1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?
R.: "Sono nata a Parenzo il 1° luglio 1950."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...
R.: "Di qua o di là?"
3) Di là, prima...
R.: "Allora, di là [a Parenzo] è una storia un po' particolare, perché mio padre viveva sulla costa, a Parenzo. Lui era di Parenzo e quindi era considerato cittadino, perché Parenzo è la gemma dell'Istria, eccetera. Lui faceva il macellaio, però avrebbe avuto tutte le possibilità di studiare, perché i suoi avevano una macelleria di proprietà già dal tempo degli austriaci, perché lì, sotto gli austriaci, c'era Dio e Francesco Giuseppe! E lì si sono arricchiti mio nonno e mia nonna. Loro venivano dall'interno, dai paesi della campagna, solo che mia nonna è venuta lì a Parenzo perché a cinque anni è rimasta orfana di madre, e avevano tutta una proprietà - lì le chiamavano le ville -, avevano tutta una villa, cioè un villaggio coi contadini, una masseria, non so come si possa dire... Erano ricchi, solo che quando è morta la mamma di mia nonna, che è nata nel 1883, il padre e i fratelli - [soprattutto] il fratello più grande - hanno mangiato tutto [il patrimonio]: giocavano, andavano a donnine, facevano tutte ste cose. E infatti [a volte] ai contadini che arrivavano al mattino [a lavorare] dicevano: no, questa terra non è più vostra, perché l'avevano persa con sti giochi d'azzardo. Quindi, purtroppo, mia nonna è venuta a servire, e lì ci sono tutte ste vicende che lei ci raccontava - e non sto a dilungarmi -, e ha incontrato mio nonno che aveva la macelleria, ed era vent'anni più vecchio di lei, perché mio nonno era del 1863. Ed era un bel donnaiolo, mio nonno! Si son conosciuti, [solo che] per quel tempo convivere non era molto facile... E poi è nato mio padre - mio padre è nato nel 1920 -, e quindi si immagini l'età dei genitori. E' nato mio padre, alla vigilia di natale, e dopo un anno si sono sposati, quindi era un po' scandaloso a quel tempo. Quindi, mio padre [i suoi genitori] desideravano che studiasse, solo che era un po' donnaiolo anche lui, aveva preso dal proprio padre, e poi gli piaceva questo lavoro, il macellaio, e quindi [lo ha esercitato]. Invece mia madre era dell'interno, era di un paese che si chiama Lacosselzi [Karoi], e anche lei era di una famiglia che stava bene, molto religiosa. Il padre, cioè mio nonno ovvero il padre di mia madre, non era granché di famiglia, e ha sposato la madre [di mia madre] che era ricca, e anche lì avevano ste terre con i vari contadini che venivano. Però mia mamma non aveva certo la stoffa della contadina: era prima figlia, le piaceva molto agghindarsi e vestirsi, era in casa che curava le sue piante, faceva dolci, eccetera. Lei avrebbe desiderato molto diventare maestra e, non a caso, ha fatto poi studiare noi [me e mia sorella]. E mia mamma era di famiglia molto religiosa: infatti aveva una trentina di figliocci, perché essendo di famiglia che stavano bene, chiamavano lei, e lei regalava i pezzi d'oro, eccetera."
4) Ni diceva che voi siete due figlie, giusto?
R.: "Si. Poi i miei si sono incontrati, perché mio padre, sotto il comunismo... Ecco, quando hanno messo poi che c'è stata la guerra, eccetera, mio padre era anche di idee un po' socialiste, ed è stato anche lui nel partito, aveva degli amici. Insomma, nei paesi poi ci si conosce... Mio padre faceva la bella vita: andava a Trieste [a vedere] l'operetta, gli spogliarelli, l'opera. A lui piaceva il teatro, il balletto... Insomma, lui si è divertito! Poi ha incontrato mia mamma casualmente, perché una parente di mia madre [aveva] i figli che erano scappati con sti barconi, erano andati qui in Italia. E allora poi i comunisti si son beccati la famiglia, l'hanno messa in galera e infatti questa zia di mia madre ha perso tutti i capelli dallo spavento. Quindi mia mamma andava a trovarla in prigione e lì ha incontrato mio padre e si è innamorata, si è innamorata del cittadino e si sono sposati, nel 1949. Però mio padre nel frattempo gli avevano socializzato la macelleria, ma lui non aveva problemi, perché era un uomo buono, di idee socialiste. Però poi ha provato a entrare lì nel partito: lui aveva la sua macchina privata, andava nei mercati, sceglieva il bestiame perché poi lo davano alle caserme, ai ricoveri, eccetera. Però poi si è reso conto [delle difficoltà]. Mio padre parlava solo italiano, tra l'altro, e si è reso conto che non si poteva stare lì, perché c'era un regime. Cominciavano già sti capetti... Poi lui che parlava solo italiano anche se aveva degli amici... Era capitato una volta che dei conti non tornavano, e mia madre mi raccontava che mio padre tremava. Perché lì potevi essere innocente quanto vuoi, ma se qualcuno ti aveva in odio [iniziavano i problemi]. Perché c'erano gli interessi privati sul bene pubblico. E quindi mio padre, quando si è sposato con mia madre questi del partito gli hanno detto: noi ti paghiamo macchine, ristorante, ricevimento se tu non ti sposi in chiesa. Mio padre ha detto: io non posso, io non mi sposerei in chiesa, ma mia moglie è talmente [credente]... Lei [se non mi fossi sposato in chiesa] non mi avrebbe mai sposato, e quindi mio padre si è sposato in chiesa. E poi io son nato nel '50 e mi hanno anche battezzato. E lì battezzarsi, in quel periodo, era molto [difficile]. Però mio padre doveva fare i conti [con mia madre]: lui non è che era molto credente, però mia madre si. Insomma, si amavano: mia madre era di chiesa e non lo avrebbe mai sposato [se non si fosse sposato in chiesa]. E in quel periodo, anche, cosa succedeva? Mia madre era anche un po' così, perché quando c'erano questi figli di questi capoccioni [del partito] che non volevano far battezzare i figli, d'accordo tante volte con le mamme, li portava di nascosto in chiesa a farli battezzare. Infatti mia mamma mi raccontava che un grosso capoccia - era un militare - una volta le ha messo [puntato] la pistola [alla tempia] e le ha detto: se io sapessi che hai fatto battezzare mia figlia, io ti sparo all'istante. E questo era amico di mio padre... E in effetti l'avevano fatta battezzare, solo che sta creatura non stava bene e nella notte è morta. Quindi, vede, ci sono queste vicende, erano momenti così. Oppure quando mi portavano a passeggiare con la carrozzina [sul] lungomare lì a Parenzo, se due o tre persone parlavano insieme c'erano già tutte le spie. Li chiamavano, l'OZNA, e gli dicevano: cosa vi siete detti, cosa avete fatto... Cioè, hanno creato proprio un regime di terrore. Questo è vero, che c'era proprio questo regime di terrore. Poi la nostra casa l'avevano subito ben adocchiata e quindi siamo poi venuti via. Va beh, ma lei ste storie le sa meglio di me!"
5) Si, immagino, ma ne parleremo meglio dopo. Vorrei chiederle, ora, se riesce a descrivermi Parenzo. Cioè che paese era da un punto di vista economico e sociale?
R.: "Da come mi raccontavano i miei genitori... Allora, Parenzo è la gemma dell'Istria. E' una zona dove all'interno, nei borghi, c'era la campagna, e quindi c'erano i contadini, però c'era già allora anche la zona proprio turistica. Era un posto dove già Francesco Giuseppe e [altri] nobili venivano in villeggiatura, e quindi lì ci sono i famosi hotel che hanno tutta una storia. Uno adesso è chiuso, anche se io è da secoli che non vado... Era una città dove si stava bene, certo. Mio padre, le dico, aveva la macelleria, ma c'erano poi i pescatori, i negozianti. Ecco, soprattutto i negozi, perché c'era questa via centrale, la via Decumana, che era proprio fiorente di negozi."
6) Dal punto di vista della distribuzione della popolazione invece qual era la situazione?
R.: "Lei va in centro ancora adesso e di italiani ne trova... Anche perché questo è da dire, a onore del vero: è un po' come i terroni che vengono qui e che hanno dovuto adeguarsi. Quelli dell'interno, i contadini sono sempre... E lo vediamo anche in Piemonte: cosa dice di quelli di Cuneo? I barot, e cose così. E quindi è vero che il contadino che arrivava [era visto con sospetto]. Mia madre, le dico, aspirava a sposare uno di città, non avrebbe mai sposato un contadino. Infatti mi decantava sempre le mani di mio padre, di come era elegante, di come si vestiva... Però, tornando alla domanda, credo che non è un errore dire che a Parenzo c'era un miscuglio di gente. Poi, certo, c'erano le differenze - che sono differenze che si trovano anche adesso - tra chi sa e chi non sa, tra la persona che è colta e quella che non ha, tra chi ha soldi e chi non ne aveva. C'erano queste distinzioni che ci sono [anche oggi]."
7) In queste differenze, forse, rientra anche un termine dialettale: s'ciavo...
R.: "Ah gli s'ciavi, si, si, giusto! Si, si, è vero. Mia nonna era una s'ciava ad esempio, era dell'interno. Mia mamma era una s'ciava, però lei non si è mai ritenuta tale, s'immagini. Gli s'ciavi erano altri: cioè, lei era di una famiglia dell'interno ma stava bene."
8) Si ricorda se ci fossero delle discriminazioni verso quegli elementi della popolazione definiti come s'ciavi?
R.: "Ma io non ho mai sentito. Io dalla mia famiglia non l'ho mai sentito: è una cosa - questa - che ho sentito, ma è molto lontana, non mi appartiene, perché anche [alcuni] tra i miei parenti lì erano contadini. No, la cosa che io ho sentito molto nella mia famiglia e in quegli [nella popolazione] dell'Istria è questa cosa dell'Austria."
9) In che senso questa cosa dell'Austria?
R.: "Ciò che l'Austria ha lasciato in queste terre. Cioè, s'ciavi o non s'ciavi, cittadini o non cittadini, hanno avuto l'imprinting dell'Austria, che l'Austria ha fatto delle belle cose. Allora, mentre qui sappiamo che nel lombardo-veneto l'Austria era veramente odiata, nelle terre istriane l'Austria ha fatto solo del bene. Perché mi raccontava mia nonna che, ad esempio, non so, se un raccolto non andava bene, i contadini non pagavano le tasse. E questo mi dispiace dirlo, perché mia nonna diceva sempre: attenzione, quando arriveranno gli italiani vi metteranno le tasse anche sui giri della ruota! Cioè, c'era proprio la fama dell'italiano che arrivava e che ti riempiva di tasse. Mentre nel discorso di mia nonna l'Austria [era vista come lo stato] che ti veniva incontro, che capiva le esigenze di tutti."
10) Tornando alla domanda precedente: posso chiederle, secondo lei, com'erano i rapporti tra la popolazione italiana e quella slava?
R.: "Mah, anche da mia madre io non ho mai sentito un astio... Mia nonna invece... Ecco, mia nonna era venuta a dieci anni a servire in città, a Parenzo. Certo che mi raccontava delle storie, dalle padrone dov'era, di quando chiudevano il pane, che non poteva mangiare il pane e le davano il pane duro, di quando i bambini avevano delle malattie esantematiche e li chiudeva lì e stava quaranta giorni - o quanto era il periodo - lì dentro. Che lei era piccolina - ha iniziato a servire a dieci anni - e praticamente i genitori non si avvicinavano per paura di contagi. Però questo non so se è una discriminazione legata al fatto che fosse una s'ciava o al fatto che fosse una serva, una povera donna, non so. Però l'altra cosa che devo dire è che mia nonna... Ad esempio lei parlava in slavo con il marito, ma con il figlio ha sempre parlato l'italiano, mio padre non sapeva lo slavo, forse questo è un sintomo. Ma il fatto è che mio padre andava a scuola italiana. Anche mia mamma è andata a scuola italiana, e aveva un amore per la sua maestra, che era di Taranto. Lei ricordava la sua maestra italiana che era venuta in Istria dalla bassa Italia. Però, nello stesso tempo, c'era il regime fascista, e mia mamma è andata a casa un giorno e ha detto a suo padre: mi dai questi soldi per la mensa, perché dobbiamo pagare? E il nonno ha detto: io non pago nulla, perché tu non hai bisogno di mangiare, di avere la mensa popolare. Tu non hai bisogno di queste cose, vieni e mangi a casa. Però forse, anche questo, è un esempio di orgoglio personale. Perché, mi diceva mia mamma, che loro avevano il pane bianco, [mentre] nella sua classe c'erano bambini che avevano il pane nero e barattava: lei aveva voglia del pane nero e dava [in cambio] il pane bianco. Quindi, vede, io noto tante cose più legate alla povertà e alla ricchezza più che alla cosa etnica. Io ho sempre notato più queste cose nei racconti dei miei familiari. Poi mia mamma mi diceva che vestivamo da piccola italiana, però io questa cosa anche fascista da mia mamma non l'ho appresa. Mia mamma ha dei ricordi bellissimi della scuola, delle maestre, e di quel periodo ho solo questi episodi, [come quello di] mio nonno che non voleva la tessera. Ecco, mio nonno della campagna diceva: io tessere fasciste non ne voglio. E per avere anche quella mensa lì, si doveva fare la tessera [al partito fascista] e i miei di tessere non ne volevano. Né di qua, né di là. E mio padre lo stesso. Anche lui aveva dei ricordi belli della sua scuola, sotto il fascismo, scuola italiana: mio padre aveva il maestro B. - un maestro proprio del posto - che gli ha regalato il libro con le foto di classe; quindi hanno un ricordo meraviglioso delle elementari. Poi mio padre ha fatto anche le medie e le superiori, e quindi ha dei ricordi molto belli"
11) Accennava prima al periodo fascista. Cosa le hanno raccontato in proposito?
R.: "Mi hanno raccontato del fascismo... Mio padre è stato imprigionato... [Lo hanno rinchiuso] nel castello di Pisino, dove c'era la prigione, poi non so per quali motivi non lo abbiano portato in Germania. Soltanto che mio padre era un pacifista - sembra strano, era un macellaio - era contro le armi e contro la guerra assolutamente. Infatti lui - sarà [stato] un codardo - per non andare in guerra si è tagliato una ghiandola [sul collo]. Poi in guerra lo hanno mandato, ma lui si è fatto mettere nella sussistenza, perché lui non avrebbe sparato un colpo. Lui diceva: non lo so, ho fatto forse il vigliacco a farmi quelle cose, ma io un colpo non l'avrei sparato. E infatti è andato poi giù a Faenza, e poi dopo l'8 settembre è ritornato a piedi in Istria, come tanti. Quindi su sto fascismo... So ad esempio che poi quando c'era la guerra venivano i fascisti, però poi, tante volte, davano la colpa - e questo lo faceva anche mia madre - ai comunisti."
12) In che senso venivano i fascisti?
R.: "Venivano nel villaggio i tedeschi, e loro quindi scappavano tutti. Mia mamma si ricordava di come una volta che faceva il pane, aveva vicino il fratello che era diciotto anni più piccolo di lei, lo ha preso per le mani e sono scappati. Scappavano in bosco. Però mia mamma mi diceva anche che tante volte venivano questi partigiani, razziavano tutto, dicevano di dargli la mucca e poi facevano il biglietto dicendo che poi [quello che portavano via] sarà pagato. Venivano e poi dopo di loro venivano i tedeschi, e quindi loro erano bombardati da fascisti [tedeschi e partigiani]. Cioè alla gente del popolo, veniva uno e veniva l'altro e gli razziavano tutto. Non so, mi ricordo mio zio - uno zio dalla parte di mia mamma, perché mio padre era figlio unico - che anche lui per non andare in Germania lo hanno nascosto: hanno fatto un buco sottoterra e lo hanno nascosto. Lo tenevano nascosto lì in una botola nella stalla perché non lo portassero via i tedeschi. Rispetto ai partigiani mia mamma mi diceva sempre - ed è per questo che lei aveva quest'odio per i comunisti - che loro gli portavano da mangiare in bosco, io rischiavo la vita per portare da mangiare in bosco e loro poi ci hanno fatto questo, ci hanno mandato via dalle nostre case. Ecco, era questo l'odio che aveva mia mamma. Perché mia mamma era religiosa, aveva molti parenti anche preti, e lei mi diceva che i comunisti facevano questa propaganda dicendo vedrete, tutte queste terre andranno tutte in comune, lavoreremo insieme, faremo tutto insieme, e i preti, naturalmente, erano anche d'accordo. Invece poi c'è stata questa roba che mi raccontava anche mia mamma di certe scene sull'altare che venivano... "
13) Ad esempio?
R.: "Venivano, entravano in chiesa, portavano via sti preti e gliene facevano di tutti i colori... Quindi c'era questa politica contro la chiesa, contro i preti che comunque... Va beh, alcuni saranno stati fascisti, però... Questo per dirle che mia mamma aveva quest'odio, e anche quando si sono messi in comune diceva che loro che avevano lavorato eccetera [erano stati soppiantati] da quelli che non avevano voglia di far niente che hanno preso possesso di tutto. I furbi e, insomma, li vediamo. Ma in questo non c'entra l'Istria, c'entra la furbizia e l'ingordigia dell'essere umano."
14) Parlando del periodo della guerra, le hanno raccontato qualcosa sulla borsa nera e sulla cosiddetta fame di guerra?
R.: "Certo, si, si, c'era. Però, vede, noi non abbiamo mai avuto grandi problemi, non abbiamo mai avuto bisogno. Io le racconto anche questo, e le parlo della campagna di cui io ho un bel ricordo. Mia mamma, purtroppo, era una donna che ne ha combinate [tante] nel senso che ha dato sempre tutto. Aveva un negozio, ma è morta che non aveva manco i soldi per il funerale: abbiamo dovuto pagarlo io e mia sorella, perché lei era una donna che se uno aveva bisogno, lei glielo dava. E l'hanno fregata, ma non importa, va bene così. Mia mamma mi raccontava che in tempo di guerra, lei in casa prendeva farina per tutti i poveri che venivano; lei dava sempre, anche di nascosto a sua madre. E infatti l'altra sorella le diceva sempre: adesso lo racconto alla mamma che cosa fai! E lei dava farina e tutto quello che aveva. Quindi noi la fame non l'abbiamo trovata, neanche dalla parte di mio padre. Ho sentito parlare di mercato nero, che c'era gente povera, che non aveva da mangiare, ma su questo mi trova davvero poco preparata. Perché noi di là [in Istria] abbiamo avuto, è qui in Italia che abbiamo avuto poco!"
15) Prima mi parlava di come fossero spariti dei preti. Una frase che consente di introdurre un altro tema centrale nella storia di queste terre, e cioè quello delle foibe. Vorrei chiederle se voi ne eravate a conoscenze della loro esistenza e in che termini vi veniva raccontata...
R.: "[Posso dirle] come me l'hanno raccontata, perché io avevo tre anni che son venuta via, e con mia madre e mio padre dicevo ma perché! Avevo proprio questa rabbia giovanile sul perché fossi qui [in Italia], e loro mi hanno sempre detto: tu non puoi capire quant'è importante la libertà. Noi l'abbiamo pagata a grande prezzo la libertà, che noi stavamo bene, però tu non eri libero di fare niente, dovevi guardarti alla spalle, [guardarti dalla] gente. Ma soprattutto questa cosa che la gente, da come mi raccontavano, spariva all'improvviso. Lo vedevi parlare e poi questo non c'era più. Però tutti stavano zitti, perché o ti mettevi insieme, [però] come facevi a organizzarti che eri sotto questa pressione, che non ti potevi fidare di nessuno? Non sapevi di chi fidarti, quindi ognuno si chiudeva nel nucleo in casa. Non si poteva neanche sentire la radio in casa eh? Non si poteva neanche avere notizie: son stati anni veramente di terrore mi diceva mia mamma, avevano paura di tutto. La gente non sapeva se col tuo vicino di casa potevi fidarti, potevi parlare, non so come spiegare."
16) Mi diceva quindi che le persone sparivano all'improvviso...
R.: "Si. E dove andavi a chiedere? Andavi a chiedere a chi? Ad esempio c'era una signora che era poi nei campi con noi - povera signora Anna, che io le ho voluto bene - che è andata via con due figli. [Era] una donna giovane, il marito glielo hanno preso e glielo hanno portato via. E poi - e questo dispiace - sulla lapide - lui era di Parenzo - vicino [al suo nome c'è scritto ammazzato dai fascisti. E non è assolutamente vero! Ma a chi glielo vado a dire? A chi lo devo dire? Che i fascisti abbiano fatto disastri è vero, per l'amor del cielo, però io dai miei genitori ho constatato questo."
17) Oggi, a distanza di tanti anni, posso chiederle secondo lei cosa c'era dietro a questi fatti di sangue?
R.: "[Cosa c'era] dietro alle foibe io glielo dico chiaramente. [Le dico] molto chiaramente quello che penso e che non ho potuto dire mai, e che i miei genitori [e noi] abbiamo sempre tenuto dentro. [Quello che sta dietro alle foibe] è il discorso di Tito che si è messo con sti serbi e che volevano sta apertura sul mare, e hanno depurato tutta questa gente. Perché noi non siamo italiani, noi siamo gente del posto. Noi siamo gente del posto. E loro con la cosa dell'opzione certo che ci hanno marciato, ma noi volevamo stare a casa nostra, perché noi di regimi ne abbiamo visti, ma i miei genitori volevano stare a casa loro, e c'è stato questo regime di terrore e di paura. Per cui noi eravamo gente pacifica, perché diciamo che quelli che erano i fascisti se ne sono andati via subito, non hanno aspettato il '50 o il '53 o il '56. Poi è successo che nel '53 sono andati via quelli di Stalin: mio padre no, non era stalinista, ma si sono incontrati qui in Italia, e questo è buffo. [Pensi che] sulla nostra casa [a Parenzo] c'era una scritta [che diceva]: questa è una famiglia italiana e deve andarsene! Questo [che l'aveva scritta] era un signore stalinista al massimo - adesso abita alle Vallette [qui a Torino] - era senza occhio, e mia nonna gli aveva detto: prova ancora a scrivere un'altra scritta così, e io ti cavo anche l'altro occhio! Però quando Tito ha voluto [rompere con Stalin], questo qui se n'è dovuto andare. Quindi vede la varietà di persone? Ma non è vero che noi eravamo una famiglia che dovevamo andare via, è che lui era invidioso. Era invidioso di quello che avevamo."
18) Mi sembra di capire, da questo ultimo passaggio, che ci fosse proprio una propaganda per farvi andare via...
R.: "Certo, certo. E' [stata] proprio la paura a farci andare. Poi c'era la propaganda anche di qua, diciamo la verità, le parlo chiaro!"
19) In che senso c'era la propaganda anche in Italia?
R.: "Eh, la propaganda: venivano non so, quelli della Democrazia Cristiana che diceva di venire via. Come i comunisti che cercano adesso la via dell'immigrato di acchiappare la gente a tuo favore. [Insomma, anche allora c'era] questo schifo di politica. La Democrazia Cristiana... Vede io ho sentito molto da parte di mia madre che essendo anticomunista, una volta arrivata in Italia l'unico partito che le è sembrato era quello, perché fascista mia madre [non lo è mai stata]. Mi diceva: coi fascisti mai! Mio padre s'immagini, assolutamente. Quindi [la Democrazia Cristiana] era l'unico partito che ci salvaguardava. Però la propaganda era proprio questo, [e cioè] che la gente aveva paura e quindi hanno incominciato ad andare [via] e Pola è stata [abbandonata]. Non so come spiegare, anche perché [come] mia mamma mi diceva, bisogna essere lì dentro. Poi certo, naturalmente di qua [in Italia] questa propaganda c'era, però il problema era proprio lì che la gente aveva paura."
20) In Istria c'erano quindi delle modalità adottate per farvi andare via...
R.: "Si. Lei si immagini una persona che è continuamente sotto stress, che non puoi fare niente che hai paura che ti chiamino - ma perché facevano così - l'OZNA. Cioè, la gente aveva paura, perché questi erano belli tosti. Non so, mia mamma quando si è sentita mettere [puntare] la pistola lì [alla tempia] - poi questo poteva sparare o non sparare - ma se sparava e l'ammazzava all'istante, chi poteva fare qualcosa? Cioè, nessuno. Non c'era da dire vado in tribunale, vado chissà dove: lì ti prendevano ed era questo, cioè aver creato questo regime proprio di terrore. Che era un terrore reale. Che poi come dice la moda [sia] diventato un terrore psicologico mi va bene, però il terrore psicologico, comunque, ha la sua influenza, perché quando tu hai paura... Certo che non potevano con i mitra sparare a tutti, però [si arrivava al punto che] mancava uno, mancava l'altro, il vicino di casa [ti chiedevi] dove l'hanno portato, giravi e avevi sempre questa paura, chissà cosa dico e cosa faccio. Cioè, non vivi più, una situazione invivibile."
21) Delle foibe si sapeva o si è saputo poi dopo?
R.: "No, io sinceramente queste cose dalla mia famiglia non le ho mai sentite, le ho sapute dopo. Non so gli altri cosa dicono, mai dalla mia famiglia queste cose son saltate fuori [dopo]. Che la gente spariva si [lo sapevo], però delle foibe no. L'ho saputo poi qui in Italia, certo, ma lì veramente non l'ho saputo. Di gente ammazzata ho saputo, tanta gente ammazzata. Perché non so, è venuto un ragazzo, un vicino - e anche lì, vede, questa tristezza della base - era un ragazzino che era fascista lì, così, ma ragazzi sbarbatelli... E son venuti e lo hanno ammazzato lì, vicino casa. E questo creava proprio dolore, diceva mia mamma, al di là dell'ideologia: sapere che un ragazzo è stato ammazzato così giovane... E quindi sentivo di gente che veniva trovata ammazzata - [di questo] mia mamma mi raccontava -, che venivano portati via si, però delle foibe io non sapevo nulla."
22) Lei è nata in Jugoslavia [interruzione]...
R.: "Si, sono nata in ex Jugoslavia."
23) Appunto. Vorrei chiederle questo: i suoi genitori sono quindi passati dall'Italia a un nuovo sistema politico - quello jugoslavo - provando sulla propria pelle un cambiamento radicale e scoprendo l'avvento di un mondo nuovo. Le hanno raccontato - e in caso affermativo in che termini - di questo cambiamento, di questo nuovo mondo con cui ci si trovava a convivere?
R.: "I miei genitori... Si, ad esempio c'era il lavoro volontario, ma questa è una cosa che si è diffusa anche dopo... A me piaceva molto collaborare, ma questo [succedeva anche] dopo, quando siamo venuti via. Mia zia mi diceva [ad esempio] che loro non erano tanto contenti, ma quando c'era un'opera da fare il [governo jugoslavo] coinvolgeva tutta la popolazione. Ma questo io le parlo dopo... Che ne so, venti o trenta ani fa, insomma, prima del '90. E io dicevo ma si, va bene collaborare. Poi vede, i miei erano molto dell'interno, e mio padre era cittadino, e quindi... "
24) E invece della propaganda titina le hanno raccontato qualcosa?
R.: "Si, si... La propaganda titina era questa: vedrete, non si pagheranno più le tasse, staremo tutti bene, divideremo tutto. Della serie - che è giusto - la terra ai contadini, la fabbrica agli operai, che io lo sostengo, e anche i miei amici, quelli che sono ancora tosti e che non mollano! Si, c'era proprio questa propaganda, c'erano queste riunioni, obbligavano la gente ad andare e parlavano sempre di queste cose, di mettere tutto in comune, che tutti devono avere. E poi c'è anche la storia su sto mio cognome, [che] ce n'è da raccontare. Va beh, ma tanto lei le storie sui nomi le ha sentite. Io una volta ero L. [ora sono L.-ch]. Mia mamma, pensi, era M. ed è diventata L., e tutto il villaggio l'hanno chiamato Lacoselliak, questo con Tito. Invece L. è diventato L.-ch. Però anche gli italiani hanno fatto quella roba, perché [il cognome] prima aveva il -ch - adesso non mi ricordo come fosse - poi è diventato L.. Però, anche questa cosa del cognome, cioè cambiare l'identità, ma si rende conto? Politici... Il fascismo prima e Tito lo stesso, i dittatori... Noi vogliamo la libertà"
25) Parliamo ora dell'esodo: voi quando siete partiti?
R.: "Si, no, solo questo le dico: i ricordi che ho [sono quelli] dei miei genitori, che mi hanno trasmesso proprio questo dolore della mancanza di libertà che avevi lì, dove non potevi parlare. La gente, sia in campagna che a Parenzo, si conosceva e si voleva bene; come sono arrivati loro c'era odio e paura. Era quello, e cioè che uno voleva approfittare dell'altro, e già c'era il sentore che casa nostra e altre case venivano adocchiate."
26) In che senso casa vostra veniva adocchiata?
R.: "Così noi ce ne andavamo e loro la occupavano, c'era quello. I miei genitori mi hanno trasmesso questo clima di terrore e di diffidenza: non sapevi dove andavi, nei negozi se parlavi con gli amici non sapevi... Il silenzio, ecco, il silenzio e questa grossa angoscia. Quindi [il discorso] era venire qui [in Italia] ed avere la libertà, in modo che lì [in Istria] si sistemino le cose e noi torneremo a casa nostra felici e contenti."
27) Purtroppo non mi sembra sia andata proprio così! Dicevamo prima, voi quando partite?
R.: "Allora noi partiamo nel '53. Questa cosa me la raccontava sempre mia nonna, perché lei aveva il fratello che era a Trieste - quello che con il proprio padre aveva delapidato il patrimonio - e come sono arrivati a Trieste mia nonna gli ha detto: s'è morto quel porco de Stalin? E lui [il figlio] - che era un socialista - le ha risposto: era meglio che morissi tu! Lui era un grosso stalinista, però abitava a Trieste! Quindi arriviamo con sta nave e i nostri quattro cassoni in croce [a Trieste]."
28) Siete partiti tutto della vostra famiglia?
R.: "Allora, mio padre era figlio unico e il nonno [cioè suo padre] era morto nel '45 ed era già anzianotto, avrà avuto ottant'anni ed è morto d'infarto nel 1945. Quindi [con noi] c'era solo la nonna, che era la mamma di mio papà. Invece da parte di mia mamma sono rimasti i campagna i suoi genitori e infatti per lei è stata molto dura. Mia mamma ha dovuto scegliere, lei non voleva venire via, non voleva. Però amava mio padre [e alla fine ha deciso di andare via]. Siamo partiti in cinque, abbiamo fatto l'opzione e siamo partiti. Mio padre ha fatto l'opzione, ma mio padre e mia madre volevano rimanere, eh! Mio padre e mia madre non avrebbero mai pensato di andare via di casa."
29) Ho capito. Però, se io le chiedessi quali sono stati i motivi che li hanno spinti a partire lei cosa mi risponderebbe?
R.: "Che incominciava questo regime. Come le dico, mio padre ha provato anche lì a mettersi [nella politica], perché era un socialista e diceva ma si, le cose anche in comune mi van bene. Lui ha rinunciato alla sua macelleria, gliel'hanno portato via, però lui ha detto che andava bene se era una cosa che serviva. Lui era contento, e poi aveva un lavoro di responsabilità, perché lui era bravo nel suo lavoro. Era il regime, proprio questo regime di terrore che faceva andar via. La paura [li ha fatti andare via], loro volevano la libertà, non potevano stare con la paura addosso. Bisogna poter esprimere le proprie idee e le proprie opinioni, e lì non le esprimevi, perché? Perché ti prendevano e ti portavano via. C'erano i vicini di casa, e di punto in bianco vedevi che quello non c'era più."
30) Parliamo del vostro viaggio?
R.: "Da Parenzo a Trieste in viaggio."
31) Lei ricorda qualcosa del viaggio?
R.: "Ricordo sto fatto, che mi fa piangere sempre, ma si becchi le mie lacrime! Hanno messo [la roba in] questi quattro cassoni e ricordo mia nonna che quando è arrivata in mezzo al mare ha detto: speriamo che sta nave affondi, perché lasciare le proprie terre è terribile. Però mio padre aveva anche scritto di farci portare [insieme ai cassoni] anche la nostra cagnolina, e loro non hanno voluto che noi portassimo via questo cane. Era un volpino, ed io di questo fatto mi ricordo. E questo qui che ha occupato [casa nostra, diceva a mio padre]: Piero, stiamo nella tua casa, te la teniamo bene, e poi dopo quando tu ritorni te la diamo, ma intento te la teniamo bene. E questo qui ha detto: te lo tengo io questa cagnolina. Avevamo questa cagnolina e il gatto - che il gatto è stato anche allattato da quella cagnolina - e non ce l'hanno fatta portare. E io ho questo ricordo della cagnolina. Ero piccola... Anche perché legati a quella cagnolina sono rimasti tanti ricordi: io da piccola ero una bambina abbastanza sveglia, e uscivo da casa con sta cagnolina e correvo nella via Decumana, che è la via romana... Quindi siamo arrivati poi a Trieste."
32) Mi diceva di aver portato quattro cassoni. Questo perché, c'erano delle limitazioni che non consentivano di portare con sé ciò che si voleva?
R.: "Eh, si, non potevi portare altro. [Anche perché] andavi [via], ma dove andavi? Cosa sapevi? E poi mio padre era convinto di tornare ed ha lasciato tutto lì dentro in questa casa, mobili [e tutto il resto]. Mio padre era convinto di tornare, ma guardi che illuso. Mio padre non pensava mai più che potesse succedere [una cosa simile], anche perché era un uomo buono."
33) Voi siete stati gli ultimi, ma nel periodo precedente da Parenzo è andata via parecchia gente...
R.: "Si, è andata via parecchia gente, però chi la dura la vince, cioè mio padre voleva rimanere."
34) Ecco, rimanere. Mi ha detto che i suoi genitori sono andati via per la paura. Però, se le ribaltassi la domanda e le chiedessi, secondo lei, chi è rimasto come mai ha fatto questa scelta?
R.: "Si, dai, vuol sentire la risposta che son traditori?!"
35) No, non voglio sentire nulla. Vorrei solo sapere qual è la sua opinione...
R.: "Mah, cosa vuole... Mio padre era mio padre, come dire, come si dice della serie lei non sa chi sono io! Nel senso che, comunque, lui non è che aveva solo una macelleria di proprietà, ma lui aveva anche certe amicizie, frequentava gente che stava bene [come] il marchese... Qui non c'entra la politica, perché, come le dico, mio padre andava con loro e si facevano servire dai camerieri... Insomma erano gente che avevano tutti un certo tono e mio padre, quindi, la sua casa la voleva. E hanno fatto pressioni su di lui, perché - le dico - quando è successo che sono mancata delle somme di denaro e, un'altra volta, sono mancati dei capi di bestiame, mio padre tremava, perché poi lui parlava italiano. Aveva degli amici slavi, però era difficile comunicare; come facevi a dimostrare che non c'entravi niente? Non lo so, forse mio padre era un vigliacco... Però come facevi a dimostrare che eri estraneo alla cosa? Non avevi [possibilità]. Quelli che son rimasti perché sono rimasti? Perché tanti, tra quelli che sono rimasti non so, è andato via il fratello e hanno occupato la casa del fratello e se la son tenuta per loro!"
36) Ritorniamo al suo viaggio. Da Parenzo arriva poi fino a Trieste: cosa succede a Trieste?
R.: "A Trieste succede che i miei genitori vogliono rimanere, ma non si può, perché c'è tantissima gente. Siamo stati ospitati da parenti e poi da Trieste ci hanno mandato a Udine, [dove] c'era il campo di smistamento."
37) Parliamone, dunque, del campo di Udine, se lo ricorda?
R.: "Si, me lo ricordo proprio, guardi. Ero piccola, ma mi ricordo queste camerate enormi divise da tende: c'erano i maschi da una parte e le femmine dall'altra, e poi [c']erano quelli del Vajont, che erano venuti. E quindi avevano messo ste donne da una parte: persone anziane, giovani e bambine, e io mi ricordo i pianti della gente di notte. Io mi ricordo che ero vicino a mia mamma e sentivo piangere di notte la gente disperata."
38) E il campo era una caserma?
R.: "Si, si. Mi ricordo queste grandi camerate, mi ricordo solo gli interni delle camerate, però non posso dire di più. E non posso neanche chiedere a mia mamma perché è mancata da otto anni."
39) E posso chiederle come si svolgeva la quotidianità nel campo di Udine?
R.: "Ascolti, adesso per il mangiare non lo so, non mi ricordo... Però mi ricordo le camerate, queste grosse tende e, naturalmente, la divisione maschi e femmine. Ma anche lì [a Udine] siamo stati poco, perché poi ci hanno smistato e siamo andati al campo di Servigliano. E lì ho dei ricordi chiari, perché era un campo di concentramento, era un ex campo di concentramento [quello] di Servigliano nelle Marche. Campo di concentramento, e quindi c'era la baracca in legno, poi tutte le stanze, poi c'era un corridoio con la stufa di legno. Poi c'era un'altra baracca e poi dall'altra parte del campo c'erano le docce. All'aperto: si andava e si faceva la doccia. Poi per riscaldarci, noi bambini - io e altri bambini - andavamo al fiume con la nonna, prendevamo la legna e scaldavamo tutta questa baracca."
40) E all'interno della baracca eravate più famiglie o solo voi?
R.: "No, no, [eravamo] più famiglie, avevamo pochi metri quadrati [a testa]. Avevamo, s'immagini, il letto, e poco altro, eravamo sempre in ristrettezze. Eravamo divisi... La baracca era divisa da legno, si, si. Perché mi ricordo che c'era il pavimento di legno... Comunque, lì era proprio così, un ex campo di concentramento. E poi c'era il cancello che alla sera si chiudeva."
41) Come mai da Udine siete finiti a Servigliano? Potevate decidere dove andare?
R.:"No, lì hanno deciso loro, lì hanno deciso loro per Servigliano. E abbiamo avuto una grande fortuna perché abbiamo incontrato il dottor M., - un bell'uomo, era di Roma - mandato dal Ministero degli Interni, perché loro dovevano controllare chi veniva [nei vari campi]."
42) In che senso?
R.: "Eh, eravamo controllati... Ti facevano l'interrogatorio prima [di entrare], ti chiedevano chi eri, cosa facevi. Venivano e ti facevano l'interrogatorio: volevano sapere chi eri o chi non eri, le tue generalità. C'era in tutti i campi il direttore e lui veniva e ti chiedeva. Innanzitutto avevi la tua scheda [personale] , e poi cercava di capire com'era la composizione della popolazione nel campo. Era il Ministro degli Interni che lo voleva sapere, no? Il direttore [però] aveva la sua casa con tante stanze, aveva la sua doccia... Io siccome non ho mai avuto casa - si, mi ricordo la mia casa di Parenzo, però non ho dei ricordi perché l'ho vista poi da grande, da ragazzina - lui aveva la sua casa, mentre noi eravamo in baracca e ognuno aveva la sua stanza e c'era questo corridoio lungo. Però lì mi ricordo che ognuno cucinava per se stesso, ognuno aveva il proprio fornello."
43) Il campo era un po' fuori dal paese, se non sbaglio...
R.: "Si, si."
44) Posso chiederle qual era la quotidianità che si viveva in campo? Cioè, c'erano dei servizi interni quali scuole, empori, luoghi di svago, come ad esempio alle Casermette di Torino, oppure c'erano soltanto delle baracche e nulla più?
R.: "Io ero piccola, quindi non andavo a scuola. Ricordo che noi avevamo i servizi in comune, poi si, c'era l'infermeria. [Questo lo ricordo] perché, le dico, che c'era questa infermiera - una bellissima donna - che si era messa [fidanzata] con un nanetto, e noi bambini ridevamo perché quando lei saliva le scale per andare in infermeria, prendeva il fidanzato e lo faceva salire. Oppure noi bambini ci nascondevamo da dietro la loro finestra - perché ogni baracca aveva la finestra - e ci mettevamo dietro, dove c'era lei col nanetto, per vedere cosa succedeva dentro."
45) Nei campi ricevevate un qualche tipo di assistenza?
R.: "Eh beh, avevamo il sussidio, [che è quello] che mi ha fatto sentire in colpa per secoli, seculorum amen! Ci davano un sussidio - io non so di quant'era - però ci aiutavano fino a che le persone non trovavano un lavoro. [Poi mi ricordo che ad esempio] mia sorella siccome era molto debole [di salute], la mandavano in colonia a Pietraligure, perché noi avevamo anche le nostre colonie dove ci mandavano. Mi hanno mandato alle foci del Timavo: c'erano le colonie dove mandavano i figli di questi profugacci! Mia sorella stava molto male, era proprio debole di salute e l'hanno mandata in questa colonia a Pietraligure."
46) E di altre tipologie di sussidio, come ad esempio pacchi dono, si ricorda?
R.: "Mi ricordo i pacchi dono, che erano cose americane, che c'era del formaggio favoloso che vorrei rimangiarlo! Era un formaggio tipo formaggino, e quelli erano gli aiuti americani, perché so che ci dicevano che [quella] era tutta roba, era tutto mangiare americano. Arrivava solo cibo, vestiti no. Eravamo vestiti come degli zingari! Vestiti no, [non arrivavano]. Mio padre che era un uomo sempre molto elegante, eccetera, mi diceva sempre che non aveva i soldi neanche per le sigarette, niente. E all'inizio è andato a pulire i gabinetti del campo, per prendere un po' di soldi. Poi la gente lì intorno diceva... Infatti io e i miei genitori delle Marche [non abbiamo un buon ricordo]. Loro dicevano ai bambini: fai attenzione che ti mangiano i profugacci! Quindi ci hanno proprio visto male. Ma, probabilmente, erano anche quelle zone un po' comuniste, e quindi vedendo questi qua che erano considerati fascisti... Insomma, c'era, la politica c'era che manovrava abbastanza."
47) In che senso la politica manovrava abbastanza?
R.: " Io ho sentito sempre l'odio verso di me, un odio politico, certo. [Un odio] proprio politico: siete dei fascisti! Chi è venuto via di là è un fascista: io ho sempre sentito un roba del genere, ma soprattutto da gente che ha un certo livello culturale, che è di sinistra, sa di quelle persone che sono anche snob. E' una cosa che io ho sentito, anche da parte di colleghe... Ma noi, io poi voglio bene a tutti, non me ne frega niente, però l'ho sentito [questo], ma non dalla gente del popolo, [piuttosto] da questi un po' più intellettuali, un po' più chic. Cioè, ho sentito molto queste contraddizioni."
48) Sul campo le chiederei ancora una cosa. Io ho raccolto un bel po' di testimonianze, dalle quali si evince come per i bambini - e non mi fraintenda - la vita in campo - pur nelle difficoltà e nelle ristrettezze - avesse tutto sommato dei risvolti anche leggeri e divertenti. La stessa cosa non credo possa dirsi per i genitori o gli anziani che forse questa situazione l'hanno maggiormente sofferta. Lei cosa ne pensa?
R.: "Ma si, indubbiamente. Io questa cosa l'ho capita dopo, da adulta. I nostri genitori erano molto amorosi nei nostri confronti, proprio a causa di questa disgrazia. E poi [stare] in campo era bello, perché c'era una grande solidarietà: non so, se sentivi un profumo di patatine fritte in una stanza, correvano i bambini, e questa persona dava patatine fritte a tutti, ne cucinava e ne cucinava. Quindi sentivi questa solidarietà, e quindi sentivi anche il dolore dei genitori, perché questo ce l'hanno trasmesso. Perché lei pensi solo alla vita intima e sessuale di sti genitori! Poveretti! Io l'ho capito dopo... E' vero che mia mamma era bigotta, però stare in una stanza con la suocera e i figli... Cioè, veramente la sessualità dei miei genitori, la mancanza d'intimità... E poi [c'era] anche la preoccupazione: come finiremo? C'era poi questo desiderio di tornare a casa, e poi il lavoro, come faremo?"
49) Mi parlato - in realtà come molti altri testimoni - della mancanza di intimità in campo. Io penso però anche alle difficoltà legate alla precarietà delle condizioni igieniche...
R.: "Si, ma infatti. Io però mi ricordo che noi siamo gente pulita: noi non abbiamo mai avuto la doccia, e mi ricordo questi bei secchi d'acqua [coi quali] mia mamma ci faceva lavare. Poi ci metteva il borotalco, mi metteva a letto, ci serviva la cena a letto. Questi sono i ricordi [di quando avevo] sette - otto anni ed ero al campo di Monza."
50) Dopo Servigliano lei va quindi a Monza?
R.: "No, vado a Cremona. Sto a Servigliano poco, perché nasce mia sorella a Servigliano... Stiamo poco, un anno o un anno e mezzo, perché poi andiamo a Cremona."
51) Me ne parla del campo di Cremona?
R.: "Era un campo... Sa che non so che cos'era? Ma mi ricordo che era un palazzo: si entrava dal portone e c'era una grande casa che poteva essere una scuola disabitata, un edificio pubblico [inutilizzato]. E lì avevamo proprio una stanzetta che era qualcosa di terribile: umida! Perché lì vivevamo proprio [in poco spazio]: c'era il letto dei miei genitori, il letto di mia nonna e il mio letto che era vicino al muro sempre umido. E avevo sempre mal di denti e [mia madre] mi metteva sempre questa roba [questo fazzoletto intorno alla mascella], e poi soffrivo di reumatismi, era una cosa! Di questo campo ho un ricordo terribile perché c'era davvero tanta, tanta umidità. Poi mi ricordo che alla sera veniva il prete e noi bambini correvamo: lui si tirava su la gonnella - non so questo quante volte sarà successo - con [in mano] la scopa di saggina e noi dietro alle pantegane grosse così, che correvamo. Ma si rende conto? Adesso me ne rendo conto, ma allora noi bambini, pur in questa sofferenza [non ci rendevamo conto]. Io l'ho pagato forse poi nell'animo."
52) Nel campo di Cremona eravate tanti?
R.: "Si, eravamo parecchie famiglie a Cremona, saremmo state una trentina o una quarantina di famiglie, solo giuliano-dalmati. I primi che ho visto di altri [profughi] sono stati a Monza, [erano] quelli che venivano dalla Tunisia. [Altrimenti] sia a Monza che a Servigliano eravamo sempre noi giuliano-dalmati."
53) Quindi, quello di Cremona era proprio un campo "classico", cioè stanze divise con coperte, docce in comune...
R.: "Si, tutto in comune, tutto in comune: avevamo sta stanza dove facevi tutto, cucinavi eccetera, poi c'era il gabinetto in comune, i lavabi in comune, [lavavi] i piatti in comune, [era] tutto in comune. Ed era in città, questo era proprio un campo in città. "
54) Posso chiederle come mai da Servigliano si trasferisce a Cremona?
R.: "Perché mio papà ha detto al direttore del campo - perché poi erano diventati amici - di farlo andare su in alta Italia, perché lì [A Servigliano] c'era la miseria più assoluta."
55) A Servigliano non c'era modo di lavorare?
R.: "No. Mio padre è andato a Cremona, e lì lavorava: andava alla fabbrica di Melzo, si alzava al mattino alle 4,00, partiva col treno, andava lì, poi tornava la sera tardi, dormiva poche ore, perché non so quante ore faceva il pendolare per poter lavorare. [Lavorava] nella fabbrica Galbani. Galbani vuol dire fiducia, e io mangio ancora prodotti Galbani! Quindi si, ci siamo trasferiti per il lavoro."
56) E da Cremona siete poi andati a Monza, giusto?
R.: "Si, siamo andati in campo a Monza, e lì abbiamo rincontrato questo [direttore]. E infatti quando ha visto mio padre, era contentissimo, perché lì hanno poi ricominciato i loro bagordi, uscivano e andavano a Milano. Poi Monza era una città molto borghese, c'era la Villa Reale, facevano i concerti, e infatti mia mamma mi diceva [che] Johnny Dorelli, Bramieri era tutta gente che andavano a sentire. Perché poi loro [i miei genitori], quando uscivano dal campo si vestivano così eleganti che non si riconoscevano più! Perché poi lei deve sapere che io sono sempre andata in scuole private, perché mia mamma voleva che noi studiassimo dalle suore. E io in queste scuole stavo sempre zitta: non ho mai detto che abitavo in un campo profughi. [Mi ricordo che] quando alle scuole medie mi hanno fatto fare un disegno sulla mia casa, io ho disegnato un bel cancello - che era il cancello della Villa Reale -, ho disegnato un corridoio e ho disegnato la stanza."
57) La Villa Reale era quindi il campo profughi di Monza?
R.: "Si. Noi abitavamo in un'ala, che un tempo era quella della servitù, e c'erano le stalle dei cavalli e quindi noi abitavamo negli alloggi della servitù. Però lì ci hanno dato una bellissima stanza: era lunga undici metri, [quindi] si immagini, era un cosa meravigliosa! E l'avevamo anche lì divisa: c'era la stanza dei miei genitori, quella mia e di mia sorella accanto, poi c'era la sala e poi la camera di mia nonna con la cucina. E anche lì la vita intima dei miei genitori se la immagini... "
58) E a Monza in campo eravate in tanti?
R.: "Si, lì eravamo veramente tante famiglie: ognuna aveva la sua stanza, avevamo i gabinetti sempre in comune, le solite cose."
59) Si chiamava Villa Reale questo campo. Ma Villa Reale cos'era?
R.: "Era una famosa villa, tipo Palazzo Reale [a Torino]. La Villa Reale rimaneva tale e a noi ci avevano dato un'ala, un'ala della Villa Reale. Avevano messo in un'ala gli sfrattati e [in un'altra] noi. C'era un cancello però, chiuso. Perché poi la gente che voleva veniva a visitare Villa Reale, che però non c'entrava niente con noi, noi avevamo solo un'ala e avevamo l'entrata [del campo] da via Boccaccio numero 1, [cioè] dall'altra parte [della villa]."
60) Quando siete arrivati a Monza?
R.: "Nel 1956 e siamo stati fino al 1963."
61) Sempre in campo profughi?
R.: "Si, perché mio padre, quando davano le case per i profughi, mio padre non ci voleva andare. Lui voleva proprio tornare a casa [in Istria], e lui pensava: finché sto in campo posso tornare a casa, [mentre] se mi prendo una casa io mi inserisco e non posso più tornare. Capisce cosa mi hanno trasmesso? Una cosa terribile, mi hanno rovinato!"
62) Parliamo ora dell'accoglienza ricevuta dagli italiani, quindi da Servigliano a Monza, come è stata?
R.: "Mah, allora... Il problema è questo ed è molto strano da spiegare... Io ho fatto una vita da monaca di Monza, cioè io non avevo rapporti con nessuno. Io non avevo rapporti... Poi va beh, noi non ci siamo chiusi [tra di noi] come hanno fatto poi al villaggio [a Lucento], perché mentalmente io sono rimasta sempre in un campo. Omissis. Non frequentavamo nessuno non perché non volessi, era proprio una chiusura, cioè c'era talmente una vergogna che io alle mie compagne delle medie non avrei mai detto [che abitavo in campo]. Ad esempio io alle elementari andavo al Collegio Bianconi a Monza, che era un collegio d'élite: lì c'era gente che veniva da Milano... Andavamo lì che c'erano le elementari ma io come facevo a dire a questa figlie di papà che avevano ville, piscine e cose che io sono una profuga? Capisce? I miei genitori mi hanno fatto vivere una spaccatura, perché mi hanno messa in una situazione [imbarazzante], perché loro ci tenevano alla mia cultura e a quelle di mia sorella, però nessuno sapeva che io ero una profuga, e quindi io ho passato la mia vita in silenzio. A parte che la scuola di allora era una scuola di silenzio, e quindi con le suore mi andava bene, e quindi io non so neanche dirle se avessi detto a qualche mia compagna che ero una profuga, come questa mia compagna [avesse reagito]. Io non lo dicevo. Mi invitavano alle feste, e io non ci andavo, soprattutto alle scuole medie. Avevo un'altra mia amica che era di Zara, una ragazzina intelligentissima, bravissima che era due anni più vecchia di me e che aveva iniziato la scuola lì [a Zara] ma che arrivata qui aveva dovuto ripetere tutto ed era in classe con me, ma noi [stavamo] sempre zitte, il silenzio più totale! Poi quando sono andata qui [a Torino] dalle suore alla Mazzarello, [stavo] zitta anche lì, non dicevo niente a nessuno, e quindi io non so gli altri come mi vedevano, sono stata sempre zitta! Poi si, i miei genitori mi dicevano che ai bambini dicevano ti faccio mangiare dai profughi, lo dicevano nella Marche, che mi ricordo che mia mamma diceva [riferendosi ai marchigiani], ma guarda questi come ci vedono! Queste sono cose che io ho sentito dai miei genitori."
63) Ed era, secondo lei, una discriminazione figlia di un retaggio politico?
R.: "Si, secondo me si. Anche perché, sinceramente, io ho capito poi che ci davano gli aiuti. E poi c'era la vergogna [dovuta la fatto] che ci riservavano i posti di lavoro: infatti io sono entrata nella scuola, ma non volevo assolutamente avere la qualifica di profugo, proprio per questo senso di vergogna. Io l'ho vissuta come una vergogna, i miei genitori anche l'hanno vissuta come vergogna: ma cavolo - dicevano - noi stavamo bene e adesso qui dobbiamo prenderci questo sussidio. Che poi te lo davano fino a che non trovavi lavoro. Poi sa, io ho avuto la grande fortuna di avere due genitori... Mio padre un po' pazzo, perché sa, anche lui, stando così, poveraccio... Mia madre [invece] lei era legata a queste nostalgie della sua famiglia, dei suoi fratelli... Perché lei quando raccontava... Mia madre la sua vita era lì, lei vagava con i ricordi, ha dovuto fare così per salvarsi. E quindi io e mia sorella ci siamo sentite in un certo senso abbandonate. Però quello che io ricordo dei miei genitori, è che non abbiamo mai avuto problemi, anche pur nella miseria, per il discorso dei soldi. Io in famiglia mia ho avuto sempre il parlare, il dialogare, il costruire la propria cultura, sono altri i valori. Io anche nella miseria ho avuto questo, ed è quello che voglio trasmettere anche a mia figlia, che ha un lavoro precario, ma [le dico]: non importa, l'importante è che tu abbia delle cose importanti. Per me questa è stata una salvezza, cioè che i miei genitori mi abbiano dato questa possibilità di studiare e di avere degli interessi."
64) Da Monza arriva poi a Torino. In che anno?
R.: "Nel '64, perché quel campo doveva essere chiuso. E mio padre e mia madre son venuti a vedere qui alle Vallette, che c'erano le case in costruzione. Vanno lì alle Vallette, guardano e si dicono, quando sono tornati: ma dove andremo a finire, poveri noi!"
65) Perché vi hanno dato una casa alle Vallette?
R.: "Ce l'hanno data. Perché mio padre poteva comprare la casa, perché i soldi li aveva. Perché mio padre aveva lo spaccio all'interno del campo di Monza, e quindi mio padre di soldi ne ha fatti. [Anche se] ho ancora i quaderni vecchi dove segnava tutto, e quanta gente ha aiutato mio padre! Perché segnava per quelli che non potevano, per chi era senza lavoro e gli diceva non importa, pagherai. E io ho tutti questi libri scritti. E pensi che a Monza il prete [del campo] diceva: i profughi vengono a messa alla 9,30, perché quella delle 11,00 o delle 11,30 è quella dei signori. E deve anche sapere che mio padre, avendo lo spaccio, dava la spesa gratuita al prete. Sia al prete che al direttore [del campo]. Allora dopo una messa delle 9,30, sto prete dà le caramelle ai bambini e dice a mia sorella: tu non ne hai bisogno, perché tuo papà ha il negozio!"
66) Quindi nel campo di Monza c'era uno spaccio?
R.: "Si, mio padre faceva tutto lui: aveva uno spaccio dove vendeva tutto, dalle stringhe alla pasta, alla verdura e al latte. Poi c'era il baruccio - ho ancora i bicchierini - anche perché vicino [alla Villa Reale] c'era la scuola d'arte, e quindi venivano gli studenti e i professori a comperare i panini col salame o con la mortadella. Quindi lui faceva tipo bar. Invece a Cremona non c'era assolutamente niente, era umido, c'erano le pantegane e di lì [per qualsiasi cosa] bisognava uscire."
67) Tornando a Torino, a suo padre hanno detto ti diamo la casa a Torino...
R.: "Si, [in realtà] mio papà voleva andare in altri campi, ma campi oramai non c'è n'eran più! Voleva rimanere a Monza, invece... Lui aveva i soldi per comprare una casa, diceva: ho dei risparmi, ma come faccio per queste mie figlie? Le mie figlie devono studiare, e se io investo nella casa, nei mobili, eccetera [non mi rimane niente per loro]. E quindi hanno puntato sulla nostra cultura. La casa delle Vallette... Vede è una cosa diversa [dal Villaggio]. [Dalle case che hanno fatto a Lucento], sono avanzati dei soldi americani - si devono dire [queste cose], soldi stanziati - e hanno costruito alle Vallette un gruppo di case, che sono proprio all'interno di tutte le case delle Vallette le uniche costruite con soldi americani. [Sono in] via delle Primule, di fronte alla chiesa, sono case basse, sono le uniche delle Vallette. E ci tengo a dirlo, perché molte volte mi hanno detto: vi hanno dato queste case popolari con i soldi degli italiani. No, non sono soldi degli italiani, sono degli americani!"
68) Quindi queste case le hanno assegnate ai profughi...
R.: "Si, le hanno date - guardi un po' - a tre famiglie. Queste [case] erano per i profughi giuliano-dalmati: noi lì siamo tre famiglie, e tutte le altre case le hanno date ai tunisini,
perché nel frattempo poi a Monza sono venuti tutti questi signori dall'Africa, e queste case le hanno date anche a loro. Che non avrebbero dovuto, perché quelle sono case proprio per i profughi giuliano-dalmati."
69) Mi ha detto di essere arrivata alle Vallette nel 1964. Riesce a descrivermi com'erano?
R.: "Mah, le Vallette, avevano quella fama... Io ci sto bene, sono vallettara, ho dato la mia vita a questi bambini delle Vallette, però... Le Vallette, anche lì, sono divise a vie: c'è la via bene, dove ci sono gli impiegai statali, mentre poi vicino a noi hanno costruito con i soldi del comune - e per questo non si riesce a capire come solo noi siamo americani - e hanno messo [in queste nuove case] di tutto, dalle puttane ai ladri, [che noi oggi abbiamo come] vicini di casa. Questo parlo del 1966-1967. Però è tutta gente di rispetto, anche perché mia madre avendo aperto un negozio vicino alla casa, ha fatto del bene a tutti. Tutti quelli che avevano bisogno lei li ha aiutati, e quindi mia mamma ha una fama di santa! Le Vallette, io mi ricordo... Il palazzone grosso vicino alla chiesa, io mi ricordo in quegli anni buttare degli scatolini grossi giù [dal balcone] pieni di immondizie. Io mi ricordo gente che mangiava le angurie e le buttava giù dal balcone, eh! Adesso [queste persone] sono quelli che si son fatti il giardinetto intorno [alla casa]!"
70) Mi ha detto che a Parenzo ogni tanto è ritornata. Ha nostalgia?
R.: "Si, tanta, ho tanta nostalgia. Sa dove tornerei adesso? Tornerei a Trieste, meno male che non ce l'hanno portata via Trieste. Io ho bisogno di tornare a Trieste per sapere che di là c'è la mia terra. Io sono tornata, mi sono fatta tutti i giri, ma adesso è da tanto che non vado."