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Intervista a Elio H. del 21/04/2008

1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: quando e dove è nato?

R.: "Sono nato il 4 giugno 1935 a Fiume".

2) Mi parla un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori?

R.: "Noi eravamo nella mia famiglia io, il papà e la mamma, perché ero figlio unico. Siamo venuti via di Fiume e siamo andati al Centro di raccolta profughi, che mio papà ha fatto l'opzione. Mio papà lavorava al gas, era letturista e mia mamma era casalinga".

3) Senta, lei riuscirebbe a descrivermi Fiume da un punto di vista economico e demografico?

R.: "Ma, vede, io sono nato sotto la guerra, perciò, sa com'era... In tutti i posti [c']era fame, no?! Mia mamma si arrangiava -poverina- perché faceva la sarta; andava nei paesi ad aiutare questi contadini, che mentre loro raccoglievano le patate o facevano le vendemmie e quelle cose così - dato che lei era brava sia per cucinare, fare dolci e cucire - andava lì e gli dava una gran mano a questa gente, e veniva a casa sempre col zaino pieno di burro, patate e tutta roba da mangiare. E si taconava, come dire, per la fame. Perché loro, quando che si andava in questi paesi, la gente andava coi soldi, e i soldi no li volevano loro; loro volevano o l'oro o un indumento, o un paio di scarpe, un lenzuolo, un cappotto. E mia mamma - lei qualche cosa portava - si rendeva a questa gente utile così, facendo queste cose."

4) E questa gente chi era?

R.: "Contadini, si, contadini. [A] San Pietro del Carso andava mia mamma, che sarebbe da noi chiamato Cragno, in dialetto. C'erano i cragnolini che venivano anche da noi durante la guerra, perché noi abitavamo un po' fuori di Fiume, sopra i cantieri navali. Non [c']erano ancora lì - come dire - le tubazioni del gas; noi ci riscaldavamo con legna e carbone. Legna e carbone andava bene, anche perché mio papà lavorando all'Azienda Autonoma Servizi Luce, Gas e Acqua, e allora il carbone lo portavano, ma la legna no, e allora la portavano questi contadini che venivano da San Pietro del Carso, Lippa, Luppa e tutti questi paesi. Portavano il legno, e facendo queste conoscenze, mia mamma poi andava a lavorare da loro. Lavorare... A dargli una mano, ecco."

5) Ed erano contadini italiani o slavi?

R.: "Italiani, italiani. Da noi era tutto italiano, anche se la va oggi oggigiorno. Perché si parlava... I miei nonni, per esempio, parlavano italiano, slavo, ungherese e inglese, perché i nonni -tutti e due- sono andati in America, nel suo piccolo erano delle scienze, per modo di dire, è vero? Persone che, lavorando, perché il nonno della mamma, noi avevamo una grande fabbreria, a Fiume. Che noi siamo conosciuti a Fiume non come S.-ani, ma come P.-encich. E allora -come dire-, quando sono andati in America andavano a fare i fabbri lì. Perché la discendenza di mia mamma dal bisnonno al nonno e a tutti i miei zii, lavoravano tutti dalla parte metallurgica. E invece dalla parte del nonno no. Perché i genitori della parte del nonno sono nati a Cherso, all'isola di Cherso -ne avrà sentito parlare-, e allora dalla parte della nonna erano tutti pescatori avevano -come si chiama-, avevano una piccola flotta di barche che andavano a pescare, e poi il pesce veniva venduto a Fiume."

6) E dal punto di vista demografico qual era la composizione di Fiume?

R.: "Italiana."

7) E la parte slava?

R.: "La parte slava... Vede, io c'ho qui una pianta [della città] e dopo gliela faccio vedere. Il fiume Eneo divideva Fiume italiana da Susak jugoslava: era un fiume con un piccolo ponte - che adesso è grande, lo hanno fatto di cemento e han buttato via quello di ferro -, e questo corso d'acqua divideva la parte italiana dalla parte croata."

8) Posso chiederle com'erano i rapporti tra la parte italiana e quella croata?

R.: "Ah, ma... Io ero ragazzino, vede... Lei mi chiede com'erano... Perché, per esempio, noi avevamo un pezzo di terra vicino a casa mia, che era metà italiano e metà slavo. E i rapporti erano buoni, tra il vicinato, come dire. Poi io non so nell'interno, perché essendo un ragazzo... Io sono nato nel '35, e le parlo che avrò avuto otto-dieci anni, anzi otto anni, perché quando che è finita la guerra avevo dieci anni."

9) Diciamo quindi che i rapporti erano buoni...

R.: "Buoni, buoni. Perché dalla parte di mia nonna materna che abitavano dalla parte jugoslava - perché vede, noi [dalla parte di mia nonna] siamo S-an, e c'è persino un paese che si chiama così."

10) Lei prima mi parlava della guerra. Posso chiederle quali sono i suoi ricordi in proposito?

R.: "Io, il primo ricordo [è] che ho dormito un mese con la nonna in rifugio. Pensi, l'ultimo giorno che i tedeschi facevano la ritirata, scappo via dal rifugio. E lì [a Fiume], c'erano 17.000 tedeschi, e io - avevo dieci anni, roba che potevano farmi la pelle -, mi sono intrufolato in mezzo di loro - c'era una grande colonna: carri, cavalli, camion , carri armati non so, non mi ricordo -, e vado bussare a mio padre. E mio padre dice: ma chi è? Sono Elio. E lì, può capire, ha avuto paura il papà. E' andata bene che ho portato la pelle a casa. Vede cosa può combinare un ragazzino? Poi voglio dirle che io sono stato anche ferito col gas iprite. Perché nel molo sommergibili - io abitavo vicino al mare, divideva solamente la ferrovia -, i ragazzini sperando che la mamma non guardava scappavano e andavano lì. E io avevo visto lì una catasta di barili con [il simbolo] della morte - me lo ricordo bene, proprio ieri ne parlavo con mia moglie -, e ho visto anche la sentinella tedesca, perché lì si sono rotti nel tragitto, quando hanno trasportato questi barili, si sono rotti tre barili. E lì [c']erano tre tedeschi morti, perché il gas iprite è un gas che mettevano loro, liquido, dove [c']erano i passaggi dei partigiani e queste cose qui. E un mio amico - Benito si chiamava - mi fa: guarda come scivolo bene, perché c'erano queste pozzanghere, e voleva dire che avevano lavato, ma non avevano lavato bene. Noi eravamo scalzi, e venendo a casa... Durante la notte il piede ha cominciato a gonfiare, una roba e l'altra ed era pieno di pus. Perché questo era proprio un gas che mettevano loro nei punti dove sapevano che passano i partigiani, capisce? E allora li intaccava, ma intaccava anche il vetro e la gomma: uno passava con le scarpe, e quel gas entrava dentro e portava delle infezioni. E poi, come si dice... Perché se era per i nostri dottori... Loro, non sapendo il veleno, cioè il controveleno, io morivo, mi tagliavano la gamba. Perché io ero ferito sul piede sinistro, sto mio amico su tutti e due. Povero, sto ragazzo, è persino morto. Perché avevo sentito dire che questo gas portava alla morte anche con l'andare degli anni successivi, e mi hanno curato prima al silurificio di Fiume che c'era questo grande ambulatorio. E mi ricordo che c'era anche un dottore, si chiamava Anton Munch, ed era una bravissima persona, e invece ce n'era un altro con la caramella [occhio di vetro] - che e me lo ricordo -, e quello lì era cattivo proprio, aveva come un odio per noi. E anzi, quando vedevamo che ci faceva le medicazioni, ci mettevamo subito a piangere. L'altro invece ci metteva... Perché questo male qui lo curavano con della camomilla e con il puderblac, una pasta, poi dopo mettevano un unguento e, successivamente, una polvere. E mi hanno curato prima al Silurificio di Fiume, poi questo ospedale si è trasferito ad Abbazia all'Hotel Cristallo, e con la corriera andavamo a fare le medicazioni lì. Quando che poi ero arrivato a mettere la scarpina e la mamma gli aveva fatto un kouglof, un dolce che fanno da noi, siamo andati per ringraziare questo dottore. E l'infermiera fa : Anton Munch, kaput! Perché lui era andato sul fronte russo e poi sa, li facevano anche riavvicinare, e ha trovato la moglie con l'amante. E allora ha ucciso moglie, amante, bambino che ha avuto con lui, suocero e poi si è suicidato lui. Ecco, questi sono ricordi."

11) Mi ha parlato dei tedeschi. E dei partigiani invece cosa mi dice?

R.: "Mi ricordo... Dopo ho saputo che certe staffette venivano a dormire a casa da mia nonna. E anzi, un mio zio che lavorava al silurificio... Dato che il silurificio si era trasferito a Pordenone, a Fiume Veneto, un mio zio [che lavorava lì] era venuto a casa in permesso, perché gli davano dei permessi giornalieri. E dato che la linea era stata fatta saltare dai partigiani - la linea ferroviaria che collegava Fiume a Trieste -, mio zio non ha potuto far rientro. E quella sera mia mamma gli ha detto: Orlando, non dormire a casa, perché vedi già che ritardi tanti giorni e che non hanno messo a posto sta linea, vedrai che ti succederà qualcosa. Nella notte son venuti i tedeschi, son venuti a prenderlo come che lui non si presenta, come un disertore. E poi lo hanno portato al Coroneo di Trieste, e dal Coroneo lo hanno portato alla Riseria. E [c'] era un grande gerarca che abitava vicino a casa mia, e mia nonna ha saputo di questo [fatto] qui, ed è andata a lamentarsi da lui: guarda che mi han portato via l'Orlando, così e così. Lui ha preso la moto, è andato a Trieste, e praticamente gli ha salvato la pelle, perché se no li lo mettevano nelle camere, sa quelle che bruciavano la gente e queste cose qui. Poi quando che ero bambino... Le dico un'altra cosa: quello lì che si parla degli ebrei... Perché tra noi e il mare cera di mezzo la ferrovia - la Fiume-Trieste -, e noi da ragazzini andavamo a giocare lì. Io mi ricordo che vedevo questi carri bestiame, con sempre tre o quattro vagoni giornalieri con del filo spinato, e queste mani che salutavano. Dopo, si è saputo... Vedevo questi poveri ebrei che li portavano verso i campi di sterminio."

12) Lei mi ha detto di essere nato nel 1935, per cui ha vissuto in pieno la parabola del regime fascista [interruzione]

R.: "Ah, cosa vuole che ricordi? Mi ricordo che ero figlio della lupa, quello lì si. Ho fatto la trafila come tutti i bambini. E dopo, finito quello lì, ero pioniere di Tito, perché si doveva fare, è vero? Perché, praticamente, [si doveva fare], prima sotto il fascismo, e dopo sotto il comunismo. So che mi avevano fatto una bustina bianca, quando i'era i titini, e invece gli altri avevo quel vestito [con] i pantaloncini e la camicia nera con le bande davanti, quello lì si. E poi le cose che ci facevano fare a scuola: noi eravamo piccolini, eravamo figli della lupa, e quando che [c']era certe cerimonie bisognava andare vestiti con la divisa."

13) E lei si ricorda l'ingresso dei titini a Fiume?

R.: "I titini? Me lo ricordo si!"

14) Me lo racconta?

R.: "E cosa vuole che le dica? Io poi sono andato a lavorare, sono andato a lavorare alla fabbrica di siluri di Fiume, e ho lavorato, perché a me non mi piaceva andare a scuola!"

15) Quindi ha iniziato prestissimo a lavorare...

R.: "Ho iniziato a lavorare a quattordici anni, perché io stavo per prendere la terza media e ho fatto taiola, sai cosa vuol dire taiola no? E il preside era un amico di mio papà, e gli ha detto: Valentino, io credevo che sei andato in Italia, perché tuo figlio è un mese che non viene a scuola. Come non viene a scuola?! Io andavo - facevo le medie -, andavo in Scoglietto - che si chiama da noi la scuola - e poi giravo per la città con degli amici che mi hanno persuaso di non fare quegli ultimi mesi di scuola. E mio papà, sapendo quello lì, mi ha detto: non vuoi andare a scuola? Adesso come compi quattordici anni vai a lavorare, e sono andato a lavorare. Sono andato a lavorare: ho fatto quei tre mesi - da noi si chiama la gabbia - dove uno impara a fare i suoi attrezzi - ma io praticamente avevo già buona conoscenza avendo l'officina noi a casa - e poi sono andato nel reparto giroscopio, che sarebbe stato il più bel reparto. Sarebbe proprio il cervello del siluro, e lì [c'] era già mio zio, mio cugino, tutti famosi meccanici che lavoravano lì dentro. E ho incominciato già a lavorare. Poi dovevo fare quattro ore di scuola - visto che non avevo voluto farle prima -, perché lì non si poteva passare operaio, lì potevi essere migliore operaio, e dovevi fare quattro ore di scuola e quattro ore di pratica, e dopo passavi la prova d'arte, che si chiamava da noi. L'ho passata bene il primo anno - anzi, son venuto il primo della classe - e allora dalle pause dal lavoro - dalle 10 alle 10,30 - nel salone tornitori premiavano questi ragazzi, e mi ricordo che mi avevano regalato la stoffa di un vestito che sai, era molto, perché [c']era miseria, ed ero tutto contento E poi ho fatto la seconda, quasi finita, e poi ho dovuto venire in Italia perché mio papà aveva fatto domanda [per venire]."

16) E tornando all'ingresso a Fiume dei titini?

R.: "L'ingresso dei titini... Vicino a casa nostra, sa che facevano per accoglierli bene gli archi di trionfo, mi ricordo. E bisognava farli, perché, come dire, ci han liberato. E mi ricordo che sono entrate dentro le truppe. Poi ho visto anche Tito da vicino, io. Quando che poi era finita la guerra e c'era la pace e tutte quelle robe lì, era venuto anche Tito a Fiume, e la scolaresca ti portavano lì. Il preside, tutti dovevamo andare lì ad applaudire. Vedi, mio papà gli è venuto due volte respinta [la domanda] per madre lingua jugoslava. Noi avevamo bisogno del passaporto provvisorio per venire in Italia, perché senza questo non potevi venire. Mio papà come poteva essere madrelingua jugoslava che lui ha fatto le scuole italiane? E così gli è venuto [respinto] anche ai miei zii; poi loro si sono stancati, perché quando ti veniva due o tre volte [respinto], la gente si arrendevano, capisce? E noi siamo venuti via da Fiume nell'ottobre del 1950."

17) Le chiedo ancora un'altra cosa e cioè - visto che tanto ne dobbiamo parlare prima o poi - delle foibe. Vorrei sapere se voi eravate a conoscenza dell'esistenza delle foibe e dell'uso che ne veniva fatto...

R.: "No, io no. Magari per la mia età. Io posso dire una cosa: dato che noi avevamo la casa dei nonni e la casa dei bisnonni attaccate assieme, sotto abitava uno che si chiamava M.-ini, e lui era proprio un fascistone! Ma però lo han preso e lo han portato in quelle isole - avrà sentito parlare della Dalmazia, dove c'era quell'isola che quando arrivavi lì dentro i tuoi stessi compagni ti accoglievano a bastonate, Goli Otok -, però lui dopo circa un annetto è venuto a casa. Vuol dire che.... Perché lì ne ammazzavano di gente! Ho visto dei documentari, perché molti si son suicidati, si buttavano in queste rocce."

18) Delle foibe quindi lei non ne era a conoscenza...

R.: "No, no, delle foibe no. L'ho saputo dopo, quando che ero al centro profughi. Perché [c']era una signora proprio di dove che c'erano queste foibe, che mi ha detto che alla sera quelli che non morivano - sa, quelli che cadevano sopra un altro, perché lì non si trattava di uno o due, lì erano migliaia -, quando uno arrivava giù non sulle pietre, magari sopra un altro corpo umano e salvava la pelle, ha detto che si sentiva in paese persino, perché l'eco della foiba lo trasmetteva fuori come una tromba direi. Questi lamenti, queste robe. Ma noi delle foibe non abbiamo mai saputo niente, magari mio papà avrà saputo."

19) Parliamo ora dell'esodo. Lei quando parte?

R.: "Io parto da Fiume il 26 ottobre del 1950."

20) E' partita tutta la sua famiglia?

R.: " Si, io , il papà e la mamma. Quando che dove c'era quella ferrovia dove che vedevo gli ebrei, lì son venuti tutto il mio vicinato a salutarmi. E' stato proprio un... perché io non volevo venire in Italia, le dico la verità, ero troppo attaccato alla mia terra. Anzi, quando ero al campo profughi che vedevo qualche nave jugoslava, dovevano sempre tenermi d'occhio, perché io a tutti i costi [avrei voluto prenderla]. Io ero attaccato a mia nonna Ida, una cosa pazzesca, e io volevo ritornare. Non mi piaceva, come dire, io sognavo sempre la mia terra, le mie pietre, quel mio mare."

21) Mentre invece sua nonna è rimasta lì...

R.: "La nonna è rimasta lì, però poi dopo veniva a trovarci spesso."

22) Le chiedo ora una cosa: secondo lei perché la sua famiglia ha deciso di andare via da Fiume?

R.: "Prima di tutto perché sa, quando finisce le guerre si fanno anche i trattati: mio papà ha iniziato a lavorare all'azienda nel 1924, e quando il Tito gli dice guarda che io ti posso pagare la pensione dal giorno che - come dire - ho preso possesso di queste terre... Uno per quello lì, e poi uno perché mia mamma a tutti i costi voleva venire via. Mia mamma più che mio papà, mia mamma. Se non vai via te - queste parole me le ricordo - prendo il figlio [e vado via]. Perché anche mio papà era attaccato ai suoi fratelli e tutte quelle cose lì. Se non vieni via te, prendo l'Elio e vengo via con lui. E dopo son venuti via, anche papà ha capito, perché dice: io non posso regalare a nessuno ventuno anni di servizio, dal '24 al '45, è vero? Dice, cosa faccio? Regalerebbe lei venticinque anni di servizio?"

23) Sinceramente no! Senta, lei si ricorda Fiume in quei giorni? Era una città che si svuotava?

R.: "Si, la gente partiva a scaglioni, perché anche da noi quando che siamo andati via, son venuti [la dogana], ci hanno preso quel poco di mobilio che abbiam voluto portar via. Perché noi abbiamo venduto tutto, è andata bene: mia mamma ha fatto su parecchi soldi, e ci lasciavano portar via questa moneta, poi venuti in Italia li abbiamo messi in banca. Siamo venuti via - mi ricordo- che avevamo 210.000 Lire, che allora era soldi. Adesso non valgono niente!"

24) Voi c'avete messo tanto tempo per avere il passaporto provvisorio necessario a partire...

R.: "Si, si, tanto tempo."

25) Forse anni...

R.: "Io credo che il papà appena si sono aperte queste votazioni - votazioni le chiamavano, votazioni -, abbia fatto subito [domanda]. Di solito la gente aspettava anche sei sette anni, quelli che son partiti dopo di noi."

26) Ecco, ma nel frattempo c'era in un certo senso [interruzione]

R.: "Lo svuotamento, quello si sentiva. Madonna, si sentiva sì! Dicevano: ieri è partito quello lì... Da noi, per esempio, le case rosse erano dove abitavano... Case rosse si chiamavano non perché erano comunisti... Case rosse perché erano quelle dei cantieri navali, o quelle della fabbrica di torpedo, dei siluri. [Dicevano]: ieri è partito quello, l'altro è partito quello lì, l'altro giorno è partito quell'altro. Tra di noi si vedeva la mancanza, ti manca un amico. Come son venuti a salutarmi a me, io parecchi ne ho salutati in quel pezzo della ferrovia dove che le dico che noi andavamo a giocare."

27) Volevo chiederle questo. Io ho letto dei libri su Fiume, sui quali c'è scritto che dopo aver optato, nei confronti di coloro che avevano scelto questa strada venivano attivate tutta una serie di ripercussioni, come ad esempio la perdita del lavoro, della tessera e similari...

R.: "Ah, queste cose si. A mio papà no, anzi a mio papà gli han detto... Perché mio papà è entrato dentro come ragazzino, poi è passato letturista - una volta sai che si andava a controllare i contatori - e poi è passato persino caporeparto fatturazioni il papà, perché ha fatto una grande carriera. Dicevano: Valentino, non andare via, non andare via; loro avevano bisogno di questa gente. A mio papà grazie a dio non lo hanno [licenziato], ma molti li lasciavano a casa, ti lasciavano proprio nella grande miseria. [C']era già miseria, poi non portando neanche quei pochi soldini a casa, cosa faceva la gente? Veniva aiutata da chi, dai parenti. Era successo, era successo quelle cose lì."

28) Le faccio ancora una domanda: lei mi ha detto di essere andato via per tutta una seria di motivi. Nel frattempo c'è stata però una parte - seppur minima - di italiani che sono invece rimasti.

R.: "Si, i monfalconesi son venuti lì, ma loro sbandieravano! Perché la propaganda è terribile."

29) Lei quindi li ha visti i monfalconesi...

R.: "Si, come no, da noi! Dove che le dicevo quelle case rosse, dove che la gente andava via, l'alloggio restava vuoto, e glielo davano a loro. Loro erano privilegiati, perché quelli lì non erano altro che i comunisti italiani che andavano lì, capisce? Perché credevano che il comunismo è chissà che cosa, capisce? Come i comunisti italiani che sono andati in Russia e gli han fatto la pelle o li hanno mandati nei lager dei lavori forzati. Ma molti monfalconesi dopo non li volevano lasciar tornar via, capisci? Dicevano, vai via e che réclame mi fai di qui? Mi capisci?"

30) E tornando invece ai fiumani che sono rimasti lì, secondo lei perché hanno fatto questa scelta? Era dettata da motivi politici?

R.: "No, no. Ma molti anche , come dire... Han fatto questa scelta perché ma, sono anziano, non ho i figli da proporgli un avvenire... Bisogna vedere come ragiona uno. Io gli dico una cosa: se qualcuno mi regalasse un fiume d'oro, io non ritornerei mai più lì. Sa perché? Perché Fiume è una città di frontiera: prima [ci] sono stati gli austro-ungarici, che mio nonno, anzi il mio bisnonno - e questo me lo raccontava mia mamma - amava l'Austria Ungheria. Perché le dico che i miei vecchi han fatto le scuole e sapevano parlare italiano, slavo, ungherese e tedesco, perché? Per via di quello lì. E lui, il nonno, diceva ma pussa via sti comunisti, lassa via, non li poteva vedere il bisnonno!"

31) Parliamo del suo viaggio. Lei parte da Fiume come, in treno?

R.: "In treno."

32) Fino a...

R.: "Fino a Opicina. A Opicina faccio una notte e poi mi mandano al Centro smistamento profughi di Udine. La notte l'ho passata a Opicina, e lì anzi, abbiamo trovato una cugina di mio papà."

33) Ma perché lì a Opicina cosa c'era?

R.: "Un piccolo campo profughi, e quando era pieno dovevano imbarcare via la gente, e tre giorni li ho fatti a Udine".

34) E lei Udine se lo ricorda?

R.: "Oh, me lo ricordo, me lo ricordo. Era una caserma, e c'era un salone che avrà avuto un duecento brande. Eravamo in tre persone... Perché lì era sezionato maschile e femminile: io, il papà e un altro signore in questo grande salone con tre persone dentro, si immagini un ragazzino di quindici anni e mezzo o sedici, che ha dormito sempre in un bel letto a metterti lì senza lenzuola e senza niente. Quello lì è già stato un brutto impatto per me. Poi di là ci han preso, e siamo partiti una comitiva. Mi ricordo che li ci avevano fatto anche delle domande, [c']era una commissione che chiedeva al papà e a me dove avevamo lavorato, cosa facevate - l'ho detto, si facevano ancora dei siluri, no? - e queste cose qui. Poi siamo arrivati a Barletta."

35) Ecco, perché da Udone vi han mandato a Barletta...

R.: "A Barletta."

36) Ma sa dirmi come funzionava che si veniva trasferiti in un posto piuttosto che in un altro?

R.: "Ah, non è che lei andava dove voleva lei. Lì [c']era una commissione che diceva. Questi qui vanno a Barletta."

37) Lei quindi arriva a Barletta e va in un campo profughi...

R.: "Mi ricordo che pioveva, e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero, ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando [c']era la piena, perché sa, e poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio. E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus - e l'ho ancora giù in cantina - , mi ricordo, brutti ricordi."

38) E la vita di campo come funzionava?

R.: "Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare e tutte quelle cose lì, ma la doccia era obbligatoria [per] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C'era dentro un'infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c'era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C'era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: [c']era due brande, una sopra all'altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, come dire, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c'era un direttore mandato da Roma e tutte quelle cose lì. Eravamo inquadrati bene per conto di quello lì. Anzi, il vicedirettore si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Non vuol vedere, era dietro di lui e l'ha preso in cattivo occhio. Poi il papà aveva il compito di andare a prendere i medicinali e tutto quanto per l'infermeria che avevamo, e la mamma invece... Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine, si chiamava M.-ese, che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti, e la mamma gli faceva da mangiare e gli lavava e gli stirava, perché quella lì era una grande signora. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio. E il genero, che era procuratore del tribunale di Trani, quando rientrava diceva: ah, si vede che oggi ha cucinato l'Elvira! Perché noi, non per dire, ma dalle nostre parti le donne sapevano fare da mangiare bene, perché la cucina da noi era slava, italiana, austriaca e ungherese, e allora le donne sapevano far da mangiare tutto."

39) Nel campo voi avevate qualche tipo di assistenza come ad esempio vestiti o pacchi dono?

R.: "No, no, niente, niente. Per conto di quelli là niente, da noi. So che non mi hanno neanche mai dato un paio di calze. Quello che avevamo è che dato che c'erano molti cinema a Barletta - mi ricordo il cinema Curci, Di Lillo, Paolillo, Eden - e allora cosa facevano sti signori, i padroni dei cinema? Davano tutte le sere cinque o sei biglietti per i profughi, ma cinque o sei di ogni cinema. E poi ti mettevi sulla bacheca fuori: guarda, sono fortunato, stasera vado al cinema! Perché non avevi i soldi neanche per il cinema, capisce?"

40) C'era quindi una specie di estrazione?

R.: "No estrazione, ti mettevano in lista, ma prima che andavi, su 350 o 400 persone, prima che ti arrivava il tuo turno era dura!"

41) Su Barletta le chiedo ancora due cose. Mi ha detto di aver lavorato, ma la gente lì dove andava a lavorare?

R.:"Campagne, tutto campagne. Lì non c'era un'industria, c'era la cementerai di Barletta e basta. Il resto eran tutti pescatori o campagne. Perché mi ricordo che vicino a noi - il campo era in via Manfredi 24 - partivano già alle 4 e mezza di mattina con quei camion dalle ruote grandi, sa, e andavano a lavorare nelle campagne. Poi quando ritornavano mangiavano -noi dicevamo- come gli indiani, perché avevano un piatto unico e mangiavano. Noi non eravamo abituati a vedere quelle cose, almeno uno, appena li vedeva diceva: ma che razza di gente è questa qui! Io non dico che Barletta era tutta quella cosa lì, ma la parte periferica dove che eravamo noi in campo, era proprio che li vedevi magiare con le mani, coi piatti grossi di alluminio. Cime di rapa con la pasta... Io non dico che tutta Barletta è così. Poi un'altra cosa: quando andavi in pescheria, che lì quando fanno i mercati fanno un casino da matti, mangiano il pesce crudo. E noi abituati alla buona cucina, vedevi quelle cose e ti meravigliavi, no?"

42) E quindi i profughi lavoravano anche loro nelle campagne?

R.: "No, no, i profughi erano solo profughi. Per un certo periodo mio papà aveva preso la disoccupazione, però poi sai, te la danno una volta e poi bom."

43) A Barletta la gente come vi ha accolto?

R.: "Ma, non male, io dico la verità Molti dicevano i profugacci, ma molti venivano... Perché dato che da noi si ballava... Lì invece per il corso, dove che vendevano ste radio, i dischi e quello lì che attaccavano la musica, vedevi ballare. Coppie di ragazzi con ragazzi, e noi guai, sa! Come le nostre ragazze quando andavano al mare, ci venivano a spiare, perché le sue andavano coi vestiti praticamente, e le nostre in costume. E molti ragazzi - quasi tutti i sabati si ballava da noi -, gli amici, ci siamo fatti delle amicizie anche a Barletta. Era brava gente, io non posso dire niente di male. Perché certiduni trovano da dire, ma dove sono andato io grazie a dio ho trovata brava gente. Barletta, io non posso dire niente di male."

44) La cosa interessante sulle ragazze l'ha detta lei in un certo senso adesso. Il fatto che le donne istriane fossero aperte, ed emancipate - forse più di quelle italiane - dava adito - e l'ho riscontrato in alcune testimonianze - ad apprezzamenti poco simpatici da parte dei locali, come quello che fossero di facili costumi...

R.: "Facili costumi, ma però bisognava provare! Può darsi che sia stato detto, ma tra il dire e il fare ci sta di mezzo il mare! Però, vede, quando venivano da noi dentro che si ballava, erano tutti contenti, perché loro guai! Lì mi trova giusto che loro - dato che guardano molto -, la mamma va al cinema con la figlia e il fidanzato, e poi molte le vedeva incinte. Perché le nostre ragazze erano libere, però avevano la testa. Invece quelle lì appena potevano gli scappava il peccato, inutile che le dica cosa facevano! Le nostre invece ragionavano, erano serie e brave ragazze. Prima di dartela sa, ci pensavano, invece quelle lì appena trovavano il momento, trac, gli scappava il figlio! Vede che roba?!"

45) Da Barletta lei viene poi a Vercelli...

R.: "Vengo a Vercelli il 1 giugno del 1952."

46) Come mai?

R.: "Mio papà aveva già ricevuto il posto di lavoro, lavorava già da un mese. Papà è venuto il 1° maggio, io son venuto al 1° di giugno. E il papà ha lavorato all'Azienda, che gli han dato un posto qui. Però, le dico, l'impatto per noi qui non è stato tanto bello."

47) Mi racconti...

R.: "Ah, perché uno che veniva da via era un fascista, capisci? Perché qui è una città rossa, no? Rossa... Che poi non son dei comunisti questi qui, perché professare il comunismo ed essere comunista è un'altra cosa. Son venuto qui, che il papà lavorava. Da Roma gli è arrivato il posto di lavoro all'azienda del gas, da Roma l'azienda del gas gliel'ha dato qui. Puoi capire, qui essendo città satellite, perché qui Cappuccini comunisti, rione Canadà comunisti, tutti. Solo noi eravamo fascisti, capisci? Poi io ho fatto un po' il meccanico, ma non andava, perché lì dove lavoravo era tutta un'altra cosa [da] qui, un'altra specie di meccanica. Poi un signore, un profugo che lavorava all'azienda e faceva anche l'autista del presidente - il presidente era un socialista, ma una brava persona - mi ha trovato un posto di lavoro al Municipio, al comune. E han detto così: Elio, andrai ad accendere le caldaie, e va bene vado ad accendere le caldaie. Poi mi presento e quello che doveva assumerci dice: no, devi andare negli stradini. E vado negli stradini; sa, non ero ancora preso, e sono andato a comperarmi il badile. Il mattino che mi presento alle Scuole Principe, viene un signore e dice. Chi si chiama Elio H.? Sono io. Vieni con me nella squadra dei pittori. Sono andato nella squadra dei pittori e son rimasto nella squadra dei pittori: ho cominciato tutto il mio tirocinio, son passato operaio qualificato, specializzato, capo operaio, ho preso i sette anni, li ho salutati e sono andato in pensione. Perché vai via Elio? Perché -gli ho detto- qui non è più lavoro, qui è tutto preferenza dei partiti. Mi mandavano uno e mi diceva: mi manda l'assessore -e non faccio nomi-, gli davo un lavoro e mi diceva vaffanculo, e son successi dei casi. A me mi manda quel signore lì, socialista, e allora ho detto: no, no, questo qui per me non è così. E ho parlato col sindaco Biardi - questo qui era una brava persona, era un comunista - e mi fa: gli ho detto Ennio - pensi, era sindaco e voleva che gli dia del tu, io ero capooperaio! - sti sette anni, cosa pensi? Elio, vai via, perché qui si prevedono anni brutti. Sa, lui poi aveva anche contatti con Roma, una robe e l'altra... Se avevo pochi anni magari non andavo via, ma avendo ventotto anni di servizio e sette trentacinque...Poi ventotto anni no, perché ho fatto il militare... Sono andato via con la pensione e bon."

48) Lei a Vercelli è venuto ad abitare subito in questa case di via Udine?

R.: "Noi no, siamo andato ad abitare in viale Rimembranza, era la casa dell'azienda: era ventiquattro alloggi, quattro del comune e venti dell'azienda. Nel frattempo avevano costruito queste case, che sono case dei profughi, perché i signori di Roma si sono dimenticati di noi. Dovevano darci queste case, ma visto che qui proprio gestito dai comunisti le case popolari, che cosa succede? Han stracciato, perché queste case a noi non dovevano neanche farci l'equo canone, dovevano darcele come sono state date in tutta l'Italia. Sono state fatte case coi beni di guerra, e quindi non han tirato fuori [soldi] gli italiani, i beni di guerra li davano gli americani, come lo sa."

49) E si ricorda in che anno sono state costruite?

R.: "Queste case sono state costruite nel '58."

50) Quindi più tardi rispetto ad altre città...

R.: "Si, perché vuol dire che [c'] era poco flusso di profughi qui. [C']era quelle poche famiglie più vecchie qui, ma eravamo pochi profughi."

51) Quindi, che lei sappia, a Vercelli di case dei profughi ci sono solo queste qui....

R.: "Solo queste qui. E certe famiglie gli avevano dato viale Rimembranza, che erano anche quelle lì case popolari. Poi anche vicino alla Chatillon, che erano case popolari."

52) Lei prima mi diceva che a Vercelli non vi siete trovati subito bene. Mi spiega il perché?

R.: "Perché noi eravamo sempre segnati come pecore nere qua dentro, dei fascisti. Anche oggi giorno che ci sono le elezioni, c'è certi d'uni che vengono qui al bar... Il sindaco del Canadà mi dice: ah, vardlu lì, so già per chi vai a votare! Gli ho detto: stai tranquillo che per mortadella non andrò a votare io di sicuro, voto per chi voglio io, e te lo dico anche per chi voto."

53) Quindi quello dell'esule fascista è stato uno stereotipo molto diffuso e ripetuto....

R.: "Si, perché noi ai Cappuccini, era una zona che guai, non si poteva neanche andare lì se sapevano che sei un profugo. Io non so chi gli ha messo questo qui in cervello, perché lì, mia dia retta a me, uno che era veramente fascista non l'hanno lasciato andare via, gli han fatto la pelle. Uno che ha fatto del male, fascista intendo dire... Perché mio papà ad esempio, io ho un mucchio di fotografie col distintivo del partito, ma perché dovevi metterlo, magari anche perché ci teneva ad essere. Ma non fasciste della prima ora - come dicono quelli che han fatto del male -, ma lì per avere un posto di lavoro dovevi avere il suo distintivo. E' come qui, che adesso non ce l'hai, ma ce l'hai. Ce l'hai e non ce l'hai!"

54) Ecco, ma questa cosa penso sia stata superata negli anni...

R.: "Ma si, adesso dai, non si guarda quelle cose lì. I primi anni per noi non erano belli. Anche in comune sa, qualche assessore o qualche cosa ci diceva tu sei venuto via e sei venuto a mangiare il pane nostro. Anche qui dei ragazzi hanno detto: voi, che cazzo avete da lamentarvi che vi han dato la casa, il lavoro e tutte quelle robe là. Qui, proprio nella zona, che poi mi son fatto amici che sono tutt'ora amici. Ma c'hanno sempre quelle roba in testa che noi siamo stati privilegiati, che le case per loro non c'erano ma per noi c'erano. E' un diritto in percentuale, è vero?"

55) Quindi, se non ho capito male, l'altro stereotipo che vi accompagnava era quello - mi scusi le parole un po' crude - di venire a rubare il lavoro?

R.: "Si, si, rubare il lavoro. Sai perché lavoriamo - gli dicevamo -, perché siamo capaci a lavorare. Perché io, grazie a dio, non mi dia solo da fare l'elettricista, poi le farò tutto. Perché apprendo mestiere; il mestiere bisogna impararlo con l'occhio diceva un mio zio, e non futizzare il lavoro. Perché se impari male il lavoro, lo farai male per tutta la vita. Io perché lavoravo in un reparto di precisione, al giroscopio, che è il cervello del siluro, e forse da lì ho tirato fuori nella mia mente questa regola, e cioè che per fare un lavoro bisogna farlo bene. Impieghi lo stesso tempo, farlo bene o farlo male, anzi, farlo bene forse ci impieghi di meno, perché dopo non lo devi rifare."

56) A Vercelli suppongo che poi con il passare degli anni i contrasti si siano appianati e sia arrivata l'integrazione. Posso chiederle come è avvenuto questo passaggio?

R.: "Ma, con le amicizie: ti fai amici e quelle cose lì, perché non tutti i vercellesi la pensano come ho detto. Però eravamo... Anzi, andavamo in un bar - il bar Parenti - che era nominato il bar dei fascisti, a Vercelli."

57) Ma perché c'eravate voi?

R.: "No, proprio in generale. E chissà come, primo impatto, tac, in piazza Cavour andavi nel bar lì. E' dove andavano quasi tutti i profughi; quasi tutti i profughi andavano al bar Parenti. Ma si, poi quelle cose lì... E' più star bene e volersi bene, è vero?"

58) Posso chiederle come passava il suo tempo libero?

R.: "Io e il mio amico Piero F.. - che abita qui e che è morto, poverino - [andavamo] tutte le sere al cinema. Poi andavamo a vedere la Pro Vercelli di domenica, facevamo la nostra partita a biliardo - ero accanito giocatore di biliardo, mi piaceva molto giocare al biliardo -, andavamo al bagno al Sesia. Io ho tirato fuori cinque persone dal Sesia - sa, stavano annegando - e non ho mai dato il mio nome, perché io ero un nuotatore terribile, dei tuffi! Mi buttavo dal ponte del Sesia! Quando dicevano... Ah, non so niente io... Sa che molti tirano fuori uno dall'acqua che sta per annegare e poi danno il nome; io non ho mai voluto dare quello lì. [Ne] ho salvati uno in piscina, e quattro o cinque al Sesia."

59) Lei come ha trovato lavoro? Le faccio questa domanda perché ad esempio, a Torino, molti esuli sono stati aiutati dal prete del campo profughi e del villaggio giuliano, e volevo sapere se per lei è stato lo stesso...

R.: "No, le dico, quel signore del partito socialista, mi ha fatto del bene a me. E mi si è avvicinato per dirmi che andavo a lavorare lì sempre mediante un nostro profugo, che è venuto in Italia prima di me e che lavorava già col mio papà a Fiume sto signore. E ha detto: voglio darti una mano a mettere a posto il figlio, ed è andata bene. Perché vedi, noi avevamo paghette piccole e mia mamma sempre insisteva: vai a Torino, vai alla Fiat guadagnerai qualcosa di più! Ma mio papà diceva: guarda, una goccia è una goccia, mio papà la pensava così. Perché se andavo a Torino, non prendevo i sette anni."

60) Le chiedo ancora questo. Lei a Fiume è più tornato?

R.: "Eccome! Son ritornato dopo. Perché, per esempio, mio papà e mia mamma andavano, ma io non potevo, perché non avevo prestato servizio militare. La prima volta che sono andato, sono andato dopo sposato, che avevo già la bambina. Perciò sono andato nel '63 o nel '64, dopo tanti anni. Andavo poi tutti gli anni, ma dopo che mi è nata la nipote non vado più."

61) E ha nostalgia?

R.: "Ah, il mare, sempre! Anzi, mia moglie quando parla coi parenti dice: patisce troppo, patisce troppo. E patisco troppo! Noi avevamo tre case a Cherso - sa che gliel'ho detto prima - e han venduto due case senza dire niente al sottoscritto, per la parte del papà. Mentre una mi hanno chiesto se voglio ripararla, perché è venuto giù il tetto. E dico: ma come, il comune di Cherso mi chiede se voglio ripararla e le altre due le han vendute. Vede che anche lì fanno queste cose qua?"

62) Ecco, perché mi scusi, trasferirsi da Fiume a Vercelli deve averle fatto un certo effetto...

R.: "Come mi trovo qui?"

63) Si, ma vorrei anche sapere qual è stato il suo impatto...

R.: "Beh, la malinconia c'è sempre. L'impatto è stato... eh, manca il mare, ma anche senza mare si può vivere. Io appena sono andato in pensione - che sono andato giovane - tutti gli anni andavo giù quaranta giorni e veniva anche la moglie. Poi vede, la moglie non è mai stata... Non le attirava andare giù; veniva così, perché avevamo due figli e sapeva che il mare gli faceva bene ai ragazzi."