesce a descrivermelo?

R.."Baracche, baracche come queste di Torino. Nel senso che quelle di Torino erano di mattoni e là erano forse di cemento o [viceversa]. Vagamente ricordo questo...E anche lì si mangiava ognuno per conto proprio, poi di sera suonavano e ballavano in una bracca, avevano fatto una sala da ballo, perché è gente allegra l'istriano, non è che si abbatteva! Cioè, aveva la nostalgia, si abbatteva comunque, ma bisognava tirare avanti. Era un popolo molto allegro, molto vivace il popolo istriano."

35) E il campo era fuori dal paese?

R.:"Ah, appena, appena. A dir la verità no, non era lontano dal paese. Adesso l'hanno abbattuto - adesso, chissà da quanti anni!-, perché sono andata con i bambini e non c'era più. Infatti mi avevano detto che c'erano quelle case, ma prima c'erano le baracche. [E io risposi]: si, si, grazie! Ed era vicino alla stazione, se ben ricordo, ed era appena fuori dalla cittadina. "

36) Ed eravate solo voi giuliani o c'erano anche altri profughi come, non so, ad esempio i greci?

R.."Ah, beh...Lì non mi ricordo: giuliani, fiumani, tutta la nostra razza si, che ci siamo stati dei greci non lo so. A Torino si me lo ricordo, ma là non saprei."

37) Ed era grande come campo?

R.:"Qui ne avevamo due di campi a Torino, là [a Servigliano] ce n'era uno solo e non so quante baracche ci saranno state...Bah, sette o otto...Vagamente...Non so, non ne ho idea, però non tantissime."

38) All'interno il campo aveva dei servizi come ad esempio la scuola, l'infermeria...

R.:"Lì non so neanche se ho iniziato la scuola, perché non vedo foto di scuola...Non ricordo la scuola, però l'infermeria c'era, perché quella la ricordo. Poi di altri servizi cosa potevano esserci? Ah beh, un salone mensa, perché appena si arrivava bisognava andare a mangiare, però poi ognuno si faceva le proprie cose. Poi non ricordo...Ero troppo bambina, devi andare da uno più grande!"

39) Le chiedo ancora una cosa su Servigliano: com'erano i rapporti con la popolazione locale?

R.:"Eh, questo non lo ricordo...Però non credo che ci volessero male, assolutamente. Non ne ho mai sentito parlare."

40) Mi diceva di essere arrivata a Servigliano nel '49, giusto?

R.:"Parto nel '49, e a Trieste non so quanto ci siamo stati, ma penso soltanto il tempo di dire voi dovete andare lì, e siamo arrivati a Servigliano nel '50, perché siamo partiti a dicembre. E dal '50 al '52 siamo stati a Servigliano. E poi sono venuta a Torino"

41) Prima di parlare di Torino vorrei ancora chiederle se ha qualche ricordo del viaggio da Dignano a Trieste...

R.."No, niente, niente. Probabilmente era di sera, perché se non ricordo niente vuol dire che dormivo!"

42) Quindi non ricorda nemmeno lo stato d'animo suo e di coloro che partivano con lei...

R.: "Ah beh, contenti non credo. Comunque i miei erano riusciti a portarsi via dei mobili."

43) Ecco, questo è interessante: cosa siete riusciti a portare via con voi?

R.."Mi ricordo il papà,, che ho visto anche nei mobili che avevamo alle Casermette, che erano ancora quelli del paese, che dietro ai mobili lui aveva scritto Z., con tutte le formine in modo che fosse scritto bene, ed eravamo venuti via coi nostri mobili. Si era fatto lui delle valigione con il legno che circonda e le tele, due laterali, usando quelle tele spesse, juta spessa, canapa, canapone, e le aveva pitturate di verde. E quello me lo ricorderò sempre, perché c'era da ridere, per me, adesso. Però era riuscito a portarsi via i mobili, e c'era dei posti apposta per mettere i mobili in deposito. I mobili seguivano poi la famiglia che partiva,quando arrivavano, nella migliore delle ipotesi! Nel senso che siamo andati a Servigliano e i mobili son poi arrivati, non so quanto tempo dopo, ma c'erano già gli uffici che scrivevano queste cose e poi la roba arrivava coi treni e bon."

44) E, dicevamo, dopo Servigliano arriva a Torino...

R.:"Arrivo a Torino, alle Casermette. Il papà dice: andiamo lì [a Torino] perché lassù ho del lavoro, e sono entrata alle Casermette."

45) E le Casermette come se le ricorda?

R.:"Mah, non era male...Infatti abbiamo fatto una vita felice noi bambini alle Casermette, perché la tristezza del genitore non ce l'avevamo. I bambini non hanno patito così tanto il viaggio dell'esodo: noi non capivamo mica niente...Per noi sarà stato un viaggio come gli altri...Però le Casermette pur crescendo, pur diventando ragazze, avevano in fondo tutto. Logicamente la parrocchia non mancava, perché quella ci ha seguiti tutta la vita: avevamo i nostri sacerdoti - ci portavano anche in gita - , avevamo le nostra processioni, le nostre feste di pasqua, di natale, l'oratorio e le suore. All'oratorio pattinavamo, c'era l'altalena, c'era il passavolante, ci facevano ricamare...Si vede che il comune dava la stoffa e i fili da ricamo, e le suore al pomeriggio, dopo la scuola, da una certa ora a una certa ora dovevamo andare all'oratorio noi bambini e ci insegnavano a fare la tovaglietta, a ricamare in modo da essere impegnate e non stufarsi. Però era carino, insomma. Non mi son trovata male, sinceramente."

46) E anche lì c'erano le coperte come divisorio?

R.:"Beh, la divisione...Divisione, credo, di legno...C'era il corridoio e i laterali erano tutti di legno a una certa altezza, perché sopra, siccome sono alte le baracche, era libero, e le voci si sentivano. E chi superava le sei persone...Noi eravamo in sei, avevamo la nostra camera - forse anche più grande di questa - e da una camera da letto alla cucina, mettevamo dei divisori con questo cartone ondulato o con delle coperte, in modo da lasciare la camera dei genitori con la coperta e quelle dei figli e quella della nonna, insomma...Ma la nostra fanciullezza non ne ha risentito. Detto sinceramente, non abbiamo subito degli shock. Anche perché lì, il nostro popolo, le ho detto, era un popolo molto gioviale, e ci si aiutava moltissimo a vicenda, moltissimo. Io mi ricordo un ragazzo fiumano che la sorella sua era andata in America, a Toronto, a cercare lavoro e poi ha chiamato la mamma e il figlio è rimasto a Torino da solo, e la mia famiglia e quella del vicino abbiamo avuto il dovere, quasi - cioè non c'era nessun dovere - chi gli dava il pranzo, chi gli lavava la roba, chi lo seguiva...E' stato seguito da tutti sto ragazzo: infatti, ancora ricordo che per anni e anni la mamma sua ogni natale mandava una lettera di ringraziamento e metteva un dollaro alle famiglie che avevano aiutato il figlio. E io mi ricordo che la ricevevamo tutti gli anni. E allora c'era molto affiatamento tra di noi, io non ho mai sentito baruffe. Qualche ubriaco, beh quello magari c'era! C'era una famiglia - io mi ricordo - che aveva il papà che appena finito il lavoro, magari al sabato e alla domenica si ubriacava, poverino. E la moglie - di una pazienza infinita - andava a prenderlo, se lo accompagnava a casa e se lo metteva a letto. Ma era uno di quelli che non strillava, non disturbava. Aveva lei il compito - cioè,. Se lo prendeva il compito - di andare fuori dalle Casermette a cercarlo nelle osterie, perché in Casermette non c'erano le osterie. C'erano dei negozietti, ma non bar, diciamo. E se lo portava, pian pianino a casa: che tenerezza! Già io non so se lo farei!"

47) Da un punto di vista assistenziale, si ricorda se voi ricevevate pacchi doni, vestiti, sussidi o cose del genere?

R.:"Io credo che appena arrivati se la gente non aveva lavoro, in qualche modo avevano un sussidio, perché [altrimenti] come si poteva vivere? Non mi ricordo di aver visto dei cameroni dove tutti andavano a mangiare, ognuno mangiava nella propria camera, diciamo, perciò un sussidio ci sarà stato, senz'altro. Poi ricordo che quando c'è stata l'alluvione nel Polesine, li hanno portati là dentro alle Casermette, moltissimi. E arrivavano giocattoli, e li prendevamo anche noi, perché chi va a vedere! Ricordo che in questi scatoloni di giocattoli, ci siamo serviti, noi bambini, perché quando mai avevamo giocattoli? Io mi facevo le bambole con la stoffa...E ricordo una volta, che io non sono andata dalle suore, e mia mamma mi ha trovato nel giardinetto che c'era...Diciamo che tra una baracca e l'altra era fatta ad L, e nel mezzo c'era il prato e qualcuno si faceva l'orto. Quasi tutti avevano un po' d'orto da coltivare, e io con altre bambine eravamo andate dalle suore a lavorare e ci facevamo la bambola. E mia mamma mi ha sgridata! Facevamo le bambole con una pezza di stoffa, non avevamo neanche le bambole, perciò quando sono arrivati questi regali per il Belice, noi bambini ci siamo serviti anche noi, insomma. E credo che nessuno ci abbia sgridati."

48) Lei mi ha appena raccontato una cosa interessante, in realtà già emerse in precedenti interviste,. E cioè una vita serena, quella del campo profughi, per i bambini, e infinitamente più dura per chi invece bambino non era...

R.:"Oh, le persone più anziane è stata durissima, durissima...La persona anziana nei paesi nostri era nata per lavorare la campagna, e perciò il fatto di non potersi alzare alla tre di notte, di preparare il carro con i buoi, fare magari chilometri - perché non è che le campagne fossero vicine - e poi guardare l'uva, pulire e tutto quello che fanno nelle campagne, per loro è stata una tristezza paurosa...Cosa facevano questi qui alle Casermette, poveretti? Cioè, vedo, mio papà il tempo l'ha sempre passato [con] il coro, il gioco di bocce, la partita a carte, ma i nonni, più anziani ancora, che avranno avuto settant'anni...E, insomma, a settant'anni è stata dura portarli via."

49) Tornando alla quotidianità alle Casermette, mi sembra che in campo si trascorresse anche il tempo libero: ballo, partite di calcio, eccetera...

R.:"Si, si c'era proprio le porte con tutto. Poi c'era l'oratorio, noi avevamo quello femminile e poi c'era quello maschile. Non eravamo insieme all'oratorio, perché un padiglione era delle suore - che vivevano in quelle che fanno palazzina, anche oggi davanti alla polizia li vede, che ci son due palazzine e dentro il capannone - e in quelle palazzine una aveva l'infermeria, una aveva gli uffici e una era abitata da persone, insomma. E le suore, in più, avevano una parte di una di queste casermette dove c'era il cortile, l'altalena, il calciobalilla e quelle cosa là. Le femmine erano lì, e i maschietti, vicino alla chiesa, anche loro avevano il loro oratorio, avevano, diciamo, i loro giochi. Era difficile per i bagni..."

50) In che senso?

R.."Eh, nel senso che al fondo delle Casermette c'era un camerine molto lungo, dove era diviso a metà: da una parte c'era i lavandini, e allora tutti si dovevano lavare lì il bucato e tutto lì, e dall'altra parte [c']erano i gabinetti, anche lì messi tutti in fila in comune. E beh, insomma, non era simpatico...Noi eravamo bambini, ma anche gli adulti hanno avuto i loro problemi, probabilmente. E poi c'era una sala dove si andava a stirare, perché la luce di giorno non c'era. E io non so se facevano code o meno, perché gli abitanti erano tanti, e forse ci si prenotava a giorno: tale giorno la baracca numero tre, tale giorno la quattro, e per stirare i bucati si andava tutti lì, che c'erano i ferri e gli assi, perché la luce di giorni non c'era. E di sera se si attaccava qualsiasi cosa, anche solo una radio, saltava. Ed era, insomma...Non credo che i nostri genitori abbiano goduto là dentro: han vissuto serenamente nell'attesa che ci dessero poi le case che ci hanno fatto. E ricordo quando hanno costruito le case - che avranno iniziato nel '54-55, non so quanto è durata la costruzione - , un giorno le donne hanno detto: sa, andiamo a vedere a Lucento, prendiamo il pullman e andiamo a vedere dove ci stanno facendo le case. E sono andata anche io - era dopo la scuola - e ricordo che gli operai si sono avvicinati, guardavano e dicevano: ah, ma queste case sono mica per voi, sono per i profughi! Come se i profughi fossero chissà chi! Noi eravamo già non profughi, secondo loro, e chissà come consideravano i profughi. Già la parola profugo, probabilmente, credevano chissà cosa."

51) Ha anticipato in un certo senso quello che volevo chiederle, e cioè, come siete stati accolti, sia a Servigliano che a Torino? Lei ricorda qualche episodio di discriminazione? Sa, c'è lo stereotipo dell'istriano fascista...

R.:"Ah beh, quello può anche essere, perché no? Infatti qua èa Torino] ci chiamavano slavi o croati, si che sai, e là [a Servigliano] ci chiamavano fascisti. Non solo a Servigliano, ma anche in Istria. Per i mie genitori è stata dura, noi non eravamo né uno né l'altro, eravamo della povera gente che di politica nei paesi, credo che erano pochi ad interessarsi di politica: credo che tutti avevano il loro lavoro, la famiglia e cose del genere. E qui eravamo croati, là eravamo i talianski!"

52) Lei è una donna, e mi viene in mente di chiederle ancora una cosa relativamente agli stereotipi sui profughi. Mi è capitato di raccogliere alcune testimonianze di donne istriane che erano decisamente più emancipate rispetto a quelle dei luoghi in cui erano accolte. Un'emancipazione che si trasformava spesso in giudizi ambigui, come quello, ad esempio, di essere di facili costumi. A lei è mai capitato qualcosa di simile?

R.:"Eh si, la donna parlava con gli uomini e veniva scambiata per un poco di buono. E si, nel sud può capitare, capita ancora adesso! Al sud era dovuto al fatto che erano al sud, perché io credo che qui al nord non sia mai capitata una cosa del genere. Anche perché le nostre madri sono andate quasi tute a far servizio per aiutare le entrate del papà, perciò erano rispettate veramente da tutti, ed hanno parlato molto bene delle donne di servizio istriane che avevano le famiglie che potevano permetterselo."

53) Lei dunque, personalmente, non è mai stata al centro di episodi discriminatori in quanto profuga...

R.."No, né a scuola né in giro, insomma. No, no, a me è andata bene. Ero, forse, anche troppo piccola. Probabilmente le ragazze che allora avevano vent'anni, magari parlando con i ragazzi si potevano forse fare altre idee, non so. Ma noi bambine non avevamo di questi problemi."

54) Dalle Casermette si trasferisce poi a Lucento?

R.:"A Lucento."

55) Si ricorda in che anno?

R.:"Nel '57."

56) Quindi è stata una delle ultime...

R.."Credo."

57) Posso chiederle che ricordi ha del quartiere?

R.:"Beh, era istriano a tutti gli effetti e poi c'erano i soliti greci e i libici che erano stati con noi in campo profughi."

58) E mi scusi, com'erano i rapporti con i greci?

R.:"Anche in campo profughi c'erano i greci, non tanti, non ricordo che ce ne fossero tanti. Probabilmente erano diversi di carattere dal nostro, da come mi ricordo, ma anche lì non è che sia successo chissà cosa. Perché ricordo quando facevano le processioni, e mi ricordo che c'erano anche gli inni greci, nel senso che anche loro manifestavano il loro modo di cantare, di fare la processione in un certo modo, ma non ricordo che ci siano state grandi baruffe, quello no."

59) Lei va a Lucento, dicevamo...

R.."Non c'era niente. Andavamo a scuola a piedi, fino al capolinea del 13 che era dove c'è la chiesa di Lucento, in via Pianezza, andavamo a piedi andata e ritorno. Fango, non c'era negozi, finalmente poi hanno costruito dei palazzi di fronte, in corso Toscana e allora hanno poi messo il bar e la panetteria, altrimenti all'inizio c'era anche niente. Non avevamo neanche il riscaldamento, non avevamo niente: io mi sono anche ammalata lì in quelle case, sono andata a finire all'ospedale per i polmoni, eh!"

60) Dopo anni trascorsi in campo profughi penso che comunque avere finalmente una casa abbia fatto alla sua famiglia un bell'effetto...

R.:"Si, senz'altro sarà stato piacevole, però nello stesso tempo era anche molto piccola. Perché era data, questa casa, con due camere - camera, cucina e cucinino - fino a quattro persone, e si immagini lei, era piccolina! Cioè a Trieste le hanno costruite meglio, in altre città le hanno fatte molto, molto meglio! Qui non si sa cosa pensare, probabilmente si saran mangiati i nostri soldi, non lo so! Perché, come sempre, ci sarà stato lo zampino di chi ne avrà abusato, perché sono scatole eh queste case! Non so cosa le han detto gli altri, ma son proprio scatole! Noi eravamo già fortunati ad essere in sei e a d avere due camere da letto, perché io ho dormito sempre in cucina, e anche un fratello, perché avevamo la nonna....O io e la nonna in cucine, i fratelli da una parte e i genitori dall'altra. E poi, le dico, senza riscaldamento...E non credo quindi che sia stata anche lì molto facile. Poi don Macario aveva insistito per fare il riscaldamento, ma sa, il riscaldamento fatto dopo non so se tenga lo stesso caldo di quello iniziato mentre si costruisce, perché erano tutti tubi esterni, han dovuto coprirlo ed è poi diventato un pasticcio."

61) E posso chiederle com'erano i rapporti con la poca gente che abitava nel quartiere?

R.:"Ma, le dico, io andavo a scuola. Ma non credo che ci trattassero male, non credo. Perché lì avrò avuto l'età scolastica, perciò con me no, al massimo le nostre mamme. Ma la parola profugo c'è sempre stata nelle bocche dei torinesi, anche, specialmente quelli che vivevano in quella zona e ci trovavano sul tram e sul pullman, credo. Io personalmente, giovane, giovane, e non ho compreso."

62) Mi racconta qual è stato il suo percorso lavorativo?

R.."Io sono riuscita a lavorare dopo essere uscita all'ospedale, che ero stata, appunto, un anno e mezzo ricoverata. Sono andata a lavorare alla Cassa del Mezzogiorno, che aveva fatto una scuola professionale per i giovani, che gli insegnavano il lavoro, insegnavano a lavorare: non so tornitore, meccanico e cose così. Si chiamava proprio Buon pastore della Cassa del Mezzogiorno, e ho lavorato lì qualche anno come impiegata. Poi ho fatto un concorso all'Enel e sono andata a lavorare all'Enel. Non ho avuto problemi. Prima però avevo fatto la sartina: anche là mi ero ammalata, perché ero molto giovane, molto bambina, forse non avevo neanche finito la terza media, e prendendo il freddo, dovendo prendere il pullman qua e là, mi sono poi [ammalata]."

63) Mi ha parlato di don M., una figura importante nelle ricerca del lavoro da parte dei giuliani arrivati a Torino...

R.."Beh, avendo un fratello in politica probabilmente aveva interceduto per avere i voti. Perché a noi in chiesa lo dicevano chiaro e tondo: votate tizio e caio, che era M., perciò...E siccome da noi al prete gli si voleva bene, gli si ubbidiva, e probabilmente avranno votato sempre tutti. Oltre al fatto che si era dato da fare per far mettere il riscaldamento, per fare non so cos'altro, l'oratorio. Che lì c'era l'oratorio, avevamo le suore....Le Casermette si son spostate là: la stessa cosa delle Casermette si è spostata là. L'oratorio, la chiesa, le suore, la parrocchia e cose del genere."

64) Parliamo ora della città: qual è stato il suo primo impatto con Torino?

R.:"Non mi ricordo di avere avuto effetto, non ricordo."

65) E come passava il suo tempo libero? Non so, andava al cinema, a ballare...

R.:"A ballare mai. Come lo passavamo? Non so, alle Casermette lo passavamo sempre dentro, perché eravamo ancora bambine. Quando siamo andate a Lucento lo passavamo in parrocchia: avevamo la nostra sala parrocchiale, si cantava e si facevano persino i festival di canto e quelle cose lì, alle quali partecipavo anche io perché avevo una buona voce. E poi cosa si faceva? Ah, ecco, don M. aveva un campeggio a Sauze d'Oulx, e tutte le estati si passava là un mesetto - venti giorni, tutte le ragazze. A ballare no, non sono mai andata, e poi man mano che crescevamo andavamo poi al cinema, al teatro, ma sempre in gruppi, tutte assieme. Poi avevamo i morosi e allora..."

66) Mi sembra che la chiesa fosse quindi molto presente...

R.."Sempre, sempre. Ancora adesso. Cioè nella zona lì ancora adesso, anche perché essendo molto cattolici già alla partenza, era un punto di riferimento. Ma i sacerdoti che avevamo noi, siamo amici ancora adesso, sanno vita morte e miracoli di tutti noi. Credo che abbiano più di ottant'anni, e son quelli che ci avevano poi seguito, da sempre. Nel bene e nel male!"

67) Le chiedo ancora due cose. La prima è questa: ho notato come molti esuli mantengano una memoria viva di ciò che è stato l'esodo tendendo a tramandarla anche alle generazioni future. Lei, ad esempio, ha fatto lo stesso con i suoi figli?

R..:"No, no, non l'ho trasmessa neanche al marito e nemmeno ai figli. Anzi i miei per prendermi in giro mi dicono la slava. Gli rispondo: ti do una sberla!"

68) Lei torna spesso in Istria, ne ha nostalgia?

R.."No, no, non siamo andati per tantissimi anni. Poi mia mamma aveva tantissima nostalgia: l'anno che è morta è andata due volte, cioè sentiva che stava per morire. E allora è venuta con me e i bambini a giugno, a settembre ha voluto tornare e a ottobre è mancata. Le mancava proprio l'Istria. E attualmente, adesso che invecchio, anche io ho nostalgia, perché finora direi che me ne fregava poco, [mentre adesso] mi manca la casa di là, i ricordi del fatto che papà cantava...Era un paese molto vivace: feste, erogazioni, tante chiesette...Le erogazioni sono una cosa bellissima: si partiva e si stava via anche due o tre giorni, per andare nelle varie chiesette sparse per la campagna. E quello lo ricordo perchè la nonna mi portava, anche se ero piccola. E anche la mamma. E poi, adesso, ho nostalgia, perché le nostre radici son state proprio tagliate."

69) Le chiedo solo più una cosa che ho dimenticato prima. Suo padre lavorava in fabbrica a Torino?

R.."No, non è mai entrato in una fabbrica grossa: lavorava come fabbro in via Lanzo. Che oltretutto dalle Casermette in bicicletta fino a via Lanzo non era proprio vicino. E ha sempre lavorato in un'officina piccolina. Quasi tutti erano alla Fiat, ma lui no."