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Intervista a Claudio D. del 15/02/2008

1) Le chiedo un po' di dati anagrafici: dove è nato e quando?

R.:"Dunque, io sono [D. Claudio], nato a Pola l'11 giugno 1933. Niente, fatte le scuole elementari e il liceo - il liceo scientifico - la Facoltà di economia - quindi sono laureato in economia - fui occupato presso la filiale istriana della Società Assicuratrice Croazia, con sede a Zagabria, che era la casa assicuratrice più grande in Jugoslavia sotto Tito. Infatti il 25% dei premi e dei fondi erano in Croazia , economicamente più sviluppata rispetto alle altre repubbliche. E io fui uno dei dirigenti, subito dall'entrata nella filiale, di quella filiale istriana. E basta così, per quanto riguarda i dati anagrafici."

2) Può invece parlarmi della sua famiglia di origine: quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.:"Dunque, niente, io sono un figlio proprio della classe operaia vera e propria, perché mia madre ebbe sedici figli addirittura, dei quali sei morti da bambini negli anni Venti e Trenta, quando la medicina era quella che era e gli ospedali erano quelli che erano, e siamo rimasti in dieci, di figli, con il padre e la madre dodici. Ci tengo a dire [che sono nato] alle Baracche a Pola, accanto alla Fabbrica Cementi, perché quelli erano edifici costruiti proprio per la classe operaia. Niente, con l'esodo Pola si è svuotata, e i miei genitori riuscirono ad avere un alloggio in centro città, ben grande e sufficiente per tutta la famiglia. Mi risulta che noi rimanemmo - che i genitori, noi eravamo piccolini quella volta - che i genitori rimasero a Pola, e non andarono esuli per il mondo solo perché la famiglia era numerosa, e avendo già avuto sei bimbi persi per malattia temevano altre disgrazie, e quindi sono rimasti là. Mio padre faceva il pescatore, mia madre era invece occupata nella Fabbrica Tabacchi a Pola. E niente, mio padre essendo uno dei migliori pescatori solitari di orate con la lenza nel porto di Pola, è stato individuato dall'amministrazione comunale e mandato a lavorare sulle isole Brioni al servizio personale di Tito, perché era diventato il pescatore personale di Tito: infatti nelle mostre fotografiche del tempo in cui Tito trascorse sulle isole di Brioni, c'è n'è una che raffigura il presidente Tito con i suoi servitori - camerieri, cuochi, eccetera - e lui figura accanto al presidente. Però incorse anche lui in disgrazia per la sua italianità, e se ne andò esule a Trieste nel '54 dopo la firma del Memorandum di Londra. E noi siamo rimasti là, con la madre, sempre in dieci. Anzi no, se ne andò mia sorella più vecchia a Trieste con l'ultima nave, la Toscana, fuggendo da casa senza avere avvisato i genitori perché se no le avrebbe prese! E così fu che io potei ultimare gli studi sia al liceo scientifico che all'Università e occuparmi. Mi sono veramente dato da fare anche nella Comunità degli Italiani, il cosiddetto - quella volta - Circolo Italiano di Cultura, fino al punto da diventare addirittura presidente della Società Artistico Culturale Operaia Lino Mariani, dal '71 al '76. Però ebbi dei grossi problemi. Ebbi dei grossi problemi perché...Intanto lo stalinismo non esisteva soltanto a livello di supernazione Unione Sovietica, o nazione jugoslava o croata eccetera, ma esisteva in ogni comunità più piccola, più capillare insomma, e avevamo il nostro Stalin anche noi, che governava il Circolo Italiano di Cultura per la durata - addirittura - di venticinque anni, mentre il gruppo nazionale perdeva sempre più terreno, e quindi bisognava far qualcosa. Lui che invece era fedele al sistema, ma più che al sistema e al comunismo, fedele a chi governava, a chi aveva le redini del potere in mano, e dovrei dire anche certe altre cose, ma è meglio tacere, è meglio tacere! Successe allora che un giorno vennero da me il padre di [Furio R.], l'attuale deputato italiano al parlamento croato - [Claudio R.] - con [Bruno F.] - altro personaggio molto importante del gruppo nazionale a Pola - a pregarmi di aiutare un gruppo di italiani allo scopo di cambiare il regime interno esistente nel Circolo Italiano di Cultura. Cioè l'idea era di scrivere un nuovo statuto del Circolo Italiano di Cultura, in modo tale che il presidente che già governava da venticinque anni non avrebbe potuto candidarsi per ulteriori mandati. Siccome io si, ero economista, ma mi interessavo anche tantissimo di diritto, ho accettato l'offerta - anzi la preghiera - e allora ho detto: si, lo scriverò io lo statuto. L'ho fatto e mentre di sera - di notte - scrivevo dieci o quindici articoli per notte, loro durante il giorno seguente con quegli articoli nella Commissione statutaria del Circolo li esaminavano e li approvavano per l'assemblea che doveva emanarlo. Così nel giro di sette otto giorni risolsi il problema, sia io che loro alla Commissione, lo statuto finì in assemblea, l'assemblea l'ha approvato in toto e quindi bisognava applicarlo, organizzare le elezioni ed era cosa fatta. Senonché il sistema giuridico jugoslavo del tempo, imponeva a questi gruppi nazionali - ma anche ad altre associazioni di ogni genere - di mandare questi documenti fondamentali e statutari al Comune per una ulteriore vidimazione e approvazione, prima della sua applicazione. Cosa che fu fatta in base alle legge, senonchè successe che lo Stalin - che aveva capito l'antifona - con i legami che aveva lui col partito comunista, con la polizia, con il Comune, eccetera, riuscì nel frattempo presso il Comitato Cittadino del partito comunista, a spiegare le sue ragioni, a dimostrare che noi eravamo irredentisti, che noi eravamo nazionalisti, che noi eravamo nemici del popolo e che quindi quello statuto non doveva passare al Comune, e men che meno essere applicato al Circolo. E fu che un giorno - mi ricordo esattamente, il 17 aprile del 1988 - la segretaria della cellula del partito del Circolo Italiano di Cultura, la signora Maria Pia - lasciamo i cognomi - mi incontrò sotto l'Arco dei Sergi a Pola e mi disse: Claudio, sto tornando proprio dalla riunione che ho avuto presso il comitato cittadino del partito, e devo dirti una cosa. Com'è andata - chiedo - ? Era in discussione lo statuto che noi avemmo già approvato, che dovremmo applicare, però mi hanno detto di dirti che siccome sanno che l'autore sei te, se deciderai di sostenerlo e di mandarlo ulteriormente al Ccomune per avere il benestare, ti perseguiteranno penalmente. Al che io dissi: per perseguire penalmente una persona bisogna, prima di tutto, che questa persona sia accusata di qualcosa, che i capi di accusa non siano uno, due o tre, ma quattro, cinque o sei, e seri. E siccome io sono onesto e pulito e ho fatto solo del bene, sia in famiglia che al Circolo, io non ho nulla da temere. Anche io [riferito alla segretaria] ho detto la stessa cosa ai signori - anzi, non ai signori, ai compagni - però mi hanno detto: non temere, noi i capi di accusa li facciamo presto, e finché lui dimostra che è innocente, passa due o tre anni in prigione e con un buon lavaggio di cervello lo mettiamo a posto. Questa era la minaccia vera. Al che ho detto: grazie, grazie. Intanto - devo dirti - che lo statuto non è più mio, perché se l'assemblea lo ha già approvato, è problema dell'assemblea, non mio, è problema del Circolo Italiano di Cultura e non personale, ma per quello che riguarda me personalmente, prendo atto di quello che mi dici punto e basta. Ciao, ciao. Ebbi problemi subito anche sul posto di lavoro: cioè, io ero un vicedirettore, ero direttore del settore delle assicurazioni dei veicoli a motore, e avevo sia l'ufficio per la produzione delle polizze - Rca, casco, eccetera - sia l'ufficio per la liquidazione dei danni, che l'ufficio dei periti. E l'ufficio per la liquidazione dei danni, era in mano - era diretto - da un mio collega legale, croato, di Zagabria, nazionalista forte, che io rispettavo perché anche lui rispettava me. Senonchè lui si è trovato a confrontarsi con il direttore generale dell'agenzia, al punto che sono arrivati ai ferri corti per questioni private. Più tardi - molti anni più tardi - ho saputo che si trattava di abuso di fondi di assicurazioni per crediti privati concessi alla moglie del direttore a condizioni favorevolissime. E a questo punto il direttore decise di liquidarlo, di farlo fuori, di allontanarlo dall'impresa, di licenziarlo, praticamente. Però lo volle fare attraverso di me, perché lui era un mio dipendente; cioè tra il direttore e lui c'ero io. E un giorno mi chiamò in ufficio e mi ha detto - non mi ha detto naturalmente le ragioni - e mi ha detto: ho sentito che il signore di Zagabria è un ustasa , è uno dei fedeli del fascismo croato di un tempo, e un mese fa ebbe a dire - dice lui che aveva dei testimoni - che nella giornata della ricorrenza della fondazione del movimento degli ustasa croati, lui chiudeva l'ufficio, non lavorava perché faceva festa. In pieno comunismo. E mi ha detto: tu devi, praticamente, sollevare un richiesta di procedimento disciplinare ai suoi danni, devi presentarti alla commissione disciplinare, e chiederemo in questo caso l'espulsione dalla ditta. Ora, ho detto, guarda, io vedrò se e come si ha da risolvere il caso, mi informerò per vedere se ci sono le prove sui fatti che tu mi racconti e poi vedremo. Io mi son dato da fare, e alla fine è risultato che le prove non esistevano, che lui non era ustasa, che i motivi del loro scontro erano del tutto privati: insomma, ho visto che la faccenda era proprio sporca. Mi sono presentato da lui e ho detto: caro - e non dico il nome - io questa operazione non te la porto in porto, perché non sono in grado di farlo. Primo perché le accuse non sono fondate, secondo perché non ho le prove, terzo perché la mia onestà mi impedisce di agire in questo modo. Al che lui ha detto: io ti consiglierei di pensarci un po' e di tornare domani mattina a ripetermi le stesse cose, perché se no devo prendere dei provvedimenti anche nei tuoi confronti. Son tornato l'indomani mattina e ho ripetuto le stesse cose: io questa cosa non la faccio! Non posso farla e non voglio farla. Va bene, ciao, ciao. Dopo mezz'ora mi è arrivato in ufficio il decreto di sospensione: sono stato degradato in tutti i sensi, non sono stato cacciato dalla ditta, ma mi han messo a lavorare da impiegato semplice principiante, con una paga da principiante, quindi era un disastro totale, annullava tutta la carriera che avevo fatto in tutti quegli anni, praticamente. A parte la dignità, a parte...Mentre l'altro lui invece lo ha sospeso del tutto, lo ha mandato a casa. La legge gli permetteva di sospenderlo un anno intero con metà paga e per cui il procedimento disciplinare lo avviò lui personalmente, ai danni del suo amico, perché erano amici di facoltà, addirittura. Io a casa con mia moglie che era croata, non ho avuto fortuna, nel senso che lei non ha capito né i motivi delle minacce del partito comunista per quanto riguarda il Circolo, né i motivi del defenestramento in azienda. Per cui ho avuto dei problemi grossi anche là, e praticamente in poco tempo - nel giro di uno o due anni - son crollate le colonne sulle quali stava l'edificio della mia esistenza. E me ne sono venuto via."

3) Mi parli invece della sua città, Pola, com'era?

R.:"Si, beh, la storia di Pola è dura, duemila anni e qualcosa [da raccontare]! Bisogna dire che verso la metà del diciannovesimo secolo, 1850, facciamo 1856, Pola aveva la bellezza di soli 1.300 abitanti. Era niente più di un paesotto, di campagna, benché avesse l'anfiteatro romano, tutti i templi e tutti gli archi di un'epoca storica romanica molto importante: sotto Roma aveva 25.000 abitanti per avere un' arena di quel tipo là. Però con tutte le epidemie nei secoli, si è ridotta a 1.600 abitanti o giù di lì verso la metà dell'ottocento. L'Austria la scelse per il porto che aveva come porto militare, e là l'Austria costruì un cantiere navale - Scoglio Olivi, per intenderci - un cantiere navale che doveva costruire, praticamente, sia la marina mercantile che la marina militare, cosa che il cantiere ha fatto. Per cui già nel giro di cinquant'anni - già all'inizio del secolo Ventesimo - è arrivata ad avere nel '56 circa 60.000 abitanti. Ora, con il cantiere, è arrivato anche l'indotto, sono arrivate anche le altre fabbriche, e quindi una classe operaia - tra l'altro ben cosciente dei propri diritti- con tutta una classe media, tra scuole e istituti eccetera, quindi una città moderna nel vero senso della parola; aveva anche un tram. Ecco, le Baracche era un rione con dei palazzi, dei caseggiati grandi per la classe operaia che circondavano la Fabbrica Cementi. C'era la Fabbrica Cementi, la Fabbrica delle Bandiere - fabbrica bandiere per le navi, naturalmente - e oltre all'Arena anche il teatro cittadino Ciscutti, fondato alla fine del secolo, nell'Ottocento, quindi poco più di cento anni. Poi è arrivata l'Italia e all'Italia tutti quegli insediamenti cittadini servivano eccome, quindi il cantiere continuò a funzionare, la Fabbrica Cementi pure, la Fabbrica del vetro pure, eccetera, eccetera. Dunque, sia l'industria che l'indotto. Per quanto riguarda l'agricoltura, era costituita dall'ortocultura che circondava la città, che serviva la città, ma non un'agricoltura di tipo moderno e sviluppato come quella del granoturco o del frumento o del riso."

4) Mi interessano le Baracche. Al loro interno si sviluppava tutta una serie di reti sociali, di socialità di quartiere e cose del genere?

R.:"Eh, bravo! Si. La classe operaia là costituiva una comunità complessa nel senso che c'avevi le comunità familiari - una per ogni appartamento - molto unite internamente, coese, perché non nella miseria, ma nella modestia della vita dell'operaio la coesione è più forte, perché c'è bisogno dell'aiuto reciproco e della solidarietà, e quindi la comunità è una comunità vera e propria, coesa. Dunque, non solo familiare, ma di corridoio, di palazzo e anche di rione. Per cui i baracheri là, i vecchi tra loro, gli anziani tra loro, i giovani tra loro, i bambini tra loro, solidarizzavano sempre, tra loro, e in questa comunità producevano anche cultura. Ma cultura di primo ordine, nel senso che c'erano complessi di musica: già allora -quando io ero bambino - di musica da ballo, ma anche di musiche americane, si, si, di blues, di jazz. E i baracheri costituivano queste orchestre, non solo orchestre da ballo, ma anche mandolinistiche, sinfoniche e da camera, con pochi membri. Poi avevano i circoli sportivi e i baracheri erano fori e ben quotati, perché nei campionati sia regionali che nazionali in Italia, dall'atletica leggera alla boxe, dal calcio alla pallavolo, alla pallacanestro eccetera, eccetera, riuscivano sempre ad avere delle quotazioni di ottimo livello. Quindi era una comunità favolosa, e anche per questo chi è nato là, e chi visse là - come me e la Nelida Milani per esempio, che ci vive ancora, tra l'altro - porta di quel rione un ricordo indelebile, bellissimo, fantastico. Ed è un comunitarismo -lo chiamerei così io - che ci è entrato nelle ossa, di cui sentiamo il bisogno ancora oggi. Perché ci manca anche oggi, negli ambienti in cui oggi viviamo, sia tra i rimasti, sia tra gli esuli. Ed è per questo che io scrivo un saggio dal titolo Il nostro umanesimo comunitario."

5) Parliamo ora di un'altra cosa - come vede io cerco di ripercorrere cronologicamente le vicende - e cioè prima lei mi ha detto: è arrivata l'Italia e poi con essa anche il fascismo. Ecco, lei che ricordi ha del fascismo e di quello che era sotto il regime il rapporto tra italiani e slavi? Le faccio questa domanda anche perché io vorrei arrivare a capire quali erano - ammesso che ve ne fossero - i rapporti tra questi due mondi, quello italiano e quello slavo. Io mi sono fatto un'idea, e cioè che fossero due mondi paralleli che si incrociavano raramente e che quando lo facevano davano vita a un corto circuito. Ma questa è una mia opinione...

R.:"Giusto, giusto. Però bisogna dire una cosa prima di inoltrarci in questo problema che è - credo - fondamentale perché da questo problema nascono tutti gli altri: il famoso nazionalismo, sciovinismo, scontro, foibe e tutti gli altri. Bisogna partire non da questo ma da quell'altro impero precedente, l'austro-ungarico. Fino a quel periodo là ci fu una spaccatura tra italiani e slavi; fino alla prima guerra mondiale, tra italiani e slavi. Perché? Perché nel mondo vigeva come sistema mondiale il capitalismo e - fenomeno che lo accompagna - l'imperialismo e cioè la nazioni andavano ad occuparsi quelle parti dei continenti che a loro piacevano, in un modo o nell'altro. Mussolini e Hitler sono arrivati gli ultimi, e quindi hanno fatto la fine che hanno fatto perché sono arrivati ultimi, ma gli altri la spartizione l'avevano già fatta. E parlo di Inghilterrra, Francia, eccetera, eccetera. Ecco, con il nazionalismo italiano nacque il nazionalismo slavo. Però, prima ancora di nazionalismo in senso negativo, il nazionalismo era positivo, sia per gli uni che per gli altri. Quando? Quando l'Italia faceva le guerre d'indipendenza e quando gli slavi si preparavano a fare le loro guerre di indipendenza. Ai tempi di Mazzini, Mazzini salutava il nazionalismo slavo - sia polacco che cecoslovacco eccetera, eccetera - quindi ci fu una confluenza di due nazionalismo con Mazzini e un aiuto reciproco contro l'Austria e l'Ungheria. Più tardi, invece, quando l'Italia riuscì ad avere la sua unità nazionale, quel nazionalismo diventò imperialismo. Imperialismo nel senso che l'Italia doveva cercare uno spazio nel mondo, e i Balcani che c'erano alla sua destra - guardando la carta geografica - erano i più vicini. Tanto è vero che Mussolini andò a occupare proprio i Balcani oltre all'Albania e all'Etiopia. Ecco, per l'Italia quel nazionalismo diventò imperialismo e nazionalismo nel senso di Gabriele D'Annunzio, dell'irredentismo, dell'occupazione di ogni lembo di terra dove ci fosse almeno un solo italiano, anche in un mare di autoctoni diversi, di nazionalità. Mentre il nazionalismo slavo rimase risorgimentale, tant'è vero che già con Strosmaier in Croazia, gli sloveni, i croati e i serbi si son trovati d'accordo che dovevano unificare gli slavi del sud in una super nazione jugoslava. Loro ebbero la loro nazione con la fine della prima guerra mondiale, e di là incomincia la storia. Siamo venuti finalmente al punto...Mussolini ha fatto una politica di nazionalizzazione e di snazionalizzazione, totale. Totale e bestiale."

6) E lei se la ricorda?
R.:"No... Ecco, guarda, io son nato nel '33, e ho incominciato a parlare nel '34-'35, ho incominciato ad andare alla prima scuola elementare nel '39 quando scoppiava la seconda guerra mondiale. Quando finiva la seconda guerra mondiale, nel '15 [La data è ovviamente errata. Il testimone si riferisce alla fine del secondo conflitto mondiale, e cioè al 1945], io avevo dodici anni. No, assolutamente. Io non mi sono mai accorto. Non me ne sono mai accorto né che esistesse un fascismo, né che esistessero italiani e slavi. Tra l'altro, io non ho mai sentito parlare lo slavo, anche perché Mussolini proibiva l'uso della lingua slava. Io non l'ho mai sentito in vita mia; la prima volta che l'ho sentito avevo dodici anni, era il 1945. Nel 1946 quando cominciai ad andare a scuola, mi insegnavano la lingua croata come lingua straniera, e a me parve molto strana la cosa, cioè per quale motivo si studiava la lingua corata. Non sapevo che esistessero [gli slavi], cioè la mia generazione - italiana, di Pola - non ha visto. La mia generazione invece nei paesi - gli slavi - là l'hanno subita, hanno subito il nazionalismo e se lo ricordano senz'altro da bambini, perché avranno preso qualche schiaffo dal maestro se parlavano in croato in classe, per esempio, anche avendo cinque anni. Ma la mia generazione di italiani a Pola, baracheri, no, assolutamente! Il primo contatto con gli slavi che ho avuto l'ho avuto dopo la seconda guerra mondiale. E con la lingua perché la studiavo a scuola come lingua straniera. Per cui bisogna chiedere alle generazioni che mi precedono cosa successe tra italiani e slavi. E ha ragione lei quando dice che erano due mondi paralleli. Perché? Perché noi si viveva in città, e loro vivevano in campagna: i contadini erano sempre non malvisti, ma...sopportati, considerati di serie B in quanto tali, indipendentemente dalla nazionalità. Poi se aggiungi ancora la nazionalità erano proprio squalificati al massimo. E io immagino che i rapporti tra queste due etnie... Poi tenga anche presente che sotto Venezia noi fummo cinque o sei secoli, ma la parte interna degli slavi era sotto l'Austria per altrettanti secoli, per cui erano anche divisi dal confine".

7) Mi sembra esistesse anche una parole utilizzata per identificare e direi anche screditare queste persone...

R.:"Si slavi, s'ciavi. Ecco, s'ciavi. Gli slavi per noi erano s'ciavi. Ma dire s'ciavi significa proprio schiavi veri e propri, schiavi alla Spartaco. Noi non sapevamo neanche cosa significasse quello schiavo: se era schiavo come Spartaco o se era schiavo come contadino servo della gleba, o se era schiavo in che senso. C'era questo modo di dire, e significava che il loro valore come esseri umani era inferiore al nostro. E fu una tragedia, sia per gli uni che per gli altri. Perché tu, ti dai un'importanza che non c'hai, e l'altro lo denigri e lo umili senza nessun motivo. Tra l'altro, l'altro si sente anche offeso, e poi nasce l'odio. E' inevitabile, no?"

8) Parliamo ora della guerra. Posso chiederle che ricordi ha?

R.:"Dunque, la seconda guerra mondiale scoppiò nel '39. Io avevo sei anni...Il primo bombardamento a Pola, quello è stato... Beh, intanto, io vivendo a Pola alle Baracche... Se prosegue dalle Baracche verso l'estremità del porto, troverà tutte le caserme, la Musil, e i militari erano stanziati là con le loro navi e con i loro carri armati, quindi io i militari li vedevo. Tra l'altro io ho visto anche l'entrata dei tedeschi in città, e mi ricordo che mio padre - che conosceva il tedesco perché era nato sotto l'Austria e l'Ungheria - mi ha anche insegnato a chiedere un pezzo di pane ai tedeschi. E qualcuno anche me l'ha buttata dal carro armato tedesco una pagnotta, di pane nero che tra l'altro non mi piaceva! Quello è stato, diciamo, il primo impatto con la guerra. Ma il vero impatto avvenne nel gennaio del '44, quando Pola fu bombardata per la prima volta. Oh, capirai, quando si bombarda una città con quelle bombe, con quegli scoppi, con quel disastro, anche un bambino - e, io avevo la bellezza di undici anni quella volta - se le ricorda le cose. Io proprio in quel giorno, era domenica, mi pare l'11 gennaio del 1944 [Il testimone si riferisce al primo bombardamento di Pola, avvenuto in realtà il 9 gennaio del 1944]. Mio padre era pescatore, e io aiutavo mio padre a pescare. Lui c'aveva una batana sua di quattro metri, a remi, e io una piccola barchetta di si e no un metro e mezzo due, e siamo andati a pescare, quel giorno, domenica, in mezzo al porto, accanto all'isola di fronte a Scoglio Olivi. E là mi ricordo che ci siamo legati alle ancore già la mattina alle sette e mezza. Stranamente - il tempo era un po' annuvolato - il pesce non mangiava, in nessun modo, né di qua né di là; e mio padre si è spostato parecchie volte. Io avevo il compito di prendere la togna - cosiddetta, la lenza - legarla sul remo e portarla a una cera distanza - trenta o quaranta metri - dalla sua barca, e poi gettarla in mare e tornare a prendere quell'altra. Si dice: portar le togne in fora, cioè stendere le lenze in mare. E a un certo punto - verso le 11,20, mi pare - dalla direzione della stazione ferroviaria, cioè dal Nord verso Sud, sentimmo un certo rumore. Mio padre, per fortuna, si era slegato, per cambiar posto, per cercare il pesce da qualche altra parte, e si vogava lentamente per cercare un altro posto. A quell'ora sentimmo un rumore e arrivò il primo stormo di aerei, e incominciò. Le prime due bombe le aveva già sganciate su Fasana - perché pare che da Fasana ci sia stata qualche mitraglia che abbia tentato di mitragliare le formazioni aeree - e poi a tappeto ha incominciato a bombardare la stazione ferroviaria, il cantiere e venivano incontro a noi. Andavano fino a fuori, poi hanno fatto il giro e son tornati una seconda volta a scaricare le bombe, e poi... Tre giri, hanno fatto, tre giri e tre bombardamenti, con la stessa squadriglia. Mio padre mi ha gridato: corri, corri, corriamo sull'isola a ripararci, per non restare in mare. E lui, con la forza che aveva, ci è arrivato in due e due quattro. Io, affascinato dello spettacolo, con queste bombe che cadevano più in mare che sulla terra - perché c'era più mare che terra intorno a me - e ste colonne d'acqua che si levavano a un'altezza di venti-trenta metri, per me era uno spettacolo favoloso! Io, semplicemente, mi son messo là a sedere sulla barchetta, e mi son messo a guardare lo spettacolo. Mio padre era già sparito, già sull'isola. E li ho contati, erano centotrentasette, gli aerei. La prima volta non mi riuscì perché neanche pensavo di contarli, ma la seconda quando son tornati ho detto aspetta che li conto, e la terza volta ho controllato: erano centotrentasette. Poi con la barchetta sono andato sull'isola, e là ho trovato mio padre con un tedesco che stavano accucciati in un piccolo rifugio aspettando che finisse il bombardamento. Ecco, questo è il primo ricordo della guerra."

9) Sempre parlando della guerra, posso chiederle se lei ha patito la cosiddetta fame di guerra?

R.:"Allora, dopo quel bombardamento - e c'è ne furono altro subito, perché Pola aveva navi, aveva obiettivi militari da colpire - l'amministrazione comunale ci fece sfollati - soprattutto nelle Baracche dove erano più numerosi i bambini, eccetera, eccetera - e noi finimmo con la nave - Città di Messina si chiamava la nave - sfollati. Andammo da Pola a Trieste e noi finimmo in Friuli. In Friuli nei pressi di Pordenone a Pasiano, neanche a Pasiano, ma vicino, a Villotta di Fratta di Pasiano di Pordenone. Una frazione, Villotta, che io ho visitato dopo cinquant'anni e non ho più riconosciuto, perché è stata ricostruita dalle fondamenta, è cambiato tutto. Io volevo vedere quelle mucche e quei porci che c'erano quando noi fummo là la bellezza di un anno e mezzo, fino alla fine della guerra. Siamo tornati alla fine del '45. Per cui noi non abbiamo avuto fame, perché in campagna i figli più grandi davano una mano ai contadini, e non so chi riforniva la famiglia, se la società o i contadini stessi, o il feudatario, perché c'era il feudatario e loro erano mezzadri. Però, insomma, io fame non ne ho avuta."

10) Quindi lei è tornato a Pola alla fine del '45...

R.:"Si, siamo tornati a Pola alla fine del '45."

11) Quindi lei non ha visto l'arrivo dei titini?

R.:"Ah no, quelle cose lì, le foibe, no, no."

12) Ecco ha introdotto lei un altro argomento. Le foibe, ad esempio, voi le conoscevate, sapevate della loro esistenza?

R.:"No, no. Io delle foibe non ho mai saputo nulla, e neanche del Goli Otok, dopo il Cominform. Ma [l'ho saputo], molti, molti anni dopo. Ma non è che io... Probabilmente avrei potuto trovare in Italia dei testi, dei libri che raccontavano la storia, ma, non so, non mi sono mai preoccupato di conoscere. Io non lo sapevo. No, anzitutto quei fatti là erano nascosti, e le vittime stesse che sono finite in foiba non hanno potuti raccontarlo, ma neanche i parenti potevano raccontare le cose. Sia per le foibe del primo periodo del '43, che del secondo periodo dopo la fine della guerra. E poi a quelli che erano deportati a Goli Otok, era assolutamente proibito di parlare, correvano il rischio di tornarci se avessero raccontato le cose. Per cui, è proprio questa ignoranza dei fatti storici che permette al regime di sopravvivere senza nessun problema."

13) Ma voi non avevate neanche la percezione?

R.:"No, no, no. Guarda, io seppi del doppio gioco che Tito ha fatto con l'Istria e con gli istriani, con gli italiani, coi partigiani e con i comunisti italiani, il doppio gioco del comunista per avere il consenso, la fiducia e la fede nel sistema, ed era invece anche nazionalista. Fortissimo nazionalista, al punto che lei lo sa che Milovan Gilas in un suo libro ammette, riconosce e confessa di essere stato mandato lui con Kardelij in persona - che erano bracci destri tutti e due di Tito - in Istria per effettuare la pulizia etnica, con tutti i mezzi più perfidi esistenti. Io vissi, per esempio a Pola il giorno dell'esplosione delle mine di Vergarolla: ecco, quello fu senz'altro un atto che rientra in questo programma di nazionalismo. Noi non sapevamo queste cose... Si, si sentiva, se non l'odio il disprezzo o l'essere messi in secondo piano, l'essere messi da parte, o non essere considerati. Quindi quel nazionalismo era palpabile, le manifestazioni di nazionalismo erano palpabili, ma non arrivavano al punto da mettere in crisi tutta intera la nostra personalità. Anche perché dovendo vivere un'esistenza, avendo una famiglia, avendo un lavoro, eccetera, eccetera, le cose più importanti erano la famiglia, il lavoro, i figli. Più tardi invece, quando scoprii veramente, che si trattava di una tradimento vero e proprio degli ideali più puri del comunismo - ideali che non erano solo quelli di Marx in poi, ma erano quelli della rivoluzione francese in qua: uguaglianza, fratellanza, democrazia, pace, eccetera, eccetera - fu un shock vero e proprio. Una delusione totale, profonda, al punto che io devo dirle, assolutamente, che oggi il comunismo come termine e come concetto è talmente - e devo ripeterlo- vituperato, talmente tradito, talmente sporco per questi doppi giochi che, veramente, non è più spendibile in nessun modo per me."

14) Mi ha appena parlato di Vergarolla. Una data triste e sciagurata. Posso chiederle cosa ricorda di quel giorno?

R.:"Io quel giorno ero diretto a Vergarolla. Noi abitavamo in città, in centro. Come sa, dopo la guerra, quando gli italiani sono andati via, mia madre ha avuto un alloggio grande in centro e tutta la famiglia si sistemò come in un albergo! Quel giorno io ero diretto al bagno, a Vergarolla, perché a Vergarolla doveva esserci una manifestazione sportiva che non mi ricordo di che tipo, se velica, o regata o nuoto. Insomma, una manifestazione sportiva con i fiocchi, di livello regionale. E io mi ero incamminato, facevo la strada a piedi - i pullman non c'erano quella volta, e il tram era già [stato] tolto - ed ero a metà strada. Se ha presente, in città, dove c'è il Circolo degli ufficiali, che incomincia un viale che va verso Veruna. Ecco, io sono arrivato a metà strada di quel viale quando ho sentito lo scoppio: è arrivato un macigno, di un metro di lunghezza e mezzo di larghezza, è volato da là ed è caduto proprio nel viale, con altro materiale eccetera. E io sono rimasto allibito, mi son fermato, non sapevo cosa era successo - perché il fatto era successo alla distanza di due chilometri - e niente, ho rinunciato ad andare a Vergarolla e sono tornato a casa. Più tardi ho saputo della disgrazia: c'erano delle mine là, depositate, ma di quelle grosse per le navi, una accanto all'altra, e i bagnanti intorno a loro a spogliarsi, a mangiare e a fare il fuoco e a fare i bagni. Ecco, non ricordo altro."

15) Parliamo un po' dell'esodo. Lei che ricordi ha della sua città? Era una città che si svuotava?

R.:"Guarda, io mi ricordo... Io avevo una mia simpatia, una ragazzina, che tra l'altro non mi ricordo neanche più come si chiama, ma ero innamorato cotto! Avevo tredici quattordici anni, insomma. E mi ricordo che l'accompagnai, lei e tutta la sua famiglia alla stazione ferroviaria, perché partivano esuli. Le lacrime che io e lei abbiamo versato là sul posto, tantissime. Quel fatto là era sufficiente per soffrire l'esodo suo di lei e di tutti gli altri. Cioè, l'intensità del sentimento era tale che veramente era straziante il saluto reciproco dei rimasti con gli esuli, e viceversa. Ho dei ricordi pessimi. Ne ho accompagnati di altri alla stazione, ma poi finalmente tutto finì e i rimasti furono proprio rimasti, e li vedevo tutti i giorni. C'era si un vuoto di quelli che erano andati via, ma con quelli che erano rimasti già riempivano in qualche modo il mondo intorno a noi, sufficientemente per sopravvivere, insomma. Infatti noi si continuò a parlare la lingua italiana, si continuò a frequentare le scuole, si continuò a vivere le amicizie e gli affetti familiari e comunitari come prima, per cui riuscimmo a superare le difficoltà di quei momenti."

16) Alla base dell'esodo stanno due scelte - o chiamiamole pure decisioni, anche se a seconda della prospettiva da cui si guarda la vicenda si può usare tranquillamente anche il termine costrizione - : quelle di partire e di restare. Secondo lei perché chi è andato via ha deciso di andare e chi è restato ha deciso di rimanere?

R.:"Ma, io credo che sia nell'uno che nell'altro caso, sia per quelli che se ne sono andati che per gli altri che son rimasti, le cause dovrebbero essere secondo me infinite, sia per gli uni che per gli altri. Il problema era solo di vedere quali momenti erano decisivi, principali e decisivi per produrre questa decisione, questa volontà di andare e di restare. Allora: prima che l'esodo...Ci fu intanto un esodo nel '43, diciamolo subito: subito dopo la caduta del fascismo se ne andarono subito i fascisti più incalliti e quelli che erano più coperti di responsabilità criminali, senz'altro. Per cui rimasero i più puliti, già nel '43. Nel '45, nel '46, '47, '48, fino al '54, se ne andarono senz'altro tutti quelli che sono stati colpiti in un modo o nell'altro, ferocemente, sia nei beni - nelle proprietà, perché son state nazionalizzate - sia negli affetti, perché potevano avere qualche infoibato. Quelli là se ne sono andati senz'altro per quei motivi là. Poi ce ne saranno sicuro un bel numero che se ne sono andati perché difficilmente avrebbero accettato che quella propria terra diventasse jugoslava: loro erano italiani, dovevano vivere in terra italiana, con gli italiani punto e basta, e quindi tanti valeva unirsi al proprio popolo. E via di questo passo, fino ad arrivare alle cause singolari, proprio private. Per gli altri che son rimasti, invece, bisogna dire che si, senz'altro, son rimasti quelli che erano comunisti, quelli che erano socialisti, quelli che erano figli della classe operaia nel senso di quei tempi. Perché avevano fatto una scelta non di nazione, ma di sistema: lasciavano il capitalismo, si sbarazzavano del capitalismo, e volevano il socialismo, o il comunismo. Ed erano in gran numero. Ma tutti quelli erano uomini comuni, pochissimi della classe media, pochissimi intellettuali. Pochissimi intellettuali son rimasti per la fede nel comunismo, mentre tutti gli altri se ne sono andati: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, i commercianti, eccetera, eccetera. Ed è rimasta proprio la classe operaia, quella più terra terra, che generalmente è la più povera e la più ignorante, ma la più ricca di sentimenti e di fede. E son rimasti. Altri son rimasti pur non essendo così idealmente presi dai sistemi politici: son rimasti perché non sapevano dove andare. Restavano a casa loro, e se ne infischiavano di tutti i sistemi e di tutte le nazioni: facevano parte a sé stessi, contavano sulla propria famiglia e basta. Tutto il resto non contava: Italia, Jugoslavia, capitalismo e socialismo. Erano tutte cose che per la loro vita e la loro famiglia non contavano, quindi tanto valeva rimanere a continuare ad avere quell'orticello, o quell'appartamento o quel lavoro e basta."

17) E la sua famiglia?

R.:"La mia è rimasta per povertà: dieci figli con padre e madre...Che tra l'altro poi il padre se n'è andato promettendo di chiamare la famiglia dopo aver trovato lavoro in Italia. Cosa che tra l'altro non avvenne mai, perché nessuno glielo dette quel lavoro, né lo trovò, né si sistemò. Anzi, al punto da sopravvivere lui da solo appena appena e quindi noi siamo rimasti. Per povertà".

18) Le faccio una domanda, forse banale. Lei mi ha detto che alcuni sono rimasti per motivi politici. E' lecito pensare che queste persone che credevano nella Jugoslavia e nel socialismo, guardando anche il corso degli eventi, alla fine, abbiano forse rimpianto questa scelta?

R.:"Beh, alla fine, alla fine. Parliamo della fine, ma anche del mentre, quando hanno scoperto... Ma allora diciamo la verità. Diciamo la verità fino in fondo per quelli che son rimasti. La Jugoslavia si sviluppò economicamente molto velocemente, e l'Istria in modo particolare, perché era già economicamente sviluppata già sotto l'Austria; sotto l'Austria e sotto l'Italia. Per cui tutti hanno avuto un lavoro, tutti hanno avuto una casa, un alloggio, un appartamento, tutti hanno avuto un titolo di studio, tutti hanno avuto una famiglia. Ed era solo una questione di tenore di vita: nel rapporto tra stipendi, paghe e prezzi. Rapporto che migliorò di giorno in giorno, al punto che io nel '72 - e dico nel '72 - potei acquistare una Peugeot 204 in contanti, oh! In contanti! Quindi il livello di vita era cresciuto così tanto che addirittura i triestini che venivano a casa da noi - i parenti miei, io ho due sorelle a Trieste - ci consideravano dei ricchi, e ritenevano la Jugoslavia e Tito una nazione e un capo di governo con i fiocchi. Quindi, noi si viveva bene. Avendo dimenticato la miseria della fanciullezza - io, personalmente, per esempio, perché, per fortuna, si dimentica tutto quello che in gioventù e nell'infanzia e nell'adolescenza si vive - e vivendo invece in modo dignitoso più tardi, noi abbiamo avuto del comunismo un'esperienza positivissima, positivissima. E quindi si visse bene. Purtroppo, più tardi venne la delusione, quando si seppe del tradimento di Tito e di Kardelij per quanto riguarda la nazionalità. Il disincanto successe più tardi, [e fu] definitivo con la caduta del muro di Berlino. E adesso veniamo alla caduta del muro di Berlino. Il crollo del comunismo fu una beffa, una beffa colossale sia per gli esuli che per i rimasti. Per gli esuli perché hanno perso i loro beni inutilmente, perché cadendo il comunismo non c'era ragioni che il partito comunista italiano con Togliatti, eccetera, eccetera, consentisse al passaggio dell'Istria alla Jugoslavia; cadendo il comunismo risultava, per gli esuli, di aver fatto un sacrificio invano. Sacrificio, tra l'altro, che dura ancora oggi, perché nessuno li ha ancora risarciti. Eh no, no, bisogna dirle fino in fondo le cose! Per cui la beffa continua, per gli esuli. Ma ci fu anche una beffa infinita per i rimasti. Perché? Perché è crollata la fede e la speranza in un sistema economico, politico e sociale in cui l'essere umano possa essere integrato fino in fondo, con dignità e libertà. E' crollato quello. E adesso il gruppo nazionale dei rimasti, son rimasti praticamente senza guida spirituale interna. Hai capito? Però voglio vedere se ho detto tutto per quanto riguarda la beffa sia per gli uni che per gli altri, perché è doppia...La storia dei rimasti è tutta una storia da riscrivere, e per questo le storie vanno riscritte. Dovremo sapere, per avere il quadro completo della situazione, che la vittoria finale fu esclusivamente jugoslava nella seconda guerra mondiale. Poiché anche la seconda guerra mondiale nella nostra regione fu prevalentemente jugoslava, con lo stato italiano allo sbando dopo la caduta del fascismo nel luglio'43. Ecco, da noi, a livello regionale e locale, furono combattute e vinte da parte degli jugoslavi tutte le seguenti tipologie di guerra calda: primo, una guerra imperialistica tra le grandi nazioni capitalistiche mondiali che vide il movimento nazionale di liberazione jugoslavo stare dalla parte giusta, quella dell'URSS e degli Alleati; secondo, uno scontro di civiltà e anche di barbarie tra il capitalismo e il comunismo, nazionale ma anche soprattutto regionale; terzo, una guerra civile tra le classi sociali dominanti e quelle subalterne; quarto, una guerra di liberazione dal giogo nazifascista italiano e germanico; quinto, una guerra razziale contro le razze considerate non ariane - perché anche noi avevamo i nostri ebrei- ; sesto, una guerra di religione tra il comunismo ateo e la religione confessionale monoteistica - anche i preti son finiti in foiba -; settimo, una guerra di conquista della Jugoslavia monarchica da parte dell'Italia e della Germania e la conseguente guerra di conquista della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara anche loro facenti parte integranti del territorio dello stato italiano da parte del risorgimento comunista jugoslavo; ottavo, un conflitto etnico italo/slavo e slavo/ italiano con conseguente pulizia etnica dell'elemento italiano; nono, una lotta politica quotidiana, generalizzata, soprattutto nelle zone di Trieste e Pola per l'egemonia in campo politico dell'italianità e della slavità e, decimo, pure una criminalità privata, organizzata e non, anche tra aprenti stretti, amici e conoscenti dovuta alle invidie, all'astio accumulato, alla miseria diffusa e alle barbarie subite dalle genti istriane, fiumane e dalmate prima e durante il conflitto bellico. Allora, da noi, di guerre c'è n'erano proprio per tutti i gusti! Chiunque fosse mosso già da una sola di queste cause di conflitto sociale, era subito prontissimo a usare violenza in ogni luogo, in ogni forma e modo e contro chiunque fosse considerato nemico. Ecco, la beffa... La beffa per gli uni e gli altri, è questa: che il ruolo di moltiplicatore degli odi politici sia in senso nazionale che sociale svolto nella Venezia Giulia dallo scontro nazionale classista, ma anche quello tra città e campagna, è questo. E' questo il quadro della vita di quei tempi bui da una parte e luminosi dall'altra, perché chi era comunista e sperava nel futuro, per lui era luminoso. Chi invece era vittima era buio. Quindi, contemporaneamente, si manifestano sia l'una che l'altra parte, sempre. Allora, dico, gli esuli se ne sono andati per una scelta di civiltà, mentre i rimasti sono rimasti per superare la barbarie del capitalismo imperialista, nella speranza di costruire una civiltà autentica. Non solo civiltà capitalistica, ma autentica in senso heidegeriano. Il crollo del comunismo è una beffa, sia per gli uni che per gli altri. Gli esuli hanno perso invano tutti i loro averi e i loro affetti, perché tutte quelle nazionalizzazioni che lo Stato ha fatto in nome del comunismo non solo sono diventate vane, ma tutta la ricchezza prodotta dal popolo croato o sloveno più tardi privatizzato con cifre da poco, distrusse praticamente questa ricchezza. Mentre i rimasti hanno perso ogni speranza di redenzione e di salvezza civile, e sono sempre, ancora, in pericolo di sopravvivenza, non solo fisica ma anche morale."

19) Lei, in quanto rimasto, ha vissuto dall'oggi al domani il mutamento e il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia.

R.:"Si, si, son due mondi diversi".

20) Esatto. Ma per chi se lo è trovato di fronte, questo mondo nuovo, è stato un passaggio difficile da affrontare?

R.:"Solo che quel mondo del comunismo che conosciamo oggi, non si è manifestato subito. Il mondo quando il regime jugoslavo comunista incominciò a fere i primi passi, era fatto di primavere, di scampagnate, di gite, di piante, di alberi, di frutta, di sogni, di amori e di speranze. Il mondo era quello, quella volta. [Il mondo era fatto] di lavoro che c'era per tutti, di sposalizi, di matrimoni. Quando diciamo mondo, attenzione! Parliamo del mondo dell'uomo comune? E' questo il mondo dell'uomo comune, così incomincia l'uomo comune a vivere. Più tardi il sistema ha costruito il proprio regime, ma noi del regime, gli aspetti più tragici, non li abbiamo mai conosciuti. Perché ci è stato impedito di conoscerli. Quindi quel mondo era sempre presentato nella sua veste migliore, e qua è la beffa, qua è la fregatura, eh, eh!"

21) Su questo mondo le chiedo ancora una cosa. Quando si dice che Tito attua una politica anti-italiana in vari comparti della vita sociale e civile, voi ne avevate sentore?

R.:"Eh, noi ne avevamo sentore si! Nel '54, per esempio, quando scoppiò il problema di Trieste e gli jugoslavi esigevano Trieste e la volevano incorporare - addirittura dicevano di voler fare una settima repubblica con Trieste capitale della settima repubblica - fu già nell'ottobre del '53 [Il testimone si riferisce al Memorandum di Londra, firmato in realtà il 5 ottobre 1954] che esplose il problema, perché è allora che si firmò il Memorandum a Londra. Mi ricordo, io frequentavo il liceo scientifico, facevo, mi pare, l'ultimo anno, ed ero segretario della gioventù socialista del ginnasio, al liceo. Non so perché mi hanno fatto segretario, mah! Insomma, mi hanno fatto segretario e io accettai l'incombenza. Mi ricordo come oggi: scoppiò il problema [di Trieste], andai a scuola la mattina e trovai i muri dell'edificio del liceo scientifico imbrattati con scritte di colore nero - non so che cosa fosse, vernice nera - che dicevano più o meno così: fascisti tornatevene in Italia, a morte i fascisti, e cose del genere, contro di noi che eravamo rimasti. Ecco il regime, ecco il primo fatto che mi ricordo, veramente, in cui il regime fu un po'scosso nella mia idealità. Alla vista di queste scritte, io sentendomi nella veste di segretario dei miei giovani, responsabile di ciò che avremmo fatto o non avremmo fatto, mi recai nell'ufficio del preside - era il professore bravissimo italianista, latinista perfetto - e parlai chiaro: signor preside, ha visto le scritte fuori? Dice: si. E lui mi chiese: cosa ne pensi? Beh, intanto io mi sento offeso perché non sono fascista, e poi perché non ho fatto niente di male e voglio bene a questo paese, e terzo perché non ho nessuna intenzione di andare via anche io. E allora, cosa faresti? Se lei mi permette, io faccio una riunione coi miei giovani, e facciamo casino. Facciamo casino! Che casino? Beh, intanto andiamo a cancellare quelle scritte, è il minimo che possiamo fare, e poi vediamo di fare una manifestazione sotto le finestre del partito comunista cittadino. Al che il preside mi disse: Claudio, tu sei troppo giovane, tu non conosci la storia dell'Istria, tu non conosci la storia del fascismo, non conosci la storia del comunismo, non sai nulla della lotta popolare di liberazione di queste terre nella seconda guerra mondiale, e quindi non sai veramente - né tu, né i tuoi compagni - chi è amico del genere umano e chi è nemico del genere umano, chi è amico del popolo italiano e chi è nemico del popolo italiano o del popolo croato o sloveno. Io sono rimasto allibito e dissi: ma perché mi fa questa ramanzina? Per dirti una cosa sola: non muovete un dito, non muovete un dito se volete rimanere vivi. Ecco. Al che io veramente ho preso atto della lezione che mi ha dato, e noi non abbiamo mosso un dito. E quelle scritte son rimaste là finché non le hanno cancellate i croati stessi, non noi. Quando si sono un po' rabboniti. Ma poi è successa un'altra cosa, che quel direttore là, quel preside là, dopo quei fatti non se la sentì più di rimanere con i rimasti, di svolgere il ruolo intellettuale e di dirigente e se ne andò a Zagabria a fare il lettore della facoltà di lettere per rompere tutti i contatti con la politica, benché fosse stato partigiano".

22) Io credo, che per ciascuna metà della mela - mi passi la metafora - l'esodo costituisca un momento di rottura, una vicenda che segna sia chi parte sia chi resta, spezzando magari dei legami tessuti negli anni. Ecco, dopo l'esodo, che rapporti ci sono tra esuli e rimasti? I legami continuano ad esserci oppure le diverse scelte li hanno affievoliti del tutto?

R.:"Dunque, intanto devo dire che il sentimento che mi ha sempre legato e continua a legarmi agli esuli, è un sentimento di amore infinito e di rispetto, e quindi - veramente - li ho sempre sentiti come fratelli. Mai ho pensato che avessi dovuto odiarli o rimproverare loro una qualsiasi cosa. Anche perché quando io nella mia mente pensavo al concetto esule, non fuoriuscivano tutti i 350.000 o quanti ne sono andati [via], ma ne fuoriuscivano solo quelli che io ho accompagnato alla stazione, le persone care alle quali io ho sempre voluto bene. Per cui l'esule come concetto, era per me un concetto sempre avvolto nella bontà, nell'amore, nella stima reciproca, al punto che ne sono innamorato ancora adesso. Ecco, questo è il mio rapporto affettivo con gli esuli, ancora adesso. E così penso che la pensino anche gli altri rimasti verso gli esuli. Non è così dall'altra parte. Quelli che se ne sono andati - non tutti, ma mi pare una buona parte - portano ancora un odio, ed è interessante. Quell'odio che loro hanno sentito verso il paese natio, cioè verso la popolazione del paese natio, verso il sistema, loro - qualcuno, non so quanti - lo hanno appiccicato anche al concetto di rimasto, per cui risultiamo essere odiati. Fummo odiati e continuiamo ad essere odiati da qualcuno: non so quanto, molto meno di un tempo naturalmente, perché adesso con la caduta dei confini, con i viaggi che gli esuli fanno in Istria, con gli incontri che hanno con le persone, con i luoghi, con gli ambienti cari dell'infanzia, queste pressioni forti e negative o sono sparite del tutto, o sono lenite in massimo grado. Ma comunque, non so se da parte dei rimasti, chi era proprio comunista -di quelli duri - può per qualche motivo avere odiato l'esule in quanto fascista, imperialista o irredentista. Si, probabilmente si, anche noi avremo avuto questi fenomeni a livello di esuli /rimati e rimasti/esuli a livello di questo tipo negativo, ma non so dare esempi pratici. Posso parlare soltanto a nome mio".

23) Lei è arrivato qui a Torino [mi interrompe]

R.:"Si, nell' '88, vent'anni fa."

24) Ecco, posso chiederle, in quanto rimasto, come è stato accolto dalla comunità degli esuli?

R.:"Eh, guardi...Io son venuto qua e dovevo rifarmi una vita, eh! Nessuno di qua mi ha chiesto: ma, ti devi rifare una vita? Hai bisogno di qualcosa? Nessuno me lo ha chiesto, e io non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno: guarda che devo rifarmi una vita, ho bisogno di un lavoro. L'alloggio l'avevo perché mi ero conosciuto a suo tempo con una torinese e mi ero messo con la torinese, ma non avevo lavoro. Avrei dovuto dire: si, io ho una laurea, ma non necessariamente esigo posti di lavoro con una laurea in economia, mi va bene anche una fabbrica, posso fare anche l'operaio, non mi interessa. E nono ho neanche intenzione di guadagnare chissà quanto, mi basta sopravvivere. Perché la mia fortuna, la mia ricchezza, è nello spirito che ho, non nelle cose materiali che mi circondano, che ho o non ho. Per cui nessuno mi chiese: come fai a trovare un lavoro? Lo cerchi? Lo trovi? Hai bisogno di un aiuto? E io siccome a nessuno ho detto che avevo bisogno di un lavoro, non posso rinfacciare a nessuno di non avermi aiutato. Perché mi vergognavo di chiederlo, mi umiliavo a chiedere un lavoro a chi essendo esule e già ben sistemato qua avrebbe potuto comunque fare qualcosa. Ho fatto anche visita a certi uffici dello Stato, proprio per impostare il problema dal punto di vista dell'esilio. E faccio una parentesi: noi quando parliamo degli esuli ci riferiamo a quelli che hanno lasciato le terre fiumane, istriane e dalmate dal 1943 al 1954, con la firma del Memorandum, con le opzioni, eccetera, eccetera. Tutti quelli che a loro volta furono vittime del sistema e furono costretti ad abbandonare le proprie terre e le proprie case allo stesso modo, ma dopo, non sono riconosciuti dallo Stato, perché le leggi fatte per gli esuli sia in materia sociale di alloggi o di pensioni, o di sanità, o di assistenza si richiamano sempre a quei periodi là, tutti gli altri dopo non valgono più. Per cui io essendo venuto qua, non ho neanche lo stato di esule. E neanche i mie colleghi qua me lo riconoscono. Mi considerano ancora un rimasto, e sono vent'anni che son qua! Comunque...E riprendo il discorso. Il discorso che io ho fatto negli uffici dello Stato, in prefettura, sia a livello regionale che provinciale, che comunale, sempre per la vergogna di dover chiedere un lavoro - e non l'ho mai chiesto - non sono mai stato aiutato, mai nessuno lo ha capito cosa cercavo, cosa volevo se avevo o meno il diritto di avere un lavoro, come esule. Perché, tra l'altro, quando sono successi quei fatti a Pola e io dovetti andarmene, andai dal console italiano a Capodistria, raccontai come andarono le cose e il console italiano mi dette la cittadinanza italiana nel giro di sette giorni, cosa che era molto difficile ottenerla, quella volta. Lui mi dette la cittadinanza italiana e io divenni cittadino italiano subito, venni a Torino in qualità di cittadino italiano. Dunque, non fui aiutato da nessuno degli esuli, ma non è colpa loro, è colpa mia che non ho avuto il coraggio di umiliarmi e chiedere aiuto. Mi aiutò mia moglie, la mia conviente adesso: trovai un posto in un'officina meccanica - in via Cagliari, qui a Torino- ma solo part - time, perché l'officina non aveva bisogno di un impiegato intero. E io là svolsi per due anni tutte le funzioni, sia dell'amministrazione, che dell'operaio, che del fattorino, che del lavavetri, che della donna delle pulizie. Tutte le mansioni - queste qua che hai sentito - le ho fatte. E feci tutte queste mansioni con l'umiltà più felice di questo mondo, perché era un lavoro, era uno stipendio. Tra l'altro poi la Fiat andò in crisi, l'officina meccanica andò in crisi come indotto e il padrone mi disse: Claudio, purtroppo dobbiamo lasciarti a casa. Ho capito, non si preoccupi, ha ragione, non si può fare diversamente, e me ne son rimasto a casa. Lì ho lavorato due anni, e quei due anni di anzianità di lavoro furono sufficienti, con quegli altri trenta che avevo di là, per avere una pensione che ora ammonta, in Euro, a 147 Euro. 147 Euro mensili; io ricevo una pensione in Kune di là che ammonterà sugli 800 Euro, perché essendo stato direttore ho una pensione alta. Io diciamo che ho sotto i 1.000 Euro di pensione al mese."

25) le chiedo ancora due cose. La prima: lei ritorna in Istria?

R.:"Oh, si, molto sovente. Io sto là tutto agosto, senz'altro, e tutto dicembre. Al minimo, se non altre volte."

26) Che effetto le fa tornare?

R.:"Ah si, è straziante, si, si. Arrivi e godi, godi. Fiorenza mia! L'effetto è straziante, ma è questione di sentimenti, e io, per fortuna, sono ricco di sentimenti!"

27) L'ultima domanda che le faccio è questa: lei, a fronte della sua vita, si sente più esule o rimasto, oggi?

R.:"Io mi sento e l'uno e l'altro. Io sono e rimasto e esule: al 100% rimasto e al 100% esule e voglio essere considerato tale e spero, veramente, che quella comunità istriana, fiumana e dalmata di cultura italiana, che unisca esuli e rimasti, nasca quanto prima attraverso un'istituzione che la possa rappresentare. Questa è la mia unica speranza."