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Intervista a Sergio M. del 02/11/2007

"Io son nato a Dignano d'Istria, in provincia di Pola, il 24 marzo del 1946".

1) Può parlarmi della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori, ecc.?

R.:"Quando erano lì abitavamo a Dignano in una bella casa. [I miei] erano di origini contadine, anche se abbastanza diversificate, perché mio nonno poi faceva il marinaio e il pescatore, mentre mia nonna lavorava all'Opificio di Pola, anche mio papà e anche mia mamma. All'Opificio militare, dove facevano le scarpe per i militari. Quindi diciamo che negli anni durante la guerra, pur avendo terreni dove in parte ci si lavorava - e quindi ulivi e altre coltivazioni - hanno abbastanza lavorato e quindi unendo un po' le forze era una famiglia che stava, nei limiti del normale, abbastanza bene. Quando abbiamo - anzi hanno perché io avevo un anno, era nel '47 - [esodato] col Pola, che hanno lasciato le terre - io avevo un anno circa - son partiti tutti. Perché, in quegli anni, mio nonno era morto in un incidente di mare - se ne parlava prima, faceva il marinaio - siamo partiti di lì in sei persone, con me, del nostro nucleo familiare. C'era mia nonna, mia bisnonna, mia mamma, mio papà, mio zio - che abita ancora lì a Lucento - ed io."

2) Lei è di Dignano. Riesce a descrivermela?

R.:"Io le faccio una premessa. Io sono forse uno dei pochi che per decenni non sono mai andato in Istria, pur quando tutti i miei parenti e amici andavano. Ci sono andato una volta, quattro anni fa, con un amico, che invece andava sovente. E in quell'occasione sono anche andato a vedere Dignano. Quindi ho visto una volta Dignano, ho visto la casa in cui ero nato e c'era lì un mio zio che va lì. Quindi quello che io so di Dignano è quello che sentivo parlare, non ho nulla da dire in modo diretto perché ho visto tutti quei posti, quella che era l'Istria, le terre dei miei. Per quanto ne so io, Dignano era un paesino prettamente agricolo, un paesino abbastanza piccolo con alcune cose importanti, tipo il campanile e altre cose. Però tutta gente che viveva sull'agricoltura e poi, buona parte, andando a Pola a lavorare in questo Opificio militare o in altri posti. Non ho molte idee in più."

3) E la popolazione era in maggioranza italiana?

R.."Era tutta italiana, era tutta italiana. Poi ci sono cose dette di quello che è stato fatto - io racconto cose che ho sentito che ho letto, perché sappiamo tutti quanto che al momento in cui Tito è arrivato ha voluti dimostrare - però era tutta italiana."

4) Io le ho fatto questa domanda per capire quali erano i rapporti tra gli italiani e gli slavi, perché a questo proposito io vorrei capire se si trattasse di due mondi che vivevano insieme e che avevano tra loro dei rapporti, oppure se invece erano due mondi separati, che quasi mai si intersecavano...

R.:"Quasi mai, quasi mai. Perché, anche lì, sentivo e rimango a quello che mi han detto... Cioè tutta la parte della costa - quindi l'Istria, se vogliamo - era quasi totalmente italiana. I croati erano le persone che stavano all'interno, quindi non sul mare e non nei posti che allora - e penso anche oggi - sono i posti dell'Istria in cui si viveva meglio per tutta una serie di motivi. Per cui, c'era - devo dire - abbastanza sufficienza da parte degli italiani nei confronti dei croati; quindi è giusto quando dicono che il croato in quel momento lì si sentiva abbastanza un abitante di serie B, pur vivendo anche loro in quei paesi lì. Diciamo che quando si voleva insultare uno, anche scherzando o ridendo, si diceva: sei come un croato, per dire un po' l'idea che è vero. S'ciavo, s'ciavon, croato... E' vero che i croati in quegli anni lì avevano una vita abbastanza difficile - e questo bisogna riconoscerlo - ed è vero quindi che nel momento in cui si sono invertite le posizioni hanno fatto pagare a torto o a ragione - probabilmente a ragione da parte loro - quello che hanno patito durante gli anni del fascismo. Anche perché l'altra cosa vera - poi ci sono luoghi comuni per io fascismo e per il comunismo - è che l'Istria, essendo un territorio di confine con quella che era la Croazia o la parte slava, c'era abbastanza propaganda - anche sentendo - da parte del regime di allora che tendeva a far capire che l'italiano era un po'un popolo eletto - tanto per dire cose che non hanno senso - e lo slavo era l'inetto, il poveretto, che si sopportava ma che erano sicuramente abitanti di serie B. Quindi, non c'è mai stato un buon rapporto tra gli italiani e gli slavi in quei posti lì. L'italiano era di gran lunga a maggioranza, anche perché uno slavo avrebbe avuto difficoltà a vivere con gli italiani in questi ultimi sessant'anni, però c'erano pochi croati, pochi slavi e molti italiani. E questo rapporto era tutt'altro che idilliaco."

5) Suppongo che lei della guerra non ricordi nulla - anche perché è nato dopo - però le hanno raccontato qualcosa?

R.:"Si, della guerra mi hanno raccontato... C'è il papà di mia moglie che l'ha fatta veramente, perché ha fatto sette anni in giro per il mondo, dalla Russia all'Albania, e quindi... Per quello che riguarda l'Istria e Dignano si può dire che - e credo di non sbagliare - probabilmente c'erano molti simpatizzanti del partito fascista: questo [me lo hanno] raccontato negli anni dopo, e quindi ritengo che questi giudizi siano poi stati in qualche modo dovuti a interferenze e a quello che hanno vissuto. Perché io dico: è certo che uno è anticomunista! Per cui io dico che anche all'interno dei paesi - a Dignano ma in qualunque altro paese - è vero che c'erano dei conflitti tra i partigiani - o pseudo tali - e quelli che invece erano simpatizzanti dei fascisti. Le foibe, di cui finalmente se ne parla, le hanno riempite di persone che abitavano in quei posti lì. Per cui il ricordo della guerra...Anche perché, per esempio, molti l'hanno fatta, ma moltissimi non l'hanno fatta. Mio padre stesso non l'ha fatta - e non ho mai capito come fosse possibile - perché non è partito come militare. E' andato coi partigiani, è rimasto qualche mese ma poi non condivideva il modo di vivere che non era di sicuro molto allegro, per cui è riuscito a rientrare in Dignano e a vivere la guerra nascosto in casa, e non ho mai capito come fosse possibile. Però han detto che era un qualcosa che non era un'eccezione. Dicevo che forse la cosa nuova è che uno o era fascista - come etichetta, in quanto combatteva - oppure era partigiano, ma poi c'era anche quelli lì che non erano né gli uni né gli altri. La guerra, come è stata? Diciamo che durante la guerra contrasti ce ne sono stati parecchi: fin quando c'erano i fascisti, diciamo che hanno reso la vita difficile ai partigiani, ai comunisti o ai simpatizzanti, o forse pseudo tali, perché la realtà non si sa mai com'è. E' bastato vedere dopo la guerra che le persone hanno voluto togliersi dei sagrin [preoccupazioni] con persone che nulla avevano con il fascismo e li hanno condannati, li hanno denunciati e molti anche a Dignano, ma così è stato anche prima col regime fascista, per cui diciamo che i comunisti hanno avuto dei problemi e hanno avuto vita difficile, perché venivano presi, li portavan via, gli spaccavano le gambe e poi li riconsegnavano alla famiglia e così via. Cosa che han fatto, regolarmente, i comunisti - perché comunisti erano - nei confronti di quelli che o hanno collaborato, perché hanno combattuto, ma per che motivo? Perché uno spesso combatte perché ti fanno combattere oppure perché alcuni , perché il mondo è fatto così, checché se ne dica...Allora il fascismo era in auge e allora c'erano tanti fascisti, poi quando era il momento della resa dei conti erano molto meno!"

6) E della fame durante la guerra, della difficoltà di procurare il cibo, le hanno raccontato qualcosa?

R.:"Quella diciamo che l'ho vissuta anche in Italia. Lì no. Lì essendo una famiglia che aveva i campi, che comunque durante la guerra lavorava anche in queste organizzazioni militari, la fame [non c'era], lì loro stavano bene. Invece poi siamo partiti e siamo arrivati in Italia. Passando da La Spezia e andando alle Casermette. Su quel treno di cui tanto si legge - ho letto il suo libro, ma anche altri - che a Bologna - nella civilissima Bologna - non lo hanno fatto fermare, neanche per dare un po' di acqua ai bambini, c'ero anche io. Perché in quel momento lì Bologna - come anche oggi - era abbastanza di sinistra, era anche fascista all'epoca, e tutti quelli che venivano dall'Istria erano anche fascisti. Ma per che motivo? Perché - e questa è la cosa importante - la gente, secondo i comunisti o come li vogliamo chiamare, lasciava tutto quello che aveva - perché così è stato- pur di non rimanere in un paese comunista, dimenticando tutta la propaganda italiana fatta da loro - perché in quel momento lì il fascismo non c'era più, in quanto c'era il primo governo - e hanno fatto propaganda continua invitando tutti gli abitanti italiani - o che si sentivano italiani, ma che erano italiani- a lasciare le terre e poi a venire in Italia. In quel momento lì però, per Bologna e per l'Emilia, nel treno che non han fatto fermare e che non han fatto scendere neanche per prendere un po' di acqua - e son cose che rimangono- c'ero anche io. E siamo andati a La Spezia. Da La Spezia, in campo profughi siam rimasti pochi mesi, e poi siam venuti, tra i primi, alle Casermette, a Torino. Lì abbiamo patito la fame, perché arrivando lì siamo venuti senza niente, con qualche pezzettino ma lasciando lì tutto, e, appunto, sei persone in una caserma, trenta metri quadri in sei persone, non avendo nulla...Perché hanno promesso al momento, lavoro e tutto, ma poi dopo non hanno dato nulla, anche perché oggi uno lo capisce ma allora era un pochino più difficile da capire... C'erano delle tessere particolari che poi ti davano qualcosa [da mangiare]. Tanto per fare un esempio: lo zucchero che davano, non bastava neanche per me che avendo un anno... Lo zucchero dovevano darlo ai bambini, e quindi tutto lo zucchero di sei persone non era sufficiente neanche per un bambino. Per il resto non c'era nulla, per cui si, si sopravviveva, e la fame si è fatta. Poi, a dire il vero, un posto di lavoro è stato dato, anche se, come sempre, in quelle occasioni c'è da chiedersi come sia possibile arrivare a certe decisioni. Per cui, mio padre e mia nonna, che han fatto andare in campo a Torino, e dopo qualche mese che avevan lasciato La Spezia, gli hanno offerto un posto all'Arsenale di La Spezia. Si, però, se uno va a La Spezia, e deve pagarsi qualcosa per vivere, allora poi dopo la famiglia come vive? Per cui, per un po' sono stati a La Spezia, poi dopo mio padre - ovviamente non era sostenibile - è riuscito a trovare un altro posto come falegname, per cui poi... Insomma, per qualche anno si è fatta la fame, poi sono riusciti in qualche modo a risollevarsi con le loro forze."

7) Prima abbiamo parlato, anche se non in maniera approfondita, delle foibe. Lei quando ne ha sentito parlare per la prima volta?

R.:"Ah, subito. Da bambino, subito. Quello che ci raccontavano da bambini, i nonni, erano le foibe, perché tutti conoscevano."

8) E come venivano presentate?

R.:"La foiba era... Erano dei buchi infiniti nel terreno, in cui uno veniva preso e veniva buttato, vivo molto spesso, in questo buco che sembrava non avere fondo, e quindi uno andava giù. Parenti, conoscenti, amici, tutti hanno persone che conoscevano che son finiti nelle foibe. Per cui quando si raccontavano le favole ai bambini, oppure quando i bambini non stavan bravi, si diceva: guarda che ti buttano in foiba, oppure i te butan in foiba in dialetto. Era un detto comune per descrivere quello che era il peggio che potesse capitare a qualcuno, essere buttato in una foiba. Parlavano di gente che andavano a prenderli per interrogarli i comunisti - titini o non titini, perché poi anche lì molti italiani hanno immense colpe - e poi la gente spariva, ma spariva proprio, e le foibe erano piene. Poi dopo hanno cominciato anche a tirarli fuori, però il modo migliore per fare sparire qualcuno, era prenderlo e buttarlo nelle foibe. Dico io, poi non l'ho mai sentita, ma visto che le foibe ci sono, saran servite anche prima, magari anche altri ci saran finiti, però da sempre si è parlato di queste foibe: venivano a prenderti e ti buttavano in foiba. E' una cosa che sapevano tutti, se ne parlava liberamente, chiacchierando, perché poi come sempre accade quando le persone sono via, di cosa parlano? Io, personalmente, sempre sentivo parlare tutti gli anni - anche a Lucento - di guerra e non guerra, foibe e non foibe, di quello che è successo e non è successo. Erano una presenza costante, tutti lo sapevano, tutti hanno avuto gente, gente ha visto quello che è successo, quindi non è che si parlasse di qualcosa poco tangibile, era una cosa normale."

9) Secondo lei cosa stava alla base di queste violenze?

R.:"Io per la foiba ho sempre pensato...Non ho mai voluto pensare che fosse usata in modo dispregiativo per dire sei un rifiuto e quindi ti butto con i rifiuti. In modo molto più pratico, come ho sempre cercato di essere, era il modo migliore per far sparire una persona. Sempre, negli anni, sentiamo che hanno ucciso migliaia di persone, di non farlo conoscere in giro per il mondo, e quindi di farle sparire. La foiba era già bella e pronta, era il modo più semplice per far sparire una persona, per poi dire noi non sappiamo niente. Le violenze che ci sono state sono quelle. La violenza di base da parte italiana - se vogliamo così dire o da parte comunista - ritengo che l'obiettivo all'epoca era di fare una rivoluzione per portare il comunismo in Italia. Non è un caso che per cinquant'anni, fin quando c'è stata l'Unione Sovietica, l'Italia come tale ha avuto più sovvenzioni da parte dell'Unione Sovietica - lei lo sa meglio di me, credo, se no glielo dico io!- di tutti gli altri paesi comunisti europei. Quindi il perché è incomprensibile, oggi. All'epoca lo era molto meno. Forse pochi sanno, o tanti, che la persona che era l'uomo di fiducia - è una cattiveria, ma la devo dire!- dell'Unione Sovietica, il tesoriere, quello che aveva i contatti e che per cui prendeva i quattrini che davano, era il nostro amico Giorgio Napolitano. Per cui adesso, quando prende posizioni, dovrebbe anche ricordarsi. A mio avviso, quindi, da parte italiana c'è stato di tutto per far diventare [l'Italia] una provincia - la chiamo io- dell'Unione Sovietica in ambito comunista. Quindi è stata una corsa da parte dei partigiani slavi, che però si capiscono, era anche casa loro. Tito ha avuto l'abilità, con il sostegno dell'Unione Sovietica, di anticipare lo sbarco degli Alleati, per cui nel momento in cui sono arrivati, il primo obiettivo era dire: qui ci siamo noi, voi andate da qualche altra parte, questo è territorio della nuova Jugoslavia. Con l'appoggio degli italiani, anche se dimenticano gli italiani comunisti, tutti gli italiani non fascisti che i loro colleghi slavi hanno ammazzato. Anche lì, si può capire o non capire, ma si può giustificare - dico io- per il fatto che in quel momento la corsa era per chi arrivava, per chi metteva in piedi uno stato nuovo che era la Jugoslavia. Per cui, quello che è stato fatto da parte di Tito... Poi Tito, naturalmente era il demonio per gli istriani e gli altri, ma in realtà così non è, perché Tito ha avuto la fortuna, l'abilità e la capacità di riuscire in quel momento a creare quella che è stata la Jugoslavia, e di mettere assieme e aggregare persone che niente in comune avevano e difatti dopo si è visto."

10) Parliamo ora dell'esodo. Mi diceva di essere partito nel '47. Della sua famiglia siete partiti tutti?

R.:"Siam partiti tutti, si. Come famiglia noi tutti, poi alcuni parenti sono rimasti. Il nucleo familiare che era di sei persone, in quanto mio nonno era morto da poco. L'alternativa era - perché già si vivevano le pressioni titine o comunque jugoslave - l'alternativa era... La casa, perché avevano già detto: quella casa lì per voi è troppo grande, la dividiamo in tre. A voi viene una parte, un'altra parte a un'altra famiglia croata e la terza parte a una famiglia croata che noi mettiamo dentro. Poi le terre, ovviamente, non era previsto che uno avesse terre sue e neanche la casa, perché la casa era dello Stato, e quindi l'alternativa era o vivere lì, perdere tutto e non sapere cosa fare, oppure partire. In quel momento era forte la propaganda italiana, ma l'obiettivo dei miei non era fermarsi in Italia. Specialmente dopo essere arrivati in Italia e dopo aver vissuto non bene per un certo periodo. [Allora] han fatto domanda per andare negli Stati Uniti, per cui l'esodo è stato un atto quasi obbligatorio, perché c'erano vessazioni di tutti i tipi. Arrivati in Italia, beh, il fatto che ti mettano in una caserma in mezzo ai campi...Perché oggi passi in via Guido Reni, in via Veglia, ma lì non c'era nulla, era un ghetto - come io l'ho sempre definito - per cui la gente stava lì viveva come poteva vivere, e c'erano migliaia di persone che sono arrivate lì - per fortuna, dico io, altrimenti dura sarebbe stata- e l'inserimento in Piemonte e in Torino non è stato facile".

11) Mi parli del viaggio. Siete partiti da Dignano come?

R.:"Col piroscafo, col Toscana, fino a Trieste. Da Trieste con il treno andando a La Spezia e passando come dicevo da Bologna. E non era ancora chiaro dove sarebbero andati, tant'è che sono rimasti per un po' di tempo in caserma a La Spezia, e poi dopo hanno definito che un certo numero di persone sarebbero arrivate alle Casermette."

12) Dignano era una città che si svuotava, la gente andava via?

R.:"Quasi tutti. Quasi tutti perché diciamo che qualche vecchio è rimasto. Per esempio del mio ceppo familiare, un paio di vecchi - cugini e non cugini - son rimasti perché avevano una certa età, perché erano vecchi ed erano attaccati alla loro terra. Per cui, sono partiti i più giovani, e i vecchi sono rimasti. Son rimasti lì, hanno fatto quello che volevano fare con noi, quindi la casa - a mio zio per esempio - gli han dato una cameretta e il resto l'han dato ad altre famiglie croate. Son vissuti male, hanno sopportato - perché poi tutti sopportano quando l'alternativa era lasciar tutto e andare via - e diciamo che il 90% credo sia partito nel giro di un anno. Una città che si svuotava completamente... Ma c'è stata anche questa forte propaganda italiana in cui promettevano tante cose - la casa, il lavoro - pur di non rimanere lì con gli salvi. Da una parte questo, dall'altra le prime avvisaglie di quella che poteva essere la vita vissuta lì, perché i croati son piombati sulla costa e han tolto tutto e gli italiani li hanno sempre bistrattati e insultati, ma anche a distanza di quarant'anni, perché quando sono andato una volta io - quattro anni fa - ho parlato con degli italiani rimasti lì e loro dicono: noi sempre, non è che il tempo passa, uno dice ci sono le nuove generazioni, uno sta lì per quarant'anni per cui diventa - volente o nolente - un croato anche se parli italiano. No, loro erano sempre italiani, hanno sempre avuto vita difficile, hanno sempre avuto problemi nell'inserirsi in quella che poteva essere la vita sociale di allora. Hanno sempre [avuto] l'etichetta di italiani. Per cui, son partiti tutti assieme: si, c'è ne sono in Piemonte, c'è ne sono molti in Piemonte."

13) Quindi se io le chiedessi quali sono state le cause che hanno spinto la sua famiglia a partire, lei cosa risponderebbe?

R.:"Da una parte la propaganda italiana e dall'altra parte le pressioni slave e la paura di vivere in quel mondo che era tutto diverso da quello che avevan fatto."

14) E se invece provassi a ribaltare la domanda chiedendola chi è rimasto perché ha fatto questa scelta?

R.:"La risposta facile, ma secondo me sbagliata, è quella di dire: tutti i partigiani dell'epoca, [perché] hanno ottenuto quello che volevano. Ma no! Perché molta gente comunista ha lasciato, perché poi dopo anche loro hanno vissuto con l'etichetta di italiani, che poi i croati non guardavano in faccia nessuno. In quel momento c'erano gli italiani e i croati. Gli italiani - tutti quanti - in quel momento erano oggetto di pressione, da quello che so io; loro non guardavano in faccia nessuno e il fatto di essere italiano uno era già etichettato, bollato. Al che, anche loro, sono venuti via. Qualcuno, quelli particolarmente irriducibili comunisti o convinti che all'epoca la vita sarebbe stata migliore in un paese comunista son rimasti, pochi. Molti invece [erano] persone di una certa età, che non se la sono sentita di abbandonare quello che avevano, con la speranza, forse, che tutto sommato poi le cose si sarebbero aggiustate. Tanto comunque io non è che son milionario, ho la mia campagna, lavoro e dopo cosa farò? Lavorerò la campagna e quindi alla fine non è che mi cambierà tanto. E penso che sia quello il motivo per cui la maggior parte delle persone che son rimaste lo abbiano fatto. Pochi subito e meno dopo di quelli convinti comunisti, che hanno poi fatto quello che hanno fatto all'epoca per favorire questo tipo dio sviluppo e di soluzione. Perché poi anche noi, quando eravamo lì nel campo profughi, c'erano i comunisti, della nostra gente. E molti hanno cambiato, perché poi hanno visto che stavano meglio prima, con il fascismo tanto vituperato. Per otto anni sono stato alle Casermette - forse il massimo - e hanno visto che uno aveva poco ma ci viveva, e lì aveva niente e non ci viveva e aveva tutti i problemi che avevano gli altri che magari erano meno convinti della bontà di un certo regime. Alla fine poi l'han capito che così [non andava]. Però, pentimenti per quanto fatto c'è n'è poi stati".

15) L'esodo è un momento di rottura. Prima dell'esodo io credo vi siano stati dei legami di parentela, amicizia e affetto tra persone nate e vissute nella stessa terra. Secondo lei, con l'esodo, questi legami tra chi resta e chi parte, si spezzano o restano immutati?

R.:"No, no. Sono rimasti in pochi, poi il fatto era che anche, per molti anni, noi non potevamo andare in Istria, per cui [c'erano] questi gruppi familiari spezzati... Perché anche loro non potevano venire in Italia, come oggi noi non possiamo comprare una casa in Istria. I tedeschi si, ma noi no! Però diciamo che il tutto si è un pochino rotto come rapporto, ma non per il fatto che uno è rimasto e l'altro [è andato via]. Tanto alla fine si sa che la maggior parte di quelli rimasti son quelli che avevano una certa età e che comunque poco avevano, e andando via poco avrebbero avuto, e allora hanno puntato - oggi credo male, forse bene all'epoca - perché poi tutti quanti hanno abbastanza patito e sofferto chi ha lasciato le case, e io credo di più di quelli che son rimasti. Io credo che quelli che son rimasti per tanti anni non hanno vissuto peggio di chi è partito, e han sofferto meno di chi è partito, perché per lo meno è vissuto nei posti in cui son nati e che hanno abitato per moltissimi anni. Per cui, se devo dire, credo che nel breve ha fatto bene chi è rimasto, molto più di chi è partito, perché alle Casermette - e qui si parla di otto anni - noi non abbiamo avuto nulla e niente da nessuno. Quindi per chi aveva una certa età ed è rimasto, per me ha fatto bene. Per esempio, la mia bisnonna che all'epoca aveva sessanta e passa anni, ha fatto un errore a venire via. Tant'è che, per quel che mi ricordo, piangeva continuamente, perché ricordava dov'era, quello che aveva e lì [invece] aveva questi trenta metri con le coperte da una parte all'altra e non aveva nulla, e quindi molte volte hanno rimpianto il fatto di essere partiti, perché otto anni sono lunghi".

16) Ecco, ma infatti parliamone. Lei mi diceva di essere arrivato come primo campo a La Spezia.

R.:"Si, sono stato qualche mese, pochissimo".

17) E poi arriva a Torino alle casermette. In che anno?

R.:"Siamo arrivati nel '47."

18) Che ricordi ha lei del campo?

R.:"Quello che ricordo io... Io dico, la vita alle Casermette per un bambino, credo che sia stata una vita piacevole e divertente, perché eravamo in qualche migliaio, con questi quattro campi attorno, per cui uno usciva ed entrava, e conosceva tutti, grandi e piccoli. I bambini li conoscevi, andavi a giocare, correvi... Era meglio di quella che poteva essere la vita di un paese, perché lì era più di un paese. Non c'era nulla, intanto. Non c'eran le macchine, per cui uno correva, usciva e andava, ed era libero, perché essendo tutto chiuso anche i genitori [stavano tranquilli]... Che eravamo tutti di noi in quella caserma lì, e c'era anche - forse gliel'han detto - una caserma dei greci, con antagonismi divertenti visti da un bambino. Per cui la vita di un bambino lì era una vita piacevole, perché si giocava, si giocava, si giocava. La scuola poi, i primi anni, si andava lì, si stava [insieme], e quindi...Perché non andava bene, uno non capiva tutti i problemi che ci potevano essere...Quello che capiva era un'ammucchiata di gente che li conoscevi tutti, che giocavi continuamente, andavi da una parte e andavi dall'altra. Quando avevi qualche anno, già uno partiva, andava tre caserme più in là, quindi era una vita collegiale che io ricordo una bella vita. Anche se uno poi lo dice, ma come è possibile? Perché, ovviamente, i bambini mangiavano meglio degli altri, come è giusto che sia. Le dicevo prima lo zucchero..."

19) Ecco, ma in questo senso, lei si ricorda se voi bambini avevate dei pacchi dono, ricevevate degli aiuti?

R.:"No, non come bambini. C'era i pacchi di sopravvivenza che davano i militari."

20) Ecco, ma ad esempio lei non si ricorda dei pacchi UNRRA o dei pacchi dono dati ai bambini ad esempio a natale o a pasqua?

R.:"No, non mi ricordo. So che quelle lì mi hanno seguito per almeno quindici anni, perché poi anche a Lucento avevamo quelle razioni militari avanzate, che non so bene da dove arrivavano... Le nostre uniche vacanze erano ovviamente a Sinolza con la parrocchia, dove andavamo su e ci davano queste vecchie brande militari. Quindi la mia vita da bambino è stata, devo dire, divertente, per me. Riconosco che è stata molto pesante per chi invece bambino non era. Però noi giocavamo, facevamo anche delle cose folli, perché poi, per esempio, c'era questo recinto, facevamo i buchi e andavamo sul muro. Giocavamo poi - cose che ricordo benissimo anche perché qualche volta ci si faceva male - tra vari reparti con le fionde: c'erano quei campi con dei canaletti a bordo campo dei quattro campi, e allora c'erano quelle bande da una parte e dall'altra con le fionde e con gli archi e noi passavamo ore e ore a giocare e a divertirci. A giocare a pallone, scalzi perché le scarpe non c'erano, però è stata una vita, per quello che mi ricordo io da bambino, divertente. Nulla a che vedere con la vita, ritengo io, dei bambini di oggi, anche perché io ho una nipote piccolina... Per cui lì, si viveva in assoluta libertà, c'erano appunto nella mia caserma non so quante centinaia di persone, pur non avendo l'acqua e i servizi al fondo, quando c'era... Però uno correva da una parte, entrava dall'altra, come se fossero quelle famiglie che oggi è di moda dire allargate. Eravamo tutti di noi, e quindi si viveva bene."

21) E voi bambini avevate invece la percezione che la vita in campo fosse vissuta diversamente dagli adulti oppure no?

R.:"All'epoca no, poi dopo si. Ripensandoci dopo quando uno era [cresciuto] si, però all'epoca no. Io non ho mai avuto [la percezione], anche perché l'unico modo di vivere che io ho conosciuto era quello. Non avendo avuto la casa, per me fuori non sapevo neanche cosa ci fosse; cioè noi non andavamo fuori."

22) perché nel campo c'erano delle strutture...

R.:"La scuola, l'oratorio, il cinema parrocchiale. E' stato molto importante ritengo in quegli anni lì e in quelli successivi - nei primi anni del Villaggio - la chiesa con gli oratori, perché la nostra vita è stata quella, ed è quella che ci ha consentito, forse, di non prendere altre strade. Lì c'era don Macario, don Pierino, don Michele ed altri preti."

23) Abbiamo parlato fino ad ora dei campi. Posso chiederle di descrivermi una stanza?

R.:"Guardi... C'era uno stanzone con una stufa, con i letti ammassati, con compensati e coperte da una parte e dall'altra, e poi non mi ricordo se avevamo qualche armadio o se invece no, anche perché non è che lì ci fosse molto spazio, per cui... Ma io, forse, non ho mai visto la mia stanza, per me la caserma era il posto in cui vivevo, o per lo meno una delle tante casermette. Perché poi uno in stanza ci stava poco, o per lo meno poco in assoluto, anche perché se no poi uno non ci stava! Poi certo che magari d'inverno c'erano più problemi, eccetera. Però, era un ammasso! C'era una stufa che mi ricordo perché bisognava sempre stare attenti, c'era questi letti che erano uno attaccato all'altro, e c'erano queste coperte. Poi c'hanno montato dei mobiletti e dei ripiani dove uno accatastava qualche coperta, qualche lenzuola e tutte quelle cose lì."

24) Lei prima mi parlava di greci. Posso chiederle com'erano i rapporti tra di voi?

R.:"Erano conflittuali. Anche se poi - specialmente nel Villaggio - si era amici, perché poi alla fine eravamo tutti disperati, per cui eravamo amici... Però, quando noi eravamo in un campo e i greci in un altro campo vicino, quello che ricordo - non tanto con noi piccolini - ma quelli che già avevano dodici, tredici, quattordici anni, [i rapporti erano] conflittuali ma andando a vie di fatto. Cioè, era abbastanza normale che ci fossero delle spedizioni da un campo all'altro, e che la gente si picchiasse. Era un picchiarsi normale, non con bastoni o cose, oppure con fionde... E queste battaglie che facevamo, spesso erano tra gli istriani e i greci. Per cui, c'era un rapporto abbastanza conflittuale, e per quello che sentivo io, i greci non erano visti molto bene dalla mia gente, non lo so se a torto o a ragione. Diciamo che quello che dicevano era che mentre da noi si era comunque riusciti, nonostante tutte le difficoltà a metterci in piedi e a vivere in modo decente, pulito, dalla parte dei greci era tutto un campo sporco. Greci, sporchi, insomma... Pur essendo anche loro, poveretti, anche se per motivi opposti ai nostri perché con l'avvento dei colonnelli in Grecia li hanno mandati via, quindi per motivi opposti, da una parte il comunismo e dall'altra il fascismo. Però non c'è mai stato, ma neanche dopo, neanche alle Casermette, per il fatto di spesso dividere al Villaggio l'area dei greci, l'area degli istriani, l'area dei baraccati, quella dei torinesi che non si sa bene cosa avessero fatto per capitare lì in mezzo a questa gente qui disperata... I greci erano sempre, insomma, più violenti, più forse abituati a un tipo di vita meno tranquilla, meno rilassata. Però erano molto più violenti, per cui il rapporto tra i greci e gli istriani, anche dopo anni e anni è sempre stato abbastanza conflittuale."

25) Senta, parliamo dell'accoglienza. Lei mi ha detto: è stato difficile inserirsi. Ecco, come siete stati accolti appena arrivati in Italia?

R.:"Dunque, per quello che riguarda me, per quel che ne so io, siamo stati messi alle Casermette, e quindi in un ghetto. Quindi - come sempre - finché uno vive lì, e non vede nessuno, le cose vanno tutte bene. Andando fuori, chi era già più grande o lavorava o cosa, hanno avuto notevoli difficoltà di inserimento. Non è che sono stati maltrattati, questo no, però molte difficoltà di inserimento con le persone che facevano parte del tessuto locale. Come se fossero gli zingari, ecco. Mi viene in mente quello. Credo un po' così, solo che poi, tutto sommato, mediamente, nessuno aveva da dire. [Con] gli zingari oggi ce l'abbiamo perché rubano. Lì invece c'era un sacco di gente che [diceva]...fascista! E' inutile, il bollo c'era sempre... Fascista, che dopo la guerra ha dovuto lasciare quello che aveva e venire in Italia. E l'Italia - bontà sua - li ha accolti e gli ha dato un posto dove vivere. Per cui fin quando uno viveva lì, e stava per conto suo, non c'era nessun problema, quando invece uno voleva entrare o inserirsi nel tessuto torinese è stato molto difficile. E non faccio fatica oggi a crederlo. Guardi, io ho vissuto per molti anni a Torino, sono arrivato a Carmagnola da Torino, circa ventisei o ventisette anni fa, e per anni ho vissuto la diffidenza dei carmagnolesi perché ero di Torino. Arrivando da Torino a Carmagnola i miei figli - allora avevo un figlio - a scuola era uno che non era dei loro. Ha fatto fatica a inserirsi, proprio perché - e purtroppo è vero - il piemontese è abbastanza chiuso e fa molta fatica ad accettare qualcuno che non sia del posto. Noi abbiamo avuto difficoltà a Carmagnola per inserirci in Carmagnola, da Torino, al che, ripensandoci, dico: ma figuriamoci allora, questa gente qui che era messa ammucchiata in un carro bestiame. Perché poi, visto dall'esterno, mi rendo conto che in una caserma, migliaia di persone, per chi invece aveva una casa - bella o brutta - o aveva un lavoro, non era una cosa così entusiasmante. Per cui molta difficoltà nell'inserimento, anche se tutto sommato non c'era ostilità. Però, ambienti chiusi: anche nei posti di lavoro, erano sempre gli istriani fascisti, perché ovviamente c'era qualcuno - e c'è ancora oggi - che soffiava sul fuoco e che alimentava questo odio [e odio] è una parola forte. Proprio il fatto che erano tutti fascisti, e che hanno dovuto lasciare il loro paese per venire in Italia e che quindi davano fastidio ai buoni comunisti italiani."

26) Alla base di queste difficoltà, oltre al fatto di essere considerati fascisti - ovviamente a torto - poteva forse esserci anche il fatto di essere visti come coloro che venivano a rubare il pane in un periodo in cui in Italia vi era una situazione economica abbastanza precaria?

R.:" Ma, il fatto che potessero pensare quello, [io] non l'ho mai pensato, ma senz'altro si, una parte, perché quando si è poveri nel mucchio, il pezzo di pane... Diciamo che in quegli anni lì era gente che il lavoro non ce l'aveva, che viveva appunto in posti chiusi, con quelle che erano le sussistenze. Quindi, anche lì, prima di avere un posti di lavoro, di anni ne son passati. Poi uno si, ha trovato dei posti di lavoro; non so se li ha portati via. Non penso, in quegli anni, visto oggi. Però capisco che magari qualcuno potesse vedere nel mucchio dei poveri altri poveri che potessero, in qualche modo, mettere a rischio la loro sopravvivenza."

27) Lei prima mi parlava di un difficile percorso di integrazione, che però con gli anni è poi avvenuto. Ecco, posso chiederle quali sono stati i canali che lo hanno favorito? Penso ad esempio al cosiddetto tempo libero...

R.:"Lì il tempo libero era allegramente, se non quando uno era un pochino più grande che andava fuori. Quando eravamo al Villaggio la vita era tutta lì. Io sono arrivato al Villaggio abbastanza presto - adesso l'anno non me lo ricordo - però si, abbastanza presto, perché abitando nelle case vicine alla chiesa - io abitavo lì - son quelle che hanno fatto prima dei torinesi, quindi..."

28) Ecco, ma ad esempio che effetto le ha fatto andare in una casa?

R.:"Avere una casa ed avere i termosifoni - casa piccola - era una cosa incredibile! Perché si, noi siamo andati...Intanto, per la prima volta, vivevo io con la mia famiglia: mio padre, mia madre ed io in una piccola casa. Avevamo un cucinino piccolissimo, ma c'era, avevamo la camera dei miei, piccola ma c'era, il bagno e il soggiorno c'era, quaranta metri quadri. Però era la prima volta che si viveva da soli; poi avevo vicino anche lì gli altri miei zii, mia nonna e tutti gli altri, per cui diciamo che c'erano dal mio punto di vista i vantaggi di vivere in modo collettivo perché poi alla fine eravamo tutti anche altri, lì abbiamo incominciato a mescolarci, greci, e così... E dall'altro il fatto di avere una casa sembrava una cosa: io camere non ne avevo mai viste, per cui il fatto di poter vivere in una casa, sicuramente è stata una cosa... Io l'impressione di allora non me la ricordo, però la casa, con i miei, quando si parlava di una casa, insomma...Era il sogno che uno per tanti anni aveva avuto, aspettava che gli dessero una piccola casa in cui vivere."

29) E il quartiere com'era all'epoca? Penso differente rispetto ad oggi.

R.:"Il quartiere era anche lì un quartiere isolato. Anche lì, hanno ripetuto il ghetto in modo più civile, perché era un posto isolato, attorno non c'era nulla, le Vallette non esistevano, Venaria non esisteva se non qualche casetta al fondo con Torino, tanto per darle un'idea. Poi mia nonna che per qualche anno andava a La Spezia a lavorare e poi stava lì e veniva solo il sabato e la domenica giù - ed è quella che per prima aveva lavorato - poi l'hanno messa a lavorare all'Ospedale militare di Torino. Allora lei, tutti i giorni, partiva a piedi in mezzo ai campi - perché non c'era niente - e arrivava all'Ospedale militare. Non c'era niente, quindi quella era la Torino di allora, dell'epoca. E c'era si il pullman che passava da Venaria e andava fino a tutte le medie diciamo che siamo rimasti... Per andare a riunirci a Torino dovevamo andare dove c'era il capolinea del 13, il Bonafous, che c'era qualcosina, per cui per noi piccoli giovani di là non andavamo mai; per cui uno stava lì, c'era il solito oratorio, le solite cose e si viveva lì, avendo una casa. Si continuava a vivere una vita abbastanza allegra: anche allora - che mi ricordo io - stavamo bene, perché si giocava, si correva, si andava a scuola che eravamo tutti quanti di noi - e anche lì andavamo a piedi a scuola, facevamo le nostre camminate - si aveva una vita più decente ma senza mai mescolarci agli altri. Solo poi quando uno cominciava ad andare a scuola - io sono andato all'Avogadro - e allora lì parti e vai e incominci a scoprire che non c'è soltanto il Villaggio. Ed è stato difficile".

30) Si?

R.:"Proprio perché uno penso che non era abituato a vivere così e ad incontrare persone nuove, ma aveva sempre vissuto con quella che era la sua gente. Dopo di che aveva sempre vissuto come noi, cioè conoscevi i greci e i baraccati, anche lì con contrasti notevoli, e prima di integrarsi non è stato facile. Forse non si sono mai integrati veramente nell'ambito del Villaggio, quelli che erano i torinesi, i baraccati e i greci."

31) Quindi il tempo libero come si passava? Penso ad esempio alla sera...

R.:"Alla sera, i più grandi, c'era già qualche posto fuori delle Casermette, c'era qualche posto in cui si poteva andare a ballare - qualche osteria e [cose] così -e qualcuno andava, ma da quanto ne so io erano sempre visti in modo abbastanza da intrusi. Però - mi son poi chiesto - non per la cattiveria che potessero avere contro di te, ma per il fatto che eri tu che andavi, che eri qualcuno che era arrivato da fuori e non eri dei loro. Quindi sempre visti come gente che è lì per caso."

32) Io ho notato una cosa, e cioè che gli esuli mantengono una memoria molto viva di quello che è stato il proprio passato [mi interrompe]

R.:"Quasi tutti, io no."

33) Lei no?

R.:"No, per principio, anche il fatto che non ho mai voluto andare [in Istria]..."

34) Ecco, ma questa è una sua scelta?

R.:"E' una mia scelta, non mi interessava, era un mondo che non mi apparteneva. Che l'ho vissuto di riflesso perché vivendo in una famiglia [istriana] ne ho sempre sentito parlare. Da una parte avevo una curiosità, dall'altra pensavo che non mi portasse nulla di nuovo il fatto di andare a vedere la mia casa, per esempio. Poi lì sono andato a vederla. Ma proprio per il mio carattere: io sono molto concreto, e cerco di non pensare mai a quello che potrebbe essere stato, ma di vivere da oggi in avanti. Poi il fatto di sentire gli altri... Certo che quando sentivo mia nonna, o i miei, ecco, son convinto che loro hanno fatto male a venire via di là. Hanno fatto bene per me, ma hanno fatto male per loro, perché se fossero stati lì avrebbero avuto una vita migliore. Non hanno fatto una gran bella vita, per quello che ho visto dopo! Si, poi andavano lì col rimpianto di avere quello che avevano e che non avevano più. E io ho detto: ma a che pro? Perché devo andare a vedere qualcosa che avrei potuto avere e che oggi non ho più? Non mi interessa. Ciò che a me interessa, è costruirmi una vita qui già che vivo qui, e comunque tutto il resto fa parte di posti che si, potrei vedere. E li ho visti, ma con curiosità, perché non è che mi sia scappata una lacrima, no, niente. L'ho visto e vissuto, anche in modo freddo, mi è piaciuto quello che ho visto. Bei posti, perché a me piace andare in giro e vedere bei posti: ho visto bei posti in Grecia, in Spagna, in Portogallo... Poi ero lì e per dire, c'era questo mio zio che mi ha detto: vieni, che ti faccio vedere la casa in cui sei nato. Io non l'ho chiesto, era a venti metri più in là, ma per me non andavo neanche a vederla! Ecco, in questo, forse ero l'unico che non fosse mai andato per cinquanta e passa anni a vederla. Poi sono andato con degli amici: andiamo lì, ma poi non sono più tornato. E' un posto che mi piace, andrò ancora, ma andrò perché è un posto che mi piace per passare qualcosa di divertente. [Ma] non sentirò nulla, non avrò non dico ricordi - né indotti né i riflessi - per quello che ho vissuto, perché noi abbiamo sempre parlato il nostro dialetto in casa, però ho sempre vissuto e visto in modo distante, anche per evitare di poter avere dei problemi inutili. Io dico sì, c'è una casa, ma mi dà fastidio... Perché io ho pagato i danni di guerra dell'Italia - perché questa è la realtà - e quando sento la gente che ce l'ha con la Jugoslavia, e vogliono le nostre case, non so cosa vogliono. La realtà è che l'Italia ha già avuto quello che le spettava, l'Italia ha pagato i danni di guerra con la mia casa, e io voglio che l'Italia mi dia quello che mi spetta, se no non mi dà nulla. Però mi rendo conto che sì, son lì loro, ma loro non hanno rubato niente, poi qualcuno glielo ha concesso - si può sempre discutere - però è l'Italia che in questo caso doveva comportarsi meglio. Quindi, l'ho vista, l'ho vissuta senza nessuna emozione particolare o sentimenti di nessun tipo. Proprio in modo freddo."

35) Lei mi ha detto di avere due figli. Ecco ha trasmesso loro questa storia?

R.:"No, niente. Qualche volta se capita, ma io non ho mai parlato. Avendo avuto la fortuna di sposare una piemontese - perché all'inizio i matrimoni erano tutti fatti tra gli istriani- per cui in casa abbiamo sempre parlato l'italiano. Si, quando incontro i miei parenti parlo ancora il dialetto, però lo parlo in modo automatico, cioè non mi dice nulla, non sento nulla, non sento niente per quei posti lì, se non capire quello che hanno perso chi ha vissuto. Però, personalmente io ai miei figli non dico... Poi c'è qualche battuta che mi viene ogni tanto, ma... Si vedeva molto di più con il papà di mia moglie che ha fatto sette anni di guerra, che raccontava della campagna di Russia qua e là, per il resto io non ho mai trasmesso nulla ai miei figli. Non so se è un bene o un male, però è una cosa che non mi appartiene."

36) Le faccio un'ultima domanda che, a dire il vero, ho dimenticato di farle prima. Lei che lavoro ha fatto una volta arrivato a Torino?

R.:"Negli anni io avendo fatto elettronica come scuola, e poi avendo fatto al militare telefonia, quando sono tornato ho avuto l'opportunità di entrare in STIPEL, in centrale telefonica. E quindi ho fatto proprio il tecnico di centrale. Dopo di che mi son sposato e mia moglie faceva l'informatica, la programmatrice. Era una qualcosa che mi affascinava e allora di sera sono andato a scuola e ho fatto un corso di computer. Poi ho cambiato completamente mestiere, e da lì in poi ho cominciato a fare il programmatore. Ho lavorato in molte aziende: in Michelin, in Cinzano, poi in Componenti Fiat qui alla Stars. Poi ho lavorato in aziende americane all'HP e alla Digital, e gli ultimi anni ad Alessandria per una multinazionale francese. Per cui ho fatto l'informatico e ho chiuso come direttore di orientazione ai sistemi informativi di quel gruppo francese."