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Cansa, rione Porta Milano, Casale Monferrato

La prima famiglia di profughi giuliani giunge a Casale Monferrato il 21 febbraio del 1947: si tratta di una giovane coppia costituita da una casalinga e da un operaio elettricista impiegato presso la Fabbrica Cementi Marchino di Pola. A darne notizia sono le pagine del quotidiano locale «Il Popolo Monferrino», unica fonte, tra quelle consultate, capace di fornire elementi utili a ricostruire le vicende dei giuliano-dalmati nel comune monferrino. E sarà proprio l’Unione Cementi Marchino, storico marchio casalese nato nel 1933 e diventato in breve tempo “il secondo gruppo italiano del settore” [G. Subbrero, 1995], a ricoprire un ruolo determinante nell’arrivo dei profughi giuliano-dalmati a Casale. Infatti a Pola l’Unione Cementi Marchino possiede uno stabilimento in piena attività e offre ai lavoratori decisi a lasciare l’Istria la possibilità di essere riassorbiti, una volta giunti in Italia, negli opifici di proprietà dell’azienda tra i quali vi è, appunto, anche quello di Casale Monferrato, dove quindi la gran parte dei profughi è costituita da operai che “lavoravano nello stabilimento Marchino di Pola e che continueranno a lavorare presso la ditta Marchino nella nostra città” [«Il Popolo Monferrino, 1947»].

Il 4 marzo del 1947, a bordo di un treno proveniente da Milano, arriva a Casale uno scaglione composto da venti profughi giuliani: si tratta, come si legge sulle pagine de «Il Popolo Monferrino», di “donne, bimbi e vecchi, componenti di dodici famiglie operaie” destinate ad essere presto raggiunte dai capifamiglia, “ancora occupati presso gli Stabilimenti Marchino di Pola, ma pronti ad essere assunti dall’Unione Cementi Marchino di Casale” [«Il Popolo Monferrino, 1947»].

Ad accogliere i giuliano-dalmati alla stazione vi sono, oltre al sindaco Angelino, anche alcuni rappresentanti del Comitato Italiano Femminile (C.I.F.) dell’Unione Donne Italiane (U.D.I.) e della Pontifica Commissione di Assistenza (P.C.A.), enti che si occuperanno anche delle operazioni di sistemazione e di prima assistenza da destinare ai nuovi arrivati.

Inizialmente i profughi trovano una sistemazione provvisoria in alcuni locali della Casa di Riposo, considerati dall’amministrazione comunale, dalle forze politiche locali, dall’Unione dei commercianti, dalla Camera del lavoro, dall’U.D.I., dal C.I.F. e dalla P.C.A., riunitisi in assemblea il 10 febbraio 1947, il luogo idoneo ad “ospitare questi nostri fratelli italiani che arriveranno in città” [«Il Popolo Monferrino, 1947»]. Si tratta, molto presumibilmente, di una fase transitoria visto che le testimonianze rivelano come, successivamente, i giuliano-dalmati siano poi trasferiti nei capannoni di un ex deposito dell’aeronautica militare, oggi abbattuto, ubicato nel rione di Porta Milano sulla direttrice stradale per Valenza e meglio conosciuto dai casalesi come Cansa. Le autorità casalesi si preoccupano anche di provvedere ai più elementari bisogni dei profughi: a tale scopo la direzione de «Il Popolo Monferrino» istituisce una sottoscrizione alla quale è invitata a partecipare l’intera cittadinanza, chiamata con donazioni di indumenti, alimenti o con offerte in denaro “a lenire i bisogni di questi nostri fratelli” [«Il Popolo Monferrino, 1947»], supportando in tale senso l’attività del locale Ente Comunale di Assistenza, l’organo al quale sono affidate le principali pratiche di carattere assistenziale destinate ai giuliano-dalmati. Infine occorre sottolineare come si muova in favore dei profughi anche il mondo dell’industria, dal momento che la sezione locale della Confederazione dell’Industria invita i propri associati a “voler svolgere opera di assunzione presso le aziende di operai specializzati provenienti dalla provincia di Pola” [«Il Popolo Monferrino, 1947»].

Testimonianze

Un po’ [di assistenza ce la dava] la pontificia [Pontifica Commissione di Assistenza, PCA], ma non ... [Leggi tutto]
Un po’ [di assistenza ce la dava] la pontificia [Pontifica Commissione di Assistenza, PCA], ma non molto: l’han data per un po’, poi quando abbiamo cominciato a lavorare hanno smesso. Penso che sia stato il pacco di pasta, di riso... Guardi, siccome noi tre ragazze eravamo già a lavorare in casa d’altri, non è che abbiamo proprio seguito con gli occhi la cosa.
Romana B.
Qui a Ozano l’Eternit aveva un cementificio, mentre invece a Casale c’era ... [Leggi tutto]
Qui a Ozano l’Eternit aveva un cementificio, mentre invece a Casale c’era l’amianto.
Claudio D.
Il papà il lavoro ce l’aveva, in fabbrica, e qui c’era la fabbrica dell’Eternit dello stesso ramo ... [Leggi tutto]
Il papà il lavoro ce l’aveva, in fabbrica, e qui c’era la fabbrica dell’Eternit dello stesso ramo [di quelle del mio paese], però arrivando qua c’è stata difficoltà. [Mio papà è stato assunto] dopo cinque mesi ed è stata dura, ma molto dura [per i miei genitori]. Perché a volte non sapevano cosa mangiare: costava 300 Lire al chilo il pane e papà per la liquidazione di ventitre anni di lavoro, la liquidazione dello stabilimento là, aveva preso 18.000 Lire, e noi siamo venuti via con quello. Ed eravamo in sette. Ed è stata dura perché noi proprio... Per me è un merito, gli altri la pensino come vogliono: la dignità di non voler chiedere la carità, [di non voler chiedere] niente a nessuno. Mia mamma e mio papà si son trovati a dividere un frutto in quattro, tra le due [figlie piccole] e loro; se avanzava qualcosa dal refettorio delle bimbe che andavano a scuola, la bidella aveva il cuore di dargliela, ma se non avanzava non c’era.
Romana B.
Dallo stabilimento Marchino di Pola li han fatti venire qui, e da quello che so io mi sembra che ... [Leggi tutto]
Dallo stabilimento Marchino di Pola li han fatti venire qui, e da quello che so io mi sembra che gli abbiano anche pagato il viaggio per portargli la mobilia e tutta la roba. Non so se a tutti, ma a molti gliel’hanno fatto i Marchino.
Giulio R.
Mio padre prima è andato come apprendista in una tipografia a Dignano che era di suo cugino, poi ... [Leggi tutto]
Mio padre prima è andato come apprendista in una tipografia a Dignano che era di suo cugino, poi dopo un po’ di anni è finito alla fabbrica cementi Marchino di Pola e lì faceva il magazziniere addetto alla spuntatura, al controllo e alla movimentazione [merci]. La Marchino a coloro che optavano per l’Italia nel momento in cui c’è stato il diritto di opzione, prometteva un posto di lavoro in uno dei suoi stabilimenti in giro per l’Italia, per cui di fatto lui è stato mandato a Casale perché c’era la fabbrica.
Claudio D.
[Mio padre] è arrivato a Casale a gennaio del ’47 e noi siam venuti poi via a febbraio. Lui era ... [Leggi tutto]
[Mio padre] è arrivato a Casale a gennaio del ’47 e noi siam venuti poi via a febbraio. Lui era stato messo [inizialmente] in una casa di riposo, un centro raccolta per sfollati, e quando siamo arrivati anche noi siamo andati in questo centro raccolta profughi individuato qui a Casale per i profughi istriani. [Poi] avevano assegnato a queste famiglie di profughi una ex caserma dell’aeronautica che era un magazzino dell’aeronautica che aveva tre grandi costruzioni, due lunghe come magazzino e una palazzina: lì sono transitate una venticinquina di famiglie, non tutte istriane. C’erano degli sfollati dal Friuli, c’era qualche sfollato di questa zona, due o tre famiglie, e il resto erano istriani e dalmati. Direi che in tutto saranno passate diciotto, diciannove famiglie, poco meno di venti. E alcune sono solo passate per transito, si son fermate poco, perché dopo qualche mese sono andate chi in America e chi in Australia. Son partite diverse famiglie per il Canada, alcune per l’America del sud e di questi abbiamo perso le tracce. E queste famiglie non sono state rimpiazzate, perché dopo la grande ondata, la prima, poi l’ultima c’è stata nel ’53, quando sono arrivate forse una famiglia o due. Questo magazzino dell’aeronautica si chiamava CANSA, che erano le iniziali di non so quali parole. E CANSA a Casale era diventato sinonimo di profughi. Per cui ancora adesso se ai vecchi casalesi dici io abitavo alla CANSA, loro sanno che cos’era, era al bivio per Valenza. A fianco della CANSA c’era un istituto religioso, l’Opera di Santa Teresa, che era stata fondata intorno agli anni Trenta da un ordine di suore laiche che non hanno una particolare professione di fede. Questo centro si occupava in pratica dell’assistenza alle giovani operaie della Manifattura Seta che c’era qui a Casale e che impiegava migliaia di persone, una roba impressionante. E questo istituto religioso era nato appunto per prendersi un po’ cura della salute spirituale di queste ragazze, per cui chi veniva dai paesi poteva dormire lì. Era una specie di convitto. E lì queste suore avevano fatto una scuola materna e subito dopo la guerra avevano messo una scuola elementare. Per cui di fatto io sono andato lì alla scuola materna, e poi ho fatto la prima, la seconda e la terza elementare alla pluriclasse di quella scuola. In una stanza piccolissima c’erano tre classi, prima, seconda e terza: perciò uscivo da casa ed andavo a scuola. Invece la quarta e la quinta le ho fatte a Casale, per cui facevamo più di un chilometro e mezzo e poi arrivavamo in centro a scuola.
Claudio D.
C’era solo il problema che [a Catania] faceva caldo, un caldo da bestia. Eravamo abituati al clima ... [Leggi tutto]
C’era solo il problema che [a Catania] faceva caldo, un caldo da bestia. Eravamo abituati al clima del nord, avevamo gli anticorpi diversi e difatti io mi sono ammalato, le mie sorelle si son ammalate, sennò la gente era molto accogliente, ci trattavano bene. E così, un po’ a malincuore ci siam tolti dal campo profughi. Un po’ di miei parenti all’epoca facevano i contadini, c’era mio nonno che faceva il contadino e dicevano che in Piemonte cercavano la gente per lavorare in campagna e allora è venuto prima lui, mio nonno. E poi dopo ci ha fatti venire anche a noi e siamo venuti qui a Casale. Però non subito alla Cansa, perché quando siamo venuti in Piemonte siamo andati subito in paese e abbiamo affittato una casa. Poi però si è liberata una stanza lì alla Cansa e siamo andati lì. [Della Cansa] io ricordo pochissimo, niente quasi. Perché noi arriviamo a Casale nel’53, però non siamo andati subito alla Cansa. Penso che alla Cansa siamo andati nel ’54-’55, più o meno. La Cansa era una casa grossa, non brutta, che aveva degli scalini che andavano su e poi c’era diversi appartamentini, cioè stanze. Io penso che era una roba per uffici, perché erano proprio stanze, e abitavamo in una stanza. Stavamo in una stanza, mentre i servizi erano tutti in comune. Ma non era una caserma, non era una caserma. Adesso non c’è più, l’hanno buttata giù. [Ricordo anche] che lì non era come le caserme che avevi la coperta, ognuno aveva la stanza. Era per la strada per andare a Valenza, appena uscito da Casale, che vicino c’è il cimitero degli ebrei. Il cimitero degli ebrei era sulla sinistra, e la Cansa era sulla destra. E poi c’era un asilo che mi sembra che adesso l’asilo, cioè la casa [l’edificio] c’è ancora, però non so se è adibito ancora ad asilo, forse si. Era l’asilo della popolazione del rione, di Porta Milano.
Giulio R.
La palazzina [della CANSA] era un classico edificio militare, tipico del littorio, con scaloni, ... [Leggi tutto]
La palazzina [della CANSA] era un classico edificio militare, tipico del littorio, con scaloni, soffitti alti, spazi giganteschi. Lì ognuno si attrezzava come poteva: c’era un solo bagno in comune nel piano, per cui era quasi come essere in una casa di ringhiera con il bagno in comune. Al primo piano dove abitavo io eravamo ad esempio tre famiglie. Prima eravamo divisi con le classiche coperte di divisione, e poi ci siamo “raffinati” mettendo delle paravie con un cartone che si chiama masonite e che non so neanche se esiste ancora e che facendo dei telai diventava una specie di muro. Però erano divisioni blande, fatte da noi. Il riscaldamento non c’era, se non lo spaker in cucina, perché non c’era altro per scaldarsi. E quindi è chiaro che tu dovevi in qualche modo aggiustarti. Ricordo ad esempio che chi lavorava nell’edilizia tirava su dei muri con dei mattoni recuperati, muri che poi sono stati fatti nel corso degli anni, proprio perché era gente che si industriava. Pensa che ognuno si era preso un pezzo di orto, e si coltivava l’orto, e con un sistema ingegnosissimo di canaletti, si prendeva l’acqua da un grande canale di irrigazione di proprietà di un consorzio irriguo, come se fosse un prelievo abusivo - ma io penso lo fosse - e con questo sistema di canaletti, tutti gli orti avevano la loro irrigazione, tranquilla. Poi c’era chi aveva il maiale, i polli, addirittura un asino abbiamo visto lì dentro, tacchini. Ci costruivamo i garage per le prime macchine anche. Prima ho parlato dello spaker, e lo spaker era la nostra cucina. Noi cucinavamo sullo spaker, per moltissimi anni abbiamo continuato, fino a quando è arrivata questa magnificenza tecnologica che era il fornello a gas con la bombola. Diciamo che noi a metà degli anni Cinquanta siamo passati al fornello a gas, ma prima era tutto cucinato su questa stufa a legna con il forno. Di altre cose tipiche della nostra cucina a Casale io ricordo la giasera, che era un’altra cosa curiosa, e ricordo che andavo io a comprare il ghiaccio qui alla fabbrica di ghiaccio a Casale, andavo in bicicletta. La fabbrica era dietro al carcere e noi eravamo a un chilometro e mezzo dalla fabbrica e la domenica andavo a comperare un quarto di panetto di ghiaccio, venti lire.
Claudio D.
Noi siamo partiti da Gorizia il 3 marzo del 1947. Io facevo quel giorno diciotto anni. Io vado ... [Leggi tutto]
Noi siamo partiti da Gorizia il 3 marzo del 1947. Io facevo quel giorno diciotto anni. Io vado prima a Ozano e poi a Casale Monferrato. Che Ozano è un paese a otto chilometri da Casale. Siamo arrivati a Ozano il 5 marzo del 1947, e c’era un po’ di neve. E poi da lì ci siamo spostati quasi immediatamente a Casale, perché papà ha incominciato a lavorare, e quindi siamo andati a finire nei cameroni [della Cansa] che erano prima degli aviatori.
Romana B.
[Per la nostra assistenza] noi avevamo l’ECA e questo istituto religioso [Opera di Santa Teresa]. ... [Leggi tutto]
[Per la nostra assistenza] noi avevamo l’ECA e questo istituto religioso [Opera di Santa Teresa]. Poi ricordo che il cibo arrivava dagli aiuti americani, i pacchi UNRRA. Ma delle scatole grosse così di formaggio fuso, che aveva un colore giallastro che a pensarci adesso... C’era questo formaggio, riso, pasta. Pacchi soprattutto di aiuti americani, che mi ricordo coperte e maglioni, tutti dello stesso colore: o erano maglioni marroni scuro con due righe bianche orizzontali, o bianchi con due righe orizzontali marroni; questo era il maglione classico, tradizionale che avevamo tutti. L’ECA da noi c’era, però eravamo noi ad andare all’ECA a prendere gli aiuti. [Poi] si facevano le gite. Ci portavano al santuario di Crea, a Oropa, oppure andavamo in gita con questo istituto religioso, che la direttrice organizzava gite, a vedere sempre i santuari: tutti i santi e le madonne del Piemonte, della Liguria e della Lombardia li abbiam visti! Però era un modo molto importante per socializzare. Poi ricordo che l’ECA faceva le feste e ci davano dei pacchi dono, una volta all’anno, all’epifania e dentro c’era un po’ di dolciumi e qualche giocattolo, più il solito riso e pasta, lo zucchero e queste cose qua che erano sempre gradite.
Claudio D.
[Ai profughi a Casale] hanno assegnato degli alloggi popolari in base a un punteggio. Per cui ... [Leggi tutto]
[Ai profughi a Casale] hanno assegnato degli alloggi popolari in base a un punteggio. Per cui quando ci hanno dato le case popolari, circa vent’anni dopo, nel 1967, praticamente siamo rimasti tutti sparpagliati, non si è creato un quartiere come in altri posti.
Claudio D.
[Ricordo] un fatto spiacevole [successo] a mia sorella: lei andava a scuola, e la maestra l’ha ... [Leggi tutto]
[Ricordo] un fatto spiacevole [successo] a mia sorella: lei andava a scuola, e la maestra l’ha accusata che aveva i pidocchi, e invece non era vero, non aveva nessun pidocchio. Qualche d’un altro ce l’aveva, però la colpa gliel’ha data a lei: era profuga, ultima arrivata e la colpa l’ha data a lei. Mia madre allora è andata là e si è fatta le sue ragioni: non l’avesse mai fatto! Se l’è appuntata e allora quando mia madre è andata a prendere la pagella, la maestra le ha detto: per sua figlia la pagella non c’è. E perché non c’è la pagella? Perché per me l’anno non l’ha superato. Ma come, io vedo i quaderni che fa e va benino. Anzi, va bene! E niente, non c’è stato niente da fare e l’ha bocciata. Anzi, non le ha dato neanche la pagella, le ha fatto proprio una grave discriminazione. Poi dopo a mia mamma le han detto: valla a denunciare, ti ha fatto una grave discriminazione. Solo che mio papà faceva lavori saltuari e avrebbe dovuto andare da un avvocato, poi stava già trattando per andare [a lavorare] in Provincia e se avevi robe penali in corso rischiavi di saltare il posto, e così i miei han detto: dal momento che qui non ci vedono di buon occhio è meglio [andare via]. E così mio papà si è trovato il lavoro in Alessandria e siamo andati in Alessandria.
Giulio R.
[All’inizio l’inserimento] era difficilissimo perché c’era questa cosa del fascismo. C’era questa ... [Leggi tutto]
[All’inizio l’inserimento] era difficilissimo perché c’era questa cosa del fascismo. C’era questa cosa del fascismo, che l’istriano era fascista. Era uno stereotipo ma a dire il vero non era neanche tanto lontano dalla realtà, nel senso che chi è venuto qua aveva dei trascorsi che erano questi. Solo che anche qui erano prima tutti fascisti o quasi... Però di fatto c’era questa situazione. L’inizio è stato difficile. Mi diceva mia madre, per esempio, che nei negozi tanti parlavano dialetto, non parlavano italiano. Che questo fosse dovuto a una scelta per non aiutare gli istriani, o al fatto che qui moltissimi l’italiano non lo conoscessero non lo so, però ricordo che questo è stato vissuto come un atteggiamento di rifiuto e di allontanamento per prendere le distanze.
Claudio D.
I miei mica dicevano che eran profughi! Dicevano che erano del Veneto, perché la parlata veneta è ... [Leggi tutto]
I miei mica dicevano che eran profughi! Dicevano che erano del Veneto, perché la parlata veneta è uguale, no? Non dicevi che eri di là, perché se dicevi che eri profugo te ne facevano di tutti i colori. Son poi venuti anche i miei zii, e si prendevano sempre a botte, non dico tutti i giorni, ma erano sempre patele coi casalesi! Ti conto un episodio: mia nonna aveva affittato una casa, e mio zio si era comprato una 600, la prima macchina che aveva. E lui l’aveva messa davanti a casa sua. Un giorno arriva un condomino e gli fa: te qui la macchina non la puoi mettere! E perché ? L’ho messa davanti a casa mia! Qui la possono mettere solo i proprietari. Ma se io pago l’affitto... Ma era una scusa per attaccar briga, no? Appena finito quello lì gli ha mollato un pugno. Mio zio era un ex pugile e gliene ha mollate tante! Gliene ha date tante gliene date! E poi bom, finisce lì. Dopo un po’ di tempo mio zio è andato al bar e quello lì non l’ha aspettato con altri cinque o sei? Mio zio [allora] si è messo contro il muro e li ha disfatti tutti cinque o sei, li ha stesi tutti! Poi da solo non usciva più, usciva sempre con l’altro mio zio, anche lui ex pugile... Perciò era tutta una guerra continua: se sapevi che eri istriano ti attaccavano briga perché sei andato via dai compagni. A Casale c’erano molti comunisti, e allora vedevano l’istriano e per loro istriano era uguale fascista. La loro mentalità era questa qui, ma ancora adesso eh! Non è cambiata tanto qui Casale.
Giulio R.
[L’Opera Santa Teresa] ha fatto un po’ da collante: in questo istituto c’era infatti una direttrice ... [Leggi tutto]
[L’Opera Santa Teresa] ha fatto un po’ da collante: in questo istituto c’era infatti una direttrice che era una donna che guardava lontano, e che con il tempo è riuscita a mettere insieme queste famiglie e a farle accettare dal contesto che gli stava intorno, facendo appunto la scuola materna che mettesse a contatto i genitori, e queste cose qui han fatto si che gli istriani non si sentissero isolati e messi in un angolo. Li ha anche messi nel coro, che aveva quindi questi uomini che cantavano con voci tonanti, noi facevamo i chierichetti e quindi l’inserimento e la successiva integrazione è avvenuta un po’ sul lavoro, e un po’ proprio grazie a occasioni come questa. L’altra grande occasione era il fatto che gli uomini istriani, proprio per poter stare insieme, hanno messo mano a questo centro dell’aeronautica che tra l’altro mi dicevano che appena erano arrivati era bombardato, c’erano macerie dappertutto, e l’hanno trasformato in un giardino, ma bello! Hanno fatto le stradine, hanno fatto una pista da ballo con l’illuminazione e lì alla sera con il giradischi si ballava, io tra l’altro ero l’incaricato di azionare la manovella al giradischi a 78 giri, han fatto un campo da bocce. E alla sera venivano da Casale a giocare alle bocce, perché c’erano questi fari che illuminavano, e altri campi in giro non ce n’erano per cui venivano lì, erano gli stessi casalesi che sono venuti in questa CANSA. In più il comune aveva fatto lì alla CANSA una colonia estiva, per cui venivano i ragazzini da Casale in questa zona e lì ricordo che combinavamo qualunque tipo di cosa, cose inenarrabili! C’erano le bande e mi ricordo che c’era la tortura per il prigioniero della banda avversaria che veniva preso eh! Poi c’è da aggiungere che i casalesi la sera venivano da noi anche grazie al fatto che le ragazze istriane erano delle belle ragazze. Per cui c’erano i mosconi che gli ronzavano intorno, che giravano. Ricordo che una famiglia aveva addirittura cinque sorelle, tutte in età da marito, belle ragazze.
Claudio D.
[Siamo stati accolti] non bene, ma neanche proprio male, male. Nel senso che: mi scusi, dov’è ... [Leggi tutto]
[Siamo stati accolti] non bene, ma neanche proprio male, male. Nel senso che: mi scusi, dov’è quella via? Mi sai n’en... E la via era scritta sopra la loro testa! Tanto per dire... Perché sapevano che non eravamo casalesi. Oppure salutare una persona che avevamo conosciuto e non rispondere, oppure sentirsi dire questi ci vengono a portare via il lavoro e noi non abbiamo lavoro, perché anche quelli non erano tempi tanto per la quale. Ma non più di tanto: [infatti] anche noi che siamo andati in casa d’altri a lavorare abbiamo rispettato e loro ci hanno rispettato.
Romana B.
[A integrarsi] Non c’è stata difficoltà, no, neanche per le mie sorelle. Perché io mi son sposata ... [Leggi tutto]
[A integrarsi] Non c’è stata difficoltà, no, neanche per le mie sorelle. Perché io mi son sposata presto, a diciannove anni e quindi ero proprio giovane, ma neanche le mie sorelle [hanno avuto difficoltà], tanto è vero che Cristina e Luciana penso abbiano imparato il dialetto locale, mentre anche io capirlo senz’altro, ma parlarlo no. Io ho imparato da mio marito un’unica frase che dico in dialetto: ah, el pi brau dei rus l’ha campà so par’n tal pus! E mi prendeva in giro e gli dicevo: guarda che i capelli li avevo rossi prima... Ma era un modo per prenderci in giro.
Romana B.
Mio padre era un tecnico, quindi per il lavoro non ha mai avuto problemi. Anche in Sicilia dove ... [Leggi tutto]
Mio padre era un tecnico, quindi per il lavoro non ha mai avuto problemi. Anche in Sicilia dove c’era carenza di lavoro che i disoccupati erano tutti immigrati qui al nord, lui lavoro l’ha avuto subito, l’ha trovato anche perché aveva una qualifica, non era un manovale. Ma anche qui èa Casale] , sapendo fare un lavoro abbastanza tecnico non ha mai avuto problemi, anzi era ricercato. Prima di andare a lavorare in Provincia, già ad Alessandria è andato in un mobilificio e faceva i mobili, tanto che il proprietario non lo voleva mandare via, perché c’erano pochi artigiani in grado di fare certi lavori. Parlando degli esempi dei miei zii, anche loro non hanno faticato a trovare lavoro, che loro erano giovani. Posso dire che a uno di questi miei zii gli avevano chiesto se voleva andare a lavorare lì all’Eternit, perché aveva lavorato anche lui alla Fabbrica Cementi a Pola, però non aveva lavorato tanto. Siccome però era rimasto disoccupato all’Ufficio di collocamento gli avevano chiesto se voleva andare, e lui era andato. Una volta andato lì, nella fabbrica della morte, ha visto la situazione e ha detto che era una roba neanche da credere: ha visto com’era la fabbrica a Pola e [in confronto] a questa qui [era come] dal giorno alla notte. C’erano aspiratori vecchissimi, non aspiravano, c’era l’ambiente malsano e allora dopo quindici o venti giorni è andato dai sindacati a dirgli che non si poteva lavorare in quelle condizioni. E sai i sindacati cosa gli han detto: ah, sta polvere fa passare il raffreddore! Questa polvere non fa niente. E poi, dopo aver visto che i sindacati non facevano niente, è andato dal capo e gli ha detto: mettetemi in un altro posto, perché io in quest’ambiente qui non ci sto. [E lui gli ha detto]: ti t’ses ‘n lazarun, t’las nen veuia ‘d travaià! Va a ca’ tua! E l’hanno licenziato in quattro e quattr’otto, ma è stata la sua fortuna! Lui però se n’era accorto che era un ambiente malsano. Poi è andato a fare il trattorista e bom.
Giulio R.
Mio padre era magazziniere alla Marchino una fabbrica cementi, a pochi chilometri da Casale, a ... [Leggi tutto]
Mio padre era magazziniere alla Marchino una fabbrica cementi, a pochi chilometri da Casale, a Morano Po. Era una fabbrica cementi a ciclo completo ed era una delle più grandi realtà produttive della Unione Cementi Marchino, che poi è diventata Unicum del gruppo Fiat e adesso è Unicum Buzzi, del gruppo Buzzi che è il secondo gruppo cementifero italiano. La mamma era operaia: per moltissimi anni ha lavorato in campagna come bracciante e poi è andata come operaia qui all’Eternit di Casale da cui ha ricavato una malattia che adesso la sta abbastanza provando. Dopo l’Eternit ha fatto esperienze nel settore del freddo come stagionale e come colf nelle case di alcune famiglie casalesi e poi ultimamente era operaia e delegata sindacale della Cisl in una fabbrichetta di materie plastiche. [Tornando a mio padre], voglio dire [che lui] ha aderito quasi subito al partito socialdemocratico di Saragat. Lui era aderente alla Fil, Federazione Italiana del lavoro, che era la corrente dei social democratici che si è staccata dalla CGIL nel ’48 e che poi è confluita nella Cisl nel 1950 proprio come FIL. Lui è stato uno dei fondatori della Cisl e questo dice anche in fabbrica come siano andate le cose, rispetto a una fabbrica in cui la maggioranza era CGIL e ad un paese, Morano Po, che era un paese rosso, rimasto ad amministrazione di sinistra fino a circa dieci anni fa. Ma sinistra vuol dire maggioranze bulgare con la maggioranza del PCI, quindi proprio un feudo rosso! Per cui, e lui lo diceva, i primi anni sono stati anni duri anche da quel punto di vista lì. Su questo non ha raccontato molto, m mi ricordo che alcuni scioperi, soprattutto quelli del ’48 e di Togliatti, lui non li ha fatti, proprio perché lui era di un’altra tendenza e questo qui per lui è stato abbastanza pesante, anche perché la Cisl in quella fabbrica lì era minoritaria, di gran lunga. Diciamo anche un’alta cosa che insieme ad elementi filo padronali, fascisti, eccetera, c’era anche in mio padre una forte componente cattolica e nel ’48 lo scontro era ad arma bianca, e poi credo che gli istriani, parlo come lavoratori nelle fabbriche, siano stati usati in chiave anticomunista da parte padronale. E non solo nelle grandi fabbriche, ma anche per esempio alla Marchino. E il fatto che Marchino dicesse agli istriani: se rientrate in Italia vi do un posto di lavoro nei miei stabilimenti, aveva anche quell’aspetto lì, sicuramente. E se non c’era subito all’inizio perché magari la cosa non era subito così visibile, sicuramente lo è diventato dopo, per cui anche se non c’era stato un disegno così raffinato, alla fine in chiave anticomunista e in chiave anti Cgil, e questa cosa vista la mia esperienza sindacale la posso sostenere, l’hanno sicuramente usata. Questo è pacifico.
Claudio D.
[La Cansa] erano tre parti: due basse e una più grossa. E una, la nostra, era proprio dormitorio, ... [Leggi tutto]
[La Cansa] erano tre parti: due basse e una più grossa. E una, la nostra, era proprio dormitorio, invece [le altre] erano più uffici. [C’] erano quei grandi cameroni che erano stati per i soldati che dormivano in quei cameroni, quindi erano state fatte le divisioni, ma i soffitti erano talmente alti... C’era la cucina divisa, casualmente, perché non tutti l’avevano divisa: noi si perché eravamo [in una stanza] nell’angolo. E poi anche la camera era divisa da quella di mamma e papà, e noi sorelle. Era divisa sempre da legno, da una tramezza di compensato o qualcosa del genere: adesso non ricordo bene, ma non erano coperte, era legno o qualcosa del genere. E c’erano i gabinetti comuni, ma puliti, perché i gabinetti erano puliti: ce n’erano cinque o sei, ma per le famiglie che c’erano non c’erano problemi. [Le stanze erano divise] e non era male, perché mi ricordo che mi piacevano i pavimenti rossi, di piastrelle, quello di ingresso, ed era abbastanza facile da tenere in ordine. Però faceva freddo, eh! Faceva freddo e non c’era il riscaldamento. [Usavamo] il tamburnin [tipo di stufa] lo chiamavano qui. E anche quando mi son sposata avevo quello. E poi mio padre andando a lavorare nello stabilimento [dell’Eternit] ha fatto la domanda per l’INA Case e siamo finiti [nel quartiere] Oltre ponte nell’INA Case nel ’53.
Romana B.

Immagini

Profughe giuliano-dalmata alla Cansa di Casale Monferrato
Profughe giuliano-dalmata alla Cansa di Casale Monferrato
Fabbricato magazzini della Cansa di Casale Monferrato
Fabbricato magazzini della Cansa di Casale Monferrato
Giovane profugo giuliano davanti alla Cansa di Casale Monferrato
Giovane profugo giuliano davanti alla Cansa di Casale Monferrato
Profughi giuliano-dalmati durante una processione per le vie di Casale Monferrato
Profughi giuliano-dalmati durante una processione per le vie di Casale Monferrato
Interno di un'abitazione alla Cansa di Casale Monferrato
Interno di un'abitazione alla Cansa di Casale Monferrato
Profuga giuliana-dalmata alla Cansa di Casale Monferrato
Profuga giuliana-dalmata alla Cansa di Casale Monferrato

Giornali

Articolo di giornale Per i profughi di Pola, «Il popolo monferrino», 14 febbraio 1947 [Leggi l'articolo completo]
Articolo di giornale La prima famiglia di profughi a Casale, «Il popolo monferrino», 28 febbraio 1947 [Leggi l'articolo completo]
Articolo di giornale Per gli operai provenienti da Pola, «Il popolo monferrino», 28 febbraio 1947 [Leggi l'articolo completo]
Articolo di giornale Per i profughi di Pola, «Il popolo monferrino», 7 marzo 1947 [Leggi l'articolo completo]
Articolo di giornale L'arrivo dei profughi di Pola, «Il popolo monferrino», 14 marzo 1947 [Leggi l'articolo completo]

Riferimenti sitografici

 G. Subbrero, Da una guerra all’altra. Modernizzazione e crisi nell’economia della provincia di Alessandria, Isral, Alessandria, 1995, applicazione multimediale, www.isral.it

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