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Intervista a Sergio V. del 14/09/2007

"Io sono nato a Zara, sono zaratino. Le dico tra l'altro che io ho finito da pochi giorni di scrivere un libro. Il libro ha un'impostazione sportiva, ma non è un libro tecnico, è una sorta di romanzo. Ed è scritto utilizzando le memorie di un bambino, non bene indirizzate dagli adulti nel raccontarsi, in casa, perché? Perchè mio padre è morto molto presto, nel '47 e quindi non ha fatto in tempo a raccontarci le cose com'erano veramente. E' morto in un campo profughi, mia madre era - è ancora perché ha centoquattro anni - una donna che ha vissuto in un mondo molto ristretto, insomma... Le donne di una volta, che erano un po' quelle che conducevano la famiglia, però restava tutto nell'ambito familiare e non in grado... Per esempio l'aspetto politico delle cose che avvenivano al di fuori, lei non era in grado di capirlo. Quindi ho scritto questa cosa qui."

1) Lei quando è nato e cosa facevano i suoi genitori?

R.:"Io sono nato nel '37. Mio padre ha fatto diversi lavori e poi durante la guerra lui era nel battaglione lavoratori, si chiamava così. Lui lavorava alla Sapri dove congelavano il pesce, e mia madre faceva a casa. Noi abitavamo in una zona che si chiamava Bellafusa di Zara, che era a trecento metri dal porto in linea d'aria ma era già in periferia in una città piccola come Zara. Zara ha idea com'è? E quindi non c'era quasi niente allora nella periferia, noi avevamo l'orto e tutte queste cose qua. Devo dire che durante la guerra noi siamo stati favoriti rispetto ai cittadini, a quelli della città che scappavano verso la periferia, anche quella più lontana. Noi eravamo nell'immediata periferia, aggrappati alla città. Lì cascava qualche bomba, ma poca roba, perché loro hanno bombardato soprattutto la città. Lì era pericoloso, e poi era difficile, come dire, l'approvvigionamento. L'approvvigionamento di certe cose era difficile perché avveniva attraverso la città: non so, se lei doveva comprare qualcosa in scatola o altre cose di questo genere, i negozi erano tutti a Zara o all'immediata periferia, Cereria o tutto quello che era intorno al porto. Noi avevamo le patate, l'orto e tutte queste cose qui, e naturalmente se c'era bisogno di tutto il resto si andava in città per comprare quello. Quando ci sono stati i bombardamenti, la situazione si è ribaltata, perché le cose di prima necessità le avevamo noi, in città non ce l'avevano più. Almeno dopo una prima parte, quando ancora qualcosa restava in piedi. Zara è stata una città che ha subito n tentativo di cancellazione di italianità, voluta dai nostri, dalle ambizioni di chi stava per conquistare il potere in Italia, d'accordo con le truppe di Tito. E questo è stato gravissimo, perché noi abbiam visto insieme ai Mitchell e a tutti gli altri bombardieri che han bombardato Zara, anche bombardieri italiani. Almeno, nella prima parte si erano rifiutati, poi alcuni son stati minacciati e sono venuti bombardare Zara, son venuti a bombardare i loro fratelli. Abbiamo avuto circa 2.000 morti, 900 tonnellate di bombe e 54 bombardamenti, nel raggio di un chilometro quadrato di territorio. E quindi è stata difficile per tutti, ma lì, veramente abbiam subito. Gli americani, come dire, sono stati inconsapevoli esecutori di questa mattanza, perché venivano informati sia dai nostri partigiani che dai titini diversamente da come stavano le cose. A Zara non ci sono mai stati più di tre - quattrocento tedeschi. Quando è stata conquistata trecento tedeschi, poi il massimo sono arrivati a settecento. Dobbiam fare questo discorso perché è importantissimo per capire. Si diceva che era un grande centro di smistamento, che Zara era un centro di rifornimento per le truppe tedesche. Non è vero niente! Non c'era la ferrovia, non c'erano strade praticabili per mezzi né corazzati, camion e queste cose qui. All'interno non c'era niente, quindi era difficilissimo e rischioso qualsiasi tentativo di rifornire verso l'interno. Il porto era in grado di ospitare qualche nave di piccolo tonnellaggio: le torpediniere che sono sotto le mille tonnellate e basta. Invece cosa aveva Zara che faceva paura a Tito? L'italianità di Zara: illiri prima ancora dei romani, poi i romani e poi quattrocento anni di dominazione veneziana. E questo faceva paura. Lui voleva cancellare proprio l'italianità. E a quei tempi, pur di cancellare il fascismo, c'è chi li ha aiutati. Noi siamo stati - il nostro esercito - in quel periodo i maggiori fornitori di armi, perché Tito aveva pochissimo: era male armato e male organizzato. Ma mentre le nostre truppe insieme ai tedeschi risalivano, gli han mollato - anche i tedeschi - armi e li hanno armati praticamente. Altrimenti li non sarebbero mai riusciti a entrare; si poteva almeno ritardare quella ritirata e trattare qualcosa, insomma. Forse avremmo salvato l'Istria, avremmo salvato magari Pola, non tutto, magari anche Fiume. Zara è difficile, perché è più giù, ma era quella che era considerata la più italiana delle città quella che aveva il marchio di italianità più vistoso."

2) Lei prima ha parlato delle bombe. Lei che ricordi ha di quei momenti?

R.:"Allora, io le posso dire questo, che noi eravamo così abituati ad essere bombardati, perché i 54 bombardamenti erano bombardamenti a tappeto eseguiti da quaranta bombardieri che bombardavano a tappeto una piccola zona, così, incredibile, ma lì bombardavano tutti i giorni. Tutti i giorni passavano dei ricognitori che mitragliavano e sparavano su tutto. Gli americani sparavano su tutto quello che si muoveva, se ne fregavano che fossero bambini o altro, e poi gettavano spezzoni e roba così, piccole bombette che non facevano paura neanche nei paraschegge provvisori che avevamo costruito. C'era gente che si ficcava dentro a un bidone di quelli del catrame, magari infilato in un muretto; quei muretti che in croato si chiamano muzire, muretti. Fatti di pietre, ricavate dalla bonifica dei campi, perché i campi sono un po' come il Carso, tutti piene di pietre. Raccogliendole, bonificando il campo. Lì è difficile coltivare, perché quella terra rossa, ingrata... Comunque si riusciva lo stesso, perché è gente tenace, capace veramente di raggiungere uno scopo quando si prefissa uno scopo. E quindi infilavano questi bidoni e si ficcavano lì dentro. Ma se fosse caduta una bomba di una tonnellata certamente non sarebbe rimasta neanche l'ombra di quella persona. Ecco, succedeva questo: quei bombardamenti dei ricognitori e le mitragliate, avvenivano sempre al mattino. Al mattino presto e sempre alla solita ora. Facevano le ricognizioni... E a Zara li chiamavamo le mlekaritze, che erano le lattaie che portavano il latte porta a porta. Le mlekaritze, in croato. Questo dimostra anche che non sono vere le cose che dicono che a quei tempi non c'era la possibilità di parlare croato. Perché noi in casa, mia madre si chiama [M.], mio padre [V.], lei è nata nell'isola di fronte e noi parlavamo croato e italiano. Parlavamo tranquillamente, non c'era nessun problema. Io ricordo per esempio che c'erano alcuni che avevano un'osteria e quando entravano i tedeschi alcuni facevano finta di non conoscere l'italiano e parlavano solo croato. E allora magari i tedeschi passando vicino a casa nostra chiamavano qualcuno di noi, lo prendevano per mano [e dicevano]: dai, vieni con noi, perché vogliamo capire. Ma non c'era nessun astio."

3) Quindi com'era il rapporto tra italiani e slavi?

R.:"Il rapporto era normale, si andava oltre confine dappertutto e tranquillamente, anche perché poi c'erano vincoli di parentela con gente che abitava oltre il confine. I confini erano vicinissimi."

4) Quindi uno scenario differente rispetto all'Istria, dove forse questa situazione era più amplificata...

R.:"Era una cosa completamente diversa, proprio perché diciamo che c'era un pochino... Più era vicina l'Italia e più si sentivano queste cose. Perché bisogna ricordare anche questo, bisogna vedere cosa han subito loro prima. Nulla giustifica le foibe, ma c'è qualcosa, c'era una reazione anche al comportamento precedente. Ma non del fascismo vero e proprio, ma delle persone che abitavano quelle zone, che ritenevano i croati... Perché lo si capiva dalle canzonette e da tutte quelle cose: erano dei cittadini di serie B. "

5) Di queste canzonette, ne ricorda qualcuna?

R.:"Eh! No, ricordo qualche canzone che era su arie di altre cose. Io ricordo anche al campo profughi le canzoni su Zara che dicevano che non esisterà tra noi nessun croato. C'eran queste cose qui, c'erano. Quindi il croato era considerato un cittadino di serie B. Ma questo fa parte della normalità, secondo me, nelle zone di confine. I privilegi erano tutti degli italiani, ma al mercato, per esempio, in piazza delle Erbe, al mercato, croati e italiani vendevano tutto, senza problemi. Non c'era chi sceglieva quello, chi sceglieva quell'altro, nel modo più assoluto. Quindi questa promiscuità tra quelli di lingua italiana e quelli di lingua [croata] era proprio naturale, normale. C'è stata una spinta dall'esterno poi per creare odio, tant'è vero che molti son rimasti a Zara e nessuno ha fatto loro niente. Lì diciamo che la mattanza si è fermata alla fine della guerra, cioè immediatamente dopo la guerra, ma l'anno cruciale è stato il '45, l'inizio del '45 fino alla fine della guerra. Invece più avanti a Fiume, Pola, e così lì ci sono state... A Fiume, ad esempio, ci sono molti che hanno optato per la Jugoslavia quando si è trattato di optare, e sono rimasti tranquillamente a Fiume e nessuno gli ha fatto niente, insomma. In Istria c'è stato qualcos'altro che è difficile secondo me capire, ma c'è stata sicuramente un [qualcosa]... Eppure lì l'influenza del fascismo non era così [grande]... Come dire, il fascismo era lontano dall'Istria, perché era concentrato tutto su Fiume e Zara."

6) In che senso era concentrato?

R.:"Voglio dire, l'attenzione anche sul piano culturale era concentrata tutta su queste due città. Avveniva in questo modo. E quindi è difficile spiegare questo odio. C'è da dire questo, che in Istria c'è stato un ricambio di popolazione, c'è stato un ingresso di popolazione dell'interno più facile che a Zara, dove chi ha preso il posto degli italiani che sono andati via era gente molto vicina, che aveva già vissuto con gli italiani. Io non so, le foibe nascono secondo me dal fatto che si voleva cancellarli e spesso era per una questione anche economica, e cioè portar via la terra, la casa... Perché le barche eran tutte degli italiani, un'altra cosa era sempre degli italiani. Quindi si sono appropriati di tutto, e questo non è avvenuto a Fiume e a Zara, era un'altra cosa, una cosa completamente diversa."

7) Lei mi parlava delle foibe, che però a Zara hanno avuto un'appendice differente e altrettanto tragica, basta vedere la nota vicenda dei Luxardo. Lei cosa ricorda in tal senso?

R.:"Ah, ma ce ne sono stati tantissimi: affogamenti e cose di ogni genere. Noi lo percepivamo, si. Si, lì c'era verso queste persone che erano i rappresentanti classici, cioè le persone più rappresentative degli italiani, dell'italianità, perché erano le più in vista, le più ricche ed è chiaro che venivano prese di mira loro, perché affogare Luxardo voleva subito dire prendere la fabbrica e tutto il resto, quindi impossessarsi immediatamente di tutto. Perché poi il futuro in quel momento, non era facilmente prevedibile, poteva succedere qualcosa, non erano sicurissimi che le cose si sarebbero svolte a livello mondiale come poi si sono svolte. C'era ancora un anno di guerra, tutto sarebbe potuto accadere."

8) Ecco, ma relativamente a questi episodi, c'era una sorta di sentito dire, di passa parola? Cioè a Zara voi sapevate della sorte cui andavano incontro alcune persone?

R.:"Beh, noi eravamo troppo piccoli. Noi sapevamo che a un certo momento c'era la caccia agli italiani di spicco, questo si intuiva, si sentiva parlare dai nostri genitori. Ma probabilmente in quel momento bastavano tre o quattrocento tedesco per evitare che questi episodi avvenissero."

9) Lei comunque mi diceva che ce ne sono stati parecchi di tali episodi...

R.:"Si, si, di quei 2.000 morti moltissimi son stati affogati, cioè non hanno sparso sangue ma sono morti non per colpa delle bombe, ma perché son stati gettati con una pietra al collo nel mare."

10) Lei ricorda l'ingresso dei titini nella città?

R.:"No, perché quando siam venuti via noi era il pomeriggio del 30 ottobre 1944, loro sono arrivati il giorno dopo. Ricordo questo, che mio padre diceva: domani entrano i titini, abbiamo già concordato coi titini. Perché c'era il trapasso dei poteri e lo avevano concordato, e son rimasti 70 carabinieri più qualche ufficiale dei quali non si è mica più saputo niente. Avevano concordato e avevano garantito l'incolumità di queste persone, ma non si è saputo niente. Son spariti tutti. Questo è stato grave, insomma. E' un po' quello che è successo anche in Italia, che si patteggiava di qua e di là e poi puntualmente ammazzavano, li fucilavano e li seppellivano e poi tutto finiva lì."

11) Lei che ricordi ha del giorno della partenza?

R.:"Io, guardi, ero... Siccome avevano bombardato, dopo i bombardamenti andavamo a vedere da Borik che era a due passi da casa mia. Io ero piccolo e mi sembrava un po' di più, ma attraversavamo gli orti e da Borik, che era un sobborgo di Zara, si vedeva. Borik è attaccato a Bella fusa, proprio attaccato, vicino. Attraversavamo gli orti e andavamo a vedere la città che fumava dopo i bombardamenti. Eravamo tutti i giorni sotto le bombe, praticamente, però andare a vedere queste cose qui... Lo spettacolo del bombardamento è affascinante, non è mica una cosa... Anche se è orribile, anche se è terribile, però... E quindi andavamo lì. Stavamo appunto rientrando con un mio amichetto, e quando siamo arrivati a casa, abbiam preso un sentierino per arrivare a casa nostra e abbiam visto lì sull'aia davanti che c'era della gente e mia sorella più grande [ci ha detto]: ma dove siete stati? Eh, siamo andati a vedere la città. Qui bisogna partire subito, mi ha riportato in casa per darmi una ripulita e c'eran tutti i parenti, mia madre che era già pronta con un fagotto che salutava tutti, piangevan tutti. Abbiam riempito la strada che si chiamava via Nona, la strada per Nona; Nona era Nin di adesso e adesso si chiama Put Nina e allora si chiamava via Nona. Noi eravamo abituati a giocare su quella strada che non era neanche asfaltata; magari passava un camion un paio di motociclette al giorno, ma era come stare sull'aia, dentro casa. Adesso è piena di traffico, deve vedere che roba, è piena di tedeschi, pacifici però! E siam partiti così, senza prendere niente."

12) Ecco, con voi non avete portato nulla?

R.:"Niente, niente, non ci siam portati niente, neanche le cose più indispensabili. Non abbiamo avuto il tempo, perché abbiam dovuto correre, perché era l'ultima nave in partenza dal porto di Zara - siccome poi entravano i titini - per Fiume e poi doveva riandare a Zara. E sulla nave, che per fortuna mio padre era amico di un tedesco, di un ragazzo tedesco al quale aveva fatto un favore e altro ancora e, insomma, poi erano diventati amici. E andavano anche a fare, diciamo, la ronda dopo i bombardamenti per evitare sciacallaggi e cose di questo genere ed erano diventati amici. Poi, devo dire, che a Zara sia i tedeschi che gli italiani quando non c'era più l'approvvigionamento, quando non passava più il camion e cosa, quello che c'era lasciavano prendere. Tutti quanti, c'era una sorta di comunione, insomma. Solo cercavano di fare in modo che uno non prendesse troppo e l'altro niente. Quando gente moriva sotto le bombe, molti erano scappati via, magari generi alimentari deperibili li portavano via, succedeva quello. Siam dovuti partire, poi a un certo punto mia madre si rivolse a tutti i parenti e gli ha detto: state qua adesso, a meta strada, dopo cento metri. Dice: perché ci sono i titini alle porte e non vorremmo che ci fosse qualcheduno che viene lì e spara; se sparano sparano a noi, almeno voi cercate di evitare queste cose qui. E siamo andati al porto a piedi, così, col fagottino che aveva mia madre. La nave ci aspettava dall'altra parte perché nel porto c'eran navi bombardate e si partiva da dove si poteva, dal molo che si poteva. E c'era, appunto, una torpediniera tedesca, piena di tedeschi, gli unici civili eravamo noi e questo Franz, amico di mio padre, ci ha fatto sto favore. Ci ha portato lui lì. Ricordo che Zara è questa penisoletta, da una parte c'era il porto e poi c'era la darsena e c'era un ponte che era stato abbattuto, bombardato. C'era poi un mezzo molo che andava verso il mare, dove attraccavano anche le navi e c'era il passaggio per la darsena. Bisognava prendere la barca perché siccome il ponte era stato distrutto, bisognava fare tutto il giro fino in fondo, Valdichisi si chiamava, e quindi siamo andati con la barca, che ci ha aspettato un militare italiano perché [sulla nave] c'erano anche militari italiani. Poi ho scoperto che oltre a noi civili c'era anche Serentino, il prefetto di Zara, che, per la storia, ha proseguito poi per Trieste - perché la sua destinazione era Trieste - ed è stato catturato dai partigiani e consegnato agli slavi dove nel '47 è stato poi fucilato. Queste sono le porcherie che si facevano! Fucilato a Sevenico. Sevenico o Dubrovnik, non mi ricordo, una di queste due città, comunque. E' stato fucilato; insomma, mi sembra una porcata. Dovete condannare? Va bene, tenete voi. Nel '47, eravamo già avanti, no? Dopo due anni, insomma, è stato grave. Ed era un momento nel quale tra noi e la Jugoslavia non c'era molta simpatia. Già da subito, perché è chiaro, Tito tirava l'acqua al suo mulino e noi abbiam tirato l'acqua al suo. Il Partito comunista di Trieste ha tirato l'acqua al mulino di Tito, purtroppo."

13) Pensando sempre alla sua partenza, lei ha l'idea di Zara come quella di una città che si svuotava, piano piano?

R.:"Si, perché si sentiva continuamente nei discorsi in casa è andato via quello, è andato via l'altro e c'era la nave che trasportava la gente, il Sansego, che era sempre pieno e poi è stato abbattuto, è stato affondato e quindi si è rallentato un po' il traffico. Perché eran tutte navi da guerra e quindi... Si capiva questo [svuotamento]."

14) E si vedeva, anche?

R.:"Si vedeva... Il diradarsi sempre di più, si vedeva poca gente, Zara era diventata una città come Berlino, nel suo piccolo. Morta. Una città morta, un cumulo di macerie. Alla sera poi! Quando noi siamo partiti, ci han portato nel coso per farci dormire, nel sottocoperta, e poi a un certo momento ci han dato delle cuccette, ma noi eravamo spaventati, immaginarsi! Non sapevamo né dove andare, né niente, perché mio padre non aveva detto niente di dove andare. Lui era stato destinato a Fiume e ce lo ha detto poi sulla nave, perché non voleva che si sapesse. Anche la partenza delle navi era stata segreta, le destinazioni e queste cose non si sapevano. Lì avevano fatto correre la voce che la nave portava anche dei prigionieri, prigionieri delle truppe di Tito per evitare anche che bombardassero. Però la nave era attrezzata contro qualsiasi attacco, era una torpediniera e aveva siluri e tutto. Era attrezzata per la guerra notturna e siccome era sera e avremmo viaggiato di notte... Non aveva problemi dal mare, ma da terra si e quando siam passati vicino a Pago, all'isola di Pago che è vicina a zara, han cominciato a bombardare da terra e abbiam passato il passaggio davanti a Pago che c'eran le batterie da terra che sparavano. E siam dovuti andare sul punte, col salvagente, con i tedeschi che ci tenevan le braccia pronti a buttarci in acqua nel caso [succedesse qualcosa]! Invece poi sono arrivati due Mas i scorta a questa torpediniera che già come compiti aveva compiti di scorta alle grandi nave da guerra e lei a sua volta aveva una scorta sua. E [i Mas] han buttato dei fumogeni e siam spariti e i cannoni di colpo si son zittiti. Qundi c'è stata questa partenza avventurosa. Una cosa mi ricordo, che non si parlava mai in casa, perché eravamo presi dai bombardamenti, si viveva nell'ansia. Come abbiam sentito la nave che ha acceso i motori, siamo saliti su per vedere e abbiamo visto la distruzione di Zara. L'abbiam capita da lì, perché chi aveva il coraggio di andare in città? Mio padre sapeva, ma noi no. E quindi guardando dal ponte, mamma mia! Una cosa! E poi verso sera vedevi accese delle luci, tremolanti, una qui, una lì. E chissà chi abitava in questa città. Qualcuno che ancora aveva la speranza di restare vivo. E poi ricordo anche questo, perché, insomma io non ero mai stato su una nave prima di allora, su una barca si, ma su una nave no, poi una nave da guerra! Allora, mentre passavamo lì da dove siam partiti, da dove c'era il porto, man mano che attraversavamo i vari paesi mia madre diceva ecco, lì è Pontamicca, lì facevamo il bagno quando ero ragazza, lì a Celeria scendevo con la barca per andare a vendere la verdura al mercato, e poi al paesino più avanti, Diclo, mio padre diceva vedete dove c'è quella boa? Lì c'è la segnalazione perché all'inizio dell'anno è stata affondata la nave Elettra, il panfilo di Guglielmo Marconi, che è stato affondato lì. Ha galleggiato, è stata bombardata solo da una parte e poi per nove giorni è rimasta così e poi l'hanno bombardata definitivamente e l'hanno affondata. E poi c'è stato questo intervallo all'isola di pago che è stato tremendo: ce lo siamo ricordati per sempre. Perché i tedeschi erano di un coraggio incredibile: si comportavano come se avessero sempre vissuto queste cose qui. Eran proprio guerrieri. E devo dire che in qualche modo han permesso anche a noi di superare [quei momenti], perché c'era davvero da farsela sotto! E invece loro si comportavano con sicurezza e tranquillità, come se fosse tutto normale, come a dire qua succede tutti i giorni e non ci son problemi. Poi siam scesi a Fiume."

15) Ecco, Fiume...

R.:" Siam scesi e abbiam fatto: ah, finalmente a Fiume! E invece dopo ci hanno destinato in un posto dove han messo alcune famiglie di sfollati, in via 30 ottobre. Un giorno suona la sirena e abbiam capito che anche lì c'erano i bombardamenti. Arriva un tedesco e c'era già il bombardamento in atto e noi stavamo scendendo dal primo piano per scendere in cantina, andare sotto a ripararci in qualche modo. Perchè, dove vai? [C'era] il bombardamento in atto, la sirena ha suonato tardi e il tedesco lì con il mitra ha detto: voi non stare qui durante il bombardamento e trrrrrrr [una raffica] sulla scala! Una raffica di mitra e quindi abbiam fatto una corsa folle per via Trenta ottobre dove c'era una scalinata e siamo andati nel rifugio. Siamo andati in questo rifugio e abbiamo visto di tutto: case cadere, gente che urlava, gente ferita e cosa. Chi aveva il tempo? Non potevamo fare niente per nessuno in quello stato lì: tutti bambini eravamo. Di sette, di quattro e addirittura di due anni e mia madre cercava di tenerci tutti, di salvarci in qualche modo. Invece alla fine del bombardamento, quando siamo usciti per rientrare, ci siamo un po' soffermati perché c'era le ambulanze militari che trasportavano gente, una cosa straziante! Noi che arrivavamo da Zara avevamo già visto queste cose qua: avevamo visto morti scaraventati sugli alberi, sulle ringhiere, infilzati e cose di questo genere. E tutti i giorni lì sul molo distendevano i morti, i cadaveri e la gente andava a vedere con la speranza di non trovare qualche parente. Perché non si sapeva, non c'eran contatti, ci si perdeva: quando si correva verso i paraschegge o i piccoli rifugi, uno si perdeva, perdeva contatto con tutti gli altri. Tranne noi che eravam bambini e i genitori cercavano di tenerci insieme."

16) Lei mi ha detto di essere stato a Fiume. Ma ha usato un'altra parola: ci hanno destinato a Fiume. Posso chiederle che vi aveva destinato lì?

R.:"Probabilmente mio padre prese contatto. Non c'era un comitato che organizzava, non c'era niente, è lui che ha preso contatti con questi qui, coi tedeschi, che gli avevan detto si, a Fiume possiamo sistemarvi da qualche parte. Avvenivano cos' le cose. L'esodo non era programmato, perché dall'Italia - quelli che in quel momento avevano preso in mano la situazione - avessero potuto vederci morti tutti ci avrebbero lasciato morire, tranquillamente. Noi avevamo più paura dei partigiani italiani che degli salvi in quel momento, le dico la verità."

17) E poi da Fiume verso dove ha proseguito?

R.:"Poi a Fiume quel giorno che c'è stato quel bombardamento, siamo rientrati in casa. Mia madre fa dai, faccio un po' di minestra - senza sale perché il sale non si trovava -."

18) Perché a Fiume eravate in una casa?

R.:"Si, in una casa. Noi e altri: c'eran casa abbandonate e ci dicevano andate lì, state lì."

19) Riparlando della partenza, è partita solo la vostra famiglia o anche dei parenti?

R.:"No, solo la nostra famiglia, solo noi. Anche perché noi avevamo intenzione di optare per l'Italia, gli altri se ne fregavano, dicevano beh, se arrivano gli altri pazienza. Anche perché molti dei parenti erano partigiani. Perché lì succedeva questo: mio padre era del battaglione dei lavoratori, ma lì c'erano conoscenti, ragazzi giovani, figli di figli, che eran partigiani. E i partigiani venivano a chiedere. Noi avevamo un deposito di tabacco e i partigiani venivano a chiedere tabacco, scatolame, carne in scatola e cose di questo genere. Partigiani, capito? Succedeva quello, ma perché tra parenti cosa fai, ti spari?!"

20) Senta, lei all'epoca aveva un'età tale da dover seguire le scelte della sua famiglia, ma se io le chiedessi perché [interruzione]...

R.:"So cosa vuole chiedermi. Noi siamo andati via convinti di tornare poi. Una delle ragioni per cui non abbiamo preso niente è perché noi eravam convinti un giorno di tornare, non c'era ragione, perché lì attorno ci volevan tutti bene."

21) Dunque la motivazione qual è stata secondo lei?

R.:"No, siccome mio padre era stato trasferito a Fiume perché arrivavano i partigiani, lui ha detto: voglio mica che mi ammazzino la famiglia! Poi noi avevamo un'identità italiana più di altri che abitavano intorno a noi. Ed è stato quello, soprattutto quello."

22) Da Fiume dove siete poi andati?

R.:"A Fiume siamo stati parecchi mesi, sette, otto, adesso non ricordo. Poi siccome quella casa che ci avevan dato era stata bombardata, ma non completamente, e infatti mia madre fa: vado a fare la minestra, apre la porta della cucina e non c'era più. C'era un baratro. Una bomba aveva tagliato netto tutto e aveva lasciato intatti anche gli oggetti più piccoli nelle altre camere. Non si era mosso nulla, una cosa incredibile! UN baratro, macerie! E allora il giorno dopo ci han mandato al Siluruficio di Cantrida, dove c'erano i siluri, in mezzo ai siluri e siamo stati lì per mesi. E in attesa abbiam passato l'inverno, un freddo cane! E poi anche il tipo di promiscuità che c'era e poi alla fine dopo un paio di mesi siamo diventati una famiglia, eravamo parecchi! E poi, pian pianino, gli aerei capivamo che avevano altre destinazioni, passavano molto alti. Facevano paura, ma capivamo che andavano da un'altra parte: verso Zara o verso giù, chi lo sa. Magari c'era ancora qualche sacca di resistenza degli italiani, non so. E quando abbiam capito che stavano per entrare anche a Fiume, mio padre ha detto: io resto con il mio comandante, siam sempre meno ma io resto. E mia madre gli ha detto: ma fai come fatto tutti, ti spogli, ti vesti e vieni con noi. Lì non si capiva mica niente! Se fosse stato un altro si spogliava, veniva via e poi faceva il partigiano, come han fatto 500.000 in Italia, almeno. Forse anche un milione! Han detto che eran partigiani e non era vero. Io rispetto i partigiani, partigiani però! Con un ideale, ma i parassiti che poi han detto che han fatto questo e quest'altro no. Ma tra i parassiti ci metto Dario Fo, ci metto Bobbio, ci metto Enzo Biagi che prendeva 3.000 Lire al mese dalla Repubblica Sociale. Ci metto anche questi, eh! 3.000 Lire al mese dalla Repubblica Sociale prendeva! E Dario Fo e tutta questa gente qui... Dobbiamo dircele queste cose, queste son le verità! Mentre i partigiani, quelli che han rischiato frontalmente la vita per un ideale, son rispettabili. Sia i croati che gli italiani. Io la penso in quel modo lì e l'ho sempre pensata così."

23) Mi diceva quindi che da Fiume...

R.:"Si, allora poi da Fiume mio padre ci ha fatto salire su un camion. Ha detto: avete un'ora di tempo per prepararvi. Noi non avevamo niente, in cinque minuti eravamo pronti! Solo il tempo di radunare la famiglia che eravamo tutti lì attorno a sta galleria dove c'erano i siluri, che ci avevano bombardato anche lì, ma lì era inespugnabile. D'altronde non si tengono i siluri così...eh, eh! Lui ha detto: voi salirete su un camion e andrete sulla statale, su in cima, perché a Fiume si sale. E lì deve passare un convoglio tedesco - noi non sapevamo - vi accodate. Loro sanno già. Perchè per andare a Trieste da Fiume bisognava passare in mezzo alla boscaglia, era pericolosissimo, ma mio padre diceva: non hanno in questo momento nessun interesse ad attaccarlo perché questo convoglio di tedeschi è molto numeroso e molto armato. E quindi siamo saliti su. Lì, aspetta, aspetta e non passa e allora gli uomini han fatto un piccolo conciliabolo. Eravamo pieni, c'era di tutto, c'era anche gente che tagliava la corda. E alla fine dicono: andiamo, cosa dobbiam fare, oramai abbiam deciso. E andiamo soli, di notte. C'era una paura! La paura che la facevano gli adulti, perché c'erano le donne che piangevano e qualcuno che diceva: ma se vengono fuori?! E infatti a un certo momento il camion si ferma, ma non spegne il motore: c'erano dei massi in mezzo alla strada. Gli uomini hanno messo mano alle armi - erano tutti armati, perché insomma, cosa dovevi fare?- e son scesi. E mentre scendevano sentiamo il rumore secco dei motociclisti. Erano motociclisti tedeschi, si sono fermati a cento metri e poi son venuti a piedi coi mitra a verificare cos' era. Han detto: liberiamo il coso [la strada] e quando noi passiamo tutti voi vi accodate. Noi ci siamo accodati e siamo entrati a Trieste. A un certo momento noi siamo scesi e loro hanno proseguito. Perché han proseguito? Noi lo abbiam saputo dopo. Han proseguito perché loro andavano ad arrendersi a un generale che adesso non ce l'ho presente, a Portogruaro, non agli slavi, capito? Noi però non lo sapevamo. Siamo scesi giù e abbiam detto:ah, finalmente a Trieste, la gente circola. E invece ci han portai in una scuola. Quello che non si riesce a capire è chi è che governava. Ma probabilmente questi che son venuti con noi già sapevano dove andare: andate alla scuola Candler di Trieste dove vi aspettano e vi sistemano. CI han sistemato in un posto, anche lì al primo piano, e ci han detto: per adesso state qui, poi vedremo più avanti cosa fare e dove andare. A un certo momento sentiamo urlare sotto: di qua non esce nessuno! Scendiamo e c'era un partigiano italiano con il fazzoletto rosso. Qui non esce nessuno! Aveva il mitra puntato, si è messo a urlare. Finchè non controlliamo tutti i vostri documenti. Quindi noi, italiani più di qualunque altro, questo è stato il nostro ritorno in patria. E poi a Trieste il giorno dopo noi abbiamo vissuto da prigionieri, perché ci han tenuto tre giorni senza mangiare e senza niente, abbiam bevuto acqua e ci siam riempiti la pancia di acqua! Nessuno ci ha detto niente, ci han tenuto lì, portone chiuso. E abbiam visto un po' la città invasa da tutti sti militari, tutta gente che festeggiava e cose così. Poi dopo tre giorni, sentiamo che si apre e allora siamo scesi tutti sotto. E c'era di nuovo questo partigiano che c'era la prima volta accompagnato dai titini, perché loro avevano il monopolio, dominavano. E ha cominciato: qui adesso prendiamo e controlliamo i documenti. E l'altro gli ha fatto il gesto, calma, come dire che qui adesso comando io, quindi stai calmo. Questo per dire quale era la differenza. Quelli più accaniti era i nostri, non i loro: [ i nostri dicevano] arrivano i fascisti, va beh, insomma. E questo ha preso i documenti e ha letto [Maria M.]. [M. Maria] in [V.]? Stava per dire qualcos'altro e allora lo slavo fa [M. Maria] di Sotomisciza? E mia madre, si. Va bene, chiudere tutti i documenti e andiamo via! E l'altro ci è rimasto male, perché voleva andare avanti con la sua indagine. E questo si capiva, che loro erano lontani da queste cose qui, eran questi che avevano astio contro il fascismo e queste cose qui. C'era questa voglia di vendetta, una voglia di vendetta che era soprattutto loro. Quello che è venuto dopo, col le foibe, è un altro discorso secondo me. Esula da queste cose. Questo è il nostro esodo, che è diverso. Dopo noi a Trieste siamo rimasti un po' di mesi, abbiam fatto amicizia con dei neo-zelandesi che erano lì. Eravam bambini, e andavamo a fare un po' di conoscenza con loro. E quella scuola Candler era diventata un po' la lavanderia di questa nave. Portavano la roba lì da noi, ci davano sapone, coperte, indumenti e anche soldi qualche volta, di tutto! Ci hanno aiutato tantissimo. Poi un giorno è arrivato un ufficiale neozelandese che parlava benissimo l'italiano e ha detto: qui stiamo per fare una cucina qui sotto e quindi fame non ce ne avrete più! Siamo stati lì qualche mese e poi ci hanno trasferito a Udine."

24) E a Udine?

R.:"C'era una specie di centro di reduci. In un centro reduci ci han messo a Udine. E però era una cosa provvisoria, di passaggio. Mia sorella, tra l'altro, faceva dopo un corso accelerato la crocerossina. E poi lì ci siamo incontrati con mio padre, che era rientrato dopo qualche mese, era un po' malato e si capiva subito che non stava bene. Già prima di partire da Fiume si vedeva che non stava bene. E infatti dopo qualche mese ci hanno trasferiti al centro raccolta profughi di Padova e lì abbiam cominciato ad andare a scuola."

25) Nel centro?

R.:"No, fuori."

26) E della scuola cosa ricorda?

R.:"Io per esempio...Non stavamo bene con gli altri. Avevamo vissuto gli ultimi mesi...Sa quel cameratismo che c'è quando si vive insieme e si soffre insieme, e quindi io non ho...Come dire, mi avevano messo in una classe dove di profughi c'ero solo io. Il mattino dopo - scuola elementare - sono andato in un'altra fila dove c'erano dei miei amici ed è venuta la maestra e mi ha detto: ma tu in che fila eri? Ero con quella maestra lì, ma lì non c'è nessuno dei miei. E allora ha chiamato l'altra maestra e le ha detto: questi qui han sofferto, non lasciamoli soli, mettiamoli in due o tre per classe, cerchiamo di distribuirli. E infatti hanno fatto così, mi ha lasciato nella classe che avevo scelto."

27) Da Padova poi dove è andato?

R.:"Da Padova sono andato a Mantova, dove mio padre è morto. E' morto lì e lì abbiamo avuto questo evento tragico, e poi ne abbiamo avuto un altro, perché è nata la mia sorellina più piccola. Mia madre ha partorito a quarantaquattro anni, e a quei tempi non era mica... E allora è nata sta bambina e quello ci ha un po' consolato della morte di mio padre".

28) E poi da lì siete arrivati a Torino.

R.:"Si, da Mantova a Torino. A Mantova ho sentito parlare del Grande Torino per la prima volta, quando son morti, nel '49. Caduto il Grande Torino e lì abbiamo ascoltato anche i funerali il giorno 6 [di maggio], perché il 4 sono morti e il 6 hanno fatto i funerali. Abbiamo ascoltato la radio e può immaginarsi. Cioè, c'era gente che aveva sofferto non so che cosa, eravamo ancora in un campo profughi e ci saremmo stati ancora per anni - perché abbiam fatto dodici anni di campo profughi - eppure piangevamo per il Grande Torino. Questo per dirle... Io non sapevo neanche cosa fosse il calcio, cioè giocavamo a pallone con le palle di stracci e cose così, ma non avevo mai messo piede in uno stadio, per esempio. E poi dopo io e mio fratello siamo andati in Collegio a Viadana. Un anno dopo lui è andato a Torino e io non vedevo l'ora di andare a Torino, perché avevo sentito parlare del Filadelfia e volevo vedere la città del Grande Torino e tutte queste cose qui. Ho aspettato un altro anno in collegio e poi dopo son venuto a Torino alle Casermette a San Paolo. Devo dire che a differenza di tutti gli altri campi profughi che si assomigliavano tutti per la vita che si conduceva...Perché per esempio a Mantova avevamo niente nessuno, non c'era lavoro e non c'era niente, non c'era possibilità, non c'era nessuno che lavorava. Vivevamo all'interno di questi campi, avevamo il rancio e forse eravamo favoriti rispetto ad altri che non avevano neanche il rancio sicuro, anche se può immaginare che razza di roba ci davano da mangiare! Va beh! Però c'era una grandissima unione. Mentre invece arrivando alle Casermette di Torino c'era gente che lavorava, e allora è cominciata la disparità: c'era chi oltre al piccolo sussidio che era una miseria vera e propria e non bastava neanche per comprare il pane e il latte. Veramente, si facevano dei salti mortali, poi c'era dei negozietti interni che davano le cose a debito. Si facevan debiti: pagherò, pagherò, pagherò e alla fine abbiam pagato tutti tutto, perché abbiam cominciato a lavorare tutti quanti un pochino. E devo dire che avevamo un po' paura che questa disparità tra chi cominciava ad avere delle cose lavorando - molti lavoravano alla Fiat già - e devo dire che avevamo paura che si disgregasse questo rapporto tra di loro. E invece no. Invece ne avevam viste troppe assieme, eravamo diventati proprio una vera e propria famiglia sotto tutti gli aspetti. Tra di noi c'era una totale comunione proprio. E devo dire che mia madre in quel periodo aveva questo dilemma: cosa faccio? Vado a lavorare per questi bambini qui e poi li lascio soli? Sei figli, anzi cinque, perché la sorella più grande che era un po' distante da noi, una decina di anni, ed era la più vecchia nel frattempo si era sposata. Lei ha lasciato i primi mesi il marito a Mantova - che era un poliziotto - ed è venuta per dare una mano a noi, per farci da mamma. Allora mia madre ha trovato qualcosa da fare all'interno del campo profughi, dove prendeva qualcosa, e ci è stata vicino. E poi pian pianino siam cresciuti noi: mio fratello è andato alla Fiat, ho cominciato a lavorare anche io e però non abbiamo fatto il percorso che avremmo voluto e potuto [fare] se avessimo avuto entrambi i genitori."

30) Rispetto ai campi profughi, lei riesce a descrivermi com'era la giornata?

R.:"La giornata... Ricordo che c'era qui a Torino, dove io sono arrivato nel '52 un anno dopo la mia famiglia. Nel '52 a Torino al campo profughi delle Casermette ogni tanto veniva lì un dirigente del Torino che si chiamava Forconi. Veniva a chiamarci per andare a fare una partita di allenamento coi ragazzi del Torino che avevan bisogno e che dovevano andare a Viareggio [A Viareggio ogni anno si disputa nel periodo di carnevale la Coppa Carnevale, prestigioso torneo calcistico cui partecipano i settori giovanili delle più importanti società italiane e straniere]. Allora si chiamavano i federati, non era come adesso la Primavera, si chiamavano i federati. E tra l'altro la prima volta che ci chiamò fu per inaugurare l'impianto di illuminazione nuovo del Filadelfia. E a me sembrava un sogno! Perché prima di allora io volevo a tutti i costi andare a vedere il Filadelfia. E allora sono andato con un amico e altri ragazzi che conosceva la zona perché era a Torino prima di me, e quindi siamo andati per vedere sto stadio. Era un giovedì perché giocavano anche la partitella di allenamento. Abbiamo fatto con un sasso... Dunque c'era corso Allamano, che le Casermette fanno angolo tra corso Allamano e via Guido Reni. Noi abitavamo proprio in uno di quei due padiglioni lì vicino e avevamo fatto - rompendo il mattone - una scaletta sia all'interno che all'esterno, per salire. [Questo] per non passare dal cancello principale, perché eravamo dei ragazzini e ti fermavano e ti dicevano: siete ragazzini, i vostri genitori lo sanno che uscite? E allora uscivamo di straforo così, dal muro: ci calavamo giù. Ci sono ancora adesso quei segni! Ancora adesso, son passato a vederli, e c'è ancora dopo tanti anni quella scaletta che avevamo fatto. Attraversavamo i campi, perché non c'eran case - c'è n'eran pochissime - , campi di grano dove c'è via Guido Reni e in quel punto lì erano tutti campi di grano. E allora arriviamo davanti allo stadio e dico al mio amico: bello! E il mio amico fa: no, questo non è il Filadelfia, questo è lo stadio dell'altra squadra, che è la Juventus! Siamo andati al Filadelfia che giocavano la partitella, e mi son messo in mezzo alla gente perché aprivano soltanto la gradinata centrale di fronte alla tribuna, perché dall'altra parte ci andavano i dirigenti, gli addetti ai lavori. E a me sembravo degli dei vederli giocare! E poi c'eran due ragazzi ed poi arrivato un terzo: c'era Gianmarinaro e Rimbaldo, che erano profughi, vivevano alle Casermette. E poi dopo c'è venuto anche Bodi, che giocava nel Barcanova ed è stato acquistato dal Torino. E quindi per la prima volta nella mia vita ho messo piede in uno stadio, e quello stadio era il Filadelfia. Mi è rimasto proprio nel cuore il Filadelfia. Si sentiva ancora parlare nel '52, perché era recente la tragedia, si sentiva ancora parlare: ma chi a l'è cul lì, chi a l'è, perché insomma, il Grande Torino, il confronto con questi super campioni... E quindi io mi dicevo: ma quanto saran stati bravi quelli lì se questi qui li criticano e a me sembrano già bravissimi! Ecco, queste cose qui. Poi dopo il tempo è passato, abbiamo fatto quattro anni e più lì [alle Casermette] e nel '56 ci han fatto le case e siamo andati a Lucento. Siamo andati in quelle case lì e ci siamo inseriti. No, quello che volevo dire è che questa popolazione spesso dimenticata, altre volte anche vilipesa, dopo tutte le disgrazie che ha avuto, ha saputo reggere senza compromettersi, senza andare a protestare e fare manifestazioni, senza produrre delinquenti e queste cose qui. E molto civile, come è sempre stata, si è inserita nel tessuto di Torino. Torino a quei tempi, anche se Torino ha sempre questa immagine, non è mai stata molto aperta verso chi arriva da fuori, però è una città che sa dare, con giustizia. Popolo chiuso quello torinese, almeno a quei tempi era così: c'era moltissima diffidenza verso i meridionali, immaginarsi verso di noi cosa poteva essere...Ma mai senza problemi, no, no. Tant'è vero che avevamo all'interno [del campo] tre squadre dilettantistiche, una era la Fiumana che portava il nome della Fiumana di Fiume che nel '29 aveva fatto la seria A e nel '43 aveva fatto la serie B e nel '44 la C, ma perché sono andati tutti in guerra i giocatori. Son rimasti i ragazzi, han giocato la serie C coi ragazzi e han sfiorato il ritorno in serie B. E han saputo che c'eran questi ragazzi: due erano istriani Bosi e Rimbaldo, e uno era un tunisino - uno degli italiani reduci dalla Tunisi - Gianmarinaro e quindi c'era un po' una rappresentanza di giocatori di un certo livello anche in un piccolo campo profughi, dove c'erano, non lo so, 1.500 persone. C'era molta attività. Poi, per esempio, tra le ragazze c'era la Sesto che giocava in nazionale di pallacanestro, era una delle colonne. Poi c'è stato un momento che Sesto, Paosic, Persi e Delmestre eran colonne della nazionale e son tutte profughe."

31) Lei prima ha dipinto gli esuli come un popolo vilipeso. A tale proposito ricorda degli episodi di intolleranza e discriminazione?

R.:"Si. Per esempio quando andavamo a giocare con la Fiumana che ci gridavano fascisti, nei paesi. Almeno, ai primi tempi era così: fascisti! Noi non abbiamo mai reagito, non abbiamo mai fatto niente. Però poi dopo le cose si sono aggiustate, appianate".

32) E se le chiedessi di dirmi come siete stati accolti a Torino...

R.:"Ma, non c'è stata una grandissima attenzione verso di noi. Abbiam dovuto tirarci su le maniche. Anche in quel quartiere dove ci han messo, le case erano fatte senza riscaldamento, avevamo le stufe a legna o a carbone, lo spaker. Devo dire che... Per esempio anche per andare a lavorare c'era una legge che obbligava i datori di lavoro, come per i reduci di guerra, di dare lavoro a una percentuale di profughi, perché noi eravamo italiani, avevamo perso tutto. E poi quando ci veniva a chiamare il prete per andare a lavorare, Don Macario, c'erano sia politici che altre persone... Insomma facevano credere che era un favore che ci facevano loro personalmente perché si erano interessati, invece lucravano su questa cosa qui. Ma noi non eravamo informati dei nostri diritti, eravamo troppo scossi dalla guerra. Non eravamo neanche curiosi di andare a vedere, perché non eravamo polemici. Come dire... Perché la prima generazione accetta tutto, poi magari la seconda generazione fa valere i propri diritti, in genere. Noi eravamo la prima generazione e quindi accettavamo qualsiasi cosa pur di andare avanti".

33) Lei mi parlava del calcio. Non voglio qui ripercorrere la sua lunga carriera, altrimenti penso non basterebbero dieci interviste. Vorrei però sapere cosa rappresentava per i ragazzi istriani il calcio in quel periodo, qual era il significato, andava oltre il singolo atto sportivo?

R.:"Si,si. Non era un modo per farsi largo nella vita, a quei tempi. Chi poi ci è riuscito per la grande passione che aveva, ma non c'era in nessuno l'idea di guadagnare cifre. Non era questo il sogno. Era un modo per stare insieme, un modo per passare il tempo, per soddisfare una pura passione sportiva, non uno scopo per farsi largo nella vita, sicuramente. Perché non c'era una grande fiducia nel futuro. Anche se poi abbiamo avuto tenacia e costanza per portare avanti le cose al meglio, sempre. Io, ad esempio, non ho mai pensato di fare il professionista. E' venuta dopo questa cosa qui".

34) Come passavate voi ragazzi il tempo libero?

R.:"Ma, dentro c'era un cinema, si stava molto assieme ai vari livelli di età. E poi si andava a scuola, una giornata normale. Ci si alzava al mattino e si andava a scuola. Perché soltanto prima di andare a Padova si faceva niente tutto il giorno, ma dopo Padova quando si iniziava ad andare scuola...Insomma, gli adulti andavano alla ricerca di un lavoro, anche solo cercare di fare qualcosa così per tirare avanti. Era difficile per tutti, anche per la gente del posto, quindi ancora di più per noi. Dopo, ad esempio qui a Torino, c'era la scuola, molti andavano a lavorare e cominciavano a preparare il futuro. Cioè pensare...Sapevamo che stavano costruendo queste case e dicevamo: ci porteranno in queste case e inizieremo la nostra vita. Si programmava il futuro."

35) Mi ha detto che c'era un cinema. E a ballare?

R.:"Si, c'era un cinema. E a ballare prendevano tutti il pullman: si andava in piazza Sabotino, ogni tanto si andava in birreria alla San Paolo, tutti assieme. Mi ricordo che c'era il direttore della birreria che si era molto affezionato [a noi]: andavamo in tanti, ci faceva degli sconti, perché pur essendo in tanti non si facevan danni e non si faceva baccano. Poi c'eran delle attività culturali: per esempio c'era un coro di istriani che si chiamava il Coro Picon e che, insomma, aveva un'attività fiorente. Si, si, loro passavano moltissime ore a provare, a fare, e andavano in giro a cantare."

36) Quindi avevate un contatto anche con il quartiere, con il borgo San Paolo...

R.:"Si, si. Cioè come si è cominciato a lavorare, allora è cominciata l'integrazione. Devo dire poi che quando si è arrivati alle case qui, lo stare insieme e il bisogno di stare insieme tra di noi è rimasto, non si è persa questa cosa qui. Perché? Perché si parla il dialetto... Il nostro dialetto, che però si è un po' imbastardito, perché tra Zara e Fiume c'è la differenza di dialetto, tra Fiume e l'Istria un'altra. Già da un paese all'altro si parlavano dialetti diversi, ma l'istriano rispetto allo zaratino... Lo zaratino assomiglia molto al veneziano, invece il fiumano al triestino. Poi trovandosi insieme nei campi profughi, tutti insieme, si è imbastardito: abbiamo fatto una sorta di miscuglio di questi tre dialetti e adesso non sappiamo più quando parliamo in dialetto che dialetto parliamo. Un dialetto profugo!"

37) Le chiedo solo più questo. Lei torna a Zara? E se si, cosa prova quando torna? Nostalgia, rimpianto, commozione...

R:"Si. Allora, io poi giocando a pallone..."

38) Ma mi scusi, perché lei ha giocato a pallone come professionista?

R.:"Si, si. "

39) Non lo sapevo, pensavo avesse solo allenato. Ma ha giocato nel Toro?

R.:"No, nel Toro no. Però poi attraverso il Torino... Perché questo. Perché quando sono andato militare, sono andato a Trieste e a Trieste c'era un maggiore, il maggiore F., ad Opicina dove ero io, che era un dirigente della Triestina. Nelle rappresentative militari mi aveva visto giocare e mi ha detto: senti, adesso organizziamo una partita con la Triestina, un'amichevole e poi vediamo se vai bene. Sono andato bene e mi ha preso la Triestina, si, si. Ho fatto la De Martino [Sodalizio calcistico di Trieste, fucina di talenti (tra i tanti ricordo Giorgio Ferrini, triestino e bandiera del Torino negli anni Sessanta) e società satellite della Triestina.] e poi mi avevan chiesto di fermarmi. Ma io avevo problemi, la famiglia aveva grossi problemi perché nel frattempo anche mio fratello si era sposato, avevo una famiglia da tirare avanti, mia madre, mia sorella i fratelli più giovani. Anche se lavoravamo, però, insomma avevamo problemi e non potevo spostarmi. E poi lavorando in fabbrica... Io ho lavorato prima alla Michelin, al dopolavoro Michelin in corso Umbria, e lì ho lavorato parecchi anni. Poi lì tra l'altro giocavo nel Michelin, nel Michelin Sport Club in corso Grosseto. Lì avevamo tutti giocatori anziani e l'unico ragazzo ero io, però molti son diventati poi dirigenti della Michelin. Chi sosteneva questa squadra era l'ingegner Borel, che era un appassionato, una bravissima persona. Mi aveva preso a ben volere e poi dovevano assumermi, ma io avevo ancora qualche speranza di far qualcosa col calcio. Questo prima di andare militare. E allora chiesi se potevano dare il mio posto a mio fratello. Il quale lavorava alla Fiat ma voleva andare a tutti i costi alla Michelin - e infatti poi ci è andato - perché si lavorava molto di più. Non dico il doppio ma quasi. Poi dopo io son tornato da militare e mi son detto: qua adesso la fiammella si sta spegnendo, cosa faccio? E invece cosa succede? Che arriva Nereo Rocco al Torino e Nereo Rocco si porta dietro l'allenatore Marino Bergamasco che era l'allora allenatore della Triestina, della prima squadra. Perché io giocavo nella De Martino, ma mi allenavo sempre con la prima squadra, perché essendo militare quando avevano bisogno di fare le partitelle mi chiamavano sempre. Scendevo con il trenino da Opicina e andavo lì: mi davano un piccolo rimborso più dei buoni per andare a mangiare al ristorante Alle viole, mi ricordo ancora. E poi io non avevo mai il tempo, perché io facevo il radiotelegrafista a quei tempi a militare, e quindi avevo ventiquattro ore di servizio e quarantotto ore libere. Abbastanza tempo libero ma nelle ventiquattro ore ero impegnatissimo. E allora cosa facevo con questi buoni? Quando ne avevo un mucchietto portavo tutti i miei commilitoni al ristorante Alle viole, e un giorno il proprietario mi ha detto: ma non portare tutti sti militari, qui mangiano i giocatori della Triestina! E' arrivato Rocco e allora sono andato a parlare con Bergamasco. Chiamiamo il paron [Soprannome dell'allenatore triestino Nereo Rocco.] - che Rocco era fatto così - e Bergamasco gli dice: paron, guarda che i' è s'è questo qua, s'è un profugo, cosa facemo? E lui: che si allena con noi una settimana no, poi vedremo! In queste cose qui Rocco era formidabile! Io recavo il turno di notte quella settimana, lì alla Ceat e ho detto: cosa vado a fare io, la squadre era buona, il Torino aveva una squadra buona con i Ferrini e giocatori del genere. Ho detto: porca miseria! Sono andato, piuttosto muoio ma non voglio stare a casa dal lavoro. E allora cosa facevo? Andavo a casa ad allenarmi, anche al mattino qualche volta. Dopo essere arrivato a casa alle sei, dormivo due ore e poi andavo giù, e andavo lì. Poi dopo, alla sera, prima di andare a lavorare in fabbrica, passavo dal bar, dopo aver cenato, a prendere un caffè e trovavo qualcuno che diceva: ma sai che sono andato a vedere l'allenamento del Torino e c'è uno che ti assomiglia tutto! Io non lo avevo detto a nessuno. E dopo una settimana Nereo Rocco chiamò Bergamasco... Perché io giocavo con suo figlio, col figlio di Rocco, lì alla De Martino, Bruno Rocco. Io giocavo con suo figlio. E allora poi mi ha trovato una squadra a L'Aquila, in serie C, in C1. E son andato a L'Aquila e son stato lì, poi da L'Aquila sono andato a Campobasso, poi sono andato a Fano, ho girato un po' insomma."

40) Dicevamo del suo ritorno a Zara...

R::"Ah si. Ecco, quando son tornato io ho fatto fatica a tornare. Perché poi son finito al Torino dopo parecchie vicissitudini: ho allenato la Pro Vercelli qui in Piemonte, l'Ivrea per cinque anni - non consecutivi ma in momenti diversi - l'Asti, il Casale che l'ho portato in C il Casale. La Junior Casale. Dai dilettanti siamo andati in C. Cioè giocavamo col Ciriè e dopo due anni giocavamo con l'Udinese, la Triestina e tutte ste squadre qui, insomma. E dopo tutte queste cose qui Giacinto Ellena, capo degli osservatori e grande personaggio del Torino, mi propose di andare al Toro. E a me non sembrava vero, perché cosa mi sono detto: giocare al mio livello come sono io, non è che sono un gran giocatore, cosa guadagno? Quando smetto sono nella cacca più di prima. E allora, mi sono detto, questa è una grande occasione: quella di fare l'allenatore, e al Torino anche! E allora son venuto al Torino. Io avevo già vinto campionati con la Junior Casale. Son venuto al Torino e ho cominciato a guadagnare come gli allenatori delle giovanili che c'erano lì, molto meno insomma. Ho dovuto ricominciare da capo, risalire la china e piano piano mi sono imposto, perché ho cominciato a vincere subito al primo anno la Beretti e poi pian pianino mi han dato la Primavera e, insomma, tutto il resto si sa. Io questo volevo dire: ero considerato un allenatore non duro, ma uno che faceva lavorare molto, moltissimo. Ma non ho mai detto ai ragazzi: ai miei tempi, se voi sapeste. Di queste cose qui non ho mai detto niente. Perché era un altro mondo, e noi abbiam sempre l'idea quando diventiamo adulti che ai ragazzi di oggi servano le stesse cose che servivano a me una volta, ma invece no, non può essere così. Quindi ho evitato queste cose qui, però le mie radici, la mie vicissitudini, l'esodo e i miei dodici anni di campo profughi e tutto questo mi sono serviti molto. Perché non è stato facile non essere famoso come giocatore e imporsi a livello nazionale. Con il Torino. Non è facile! Poi ho fatto anche sei anni da responsabile di tutte le nazionali giovanili, quindi non è una cosa facile, è difficile. Perché la decima parte di quello che ho fatto io sarebbe bastata a un giocatore famoso per prendere una prima squadra. Io poi son stato forse il solo allenatore che ha ricevuto decine di offerte in serie A e in serie B ad averle rifiutate. C'era Ormezzano che diceva una volta sul Tuttosport, quando scriveva sul Tuttosport, che diceva: in Italia ci sono due persone che non aspirano ad allenare inserie A, io e [Sergio V.]!"