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Altre profuganze. Profughi dalla Libia e dall’Africa orientale Agg

Quelli provenienti dalle ex colonie italiane d'Africa sono i primi profughi ad arrivare in Italia: un flusso che, iniziato nel 1940 subito dopo lo scoppio della guerra e la contemporanea avanzata dell'esercito alleato, assume proporzioni sempre più rilevanti nel 1943 quando, ancor prima dell'8 settembre, un nutrito gruppo di civili viene rimpatriato dall'Etiopia a bordo delle navi della Croce Rossa che sbarcano sulle banchine dei porti di Genova, Livorno e Napoli, circa 28.000 persone (uomini, donne e bambini) provenienti dai campi di raccolta inglesi dell'Africa Orientale Italiana ed accolte al loro arrivo in Italia «da un bagno di patriottismo, con alla testa lo stesso sovrano». [G. Esposito, 1998]. Alla fine degli anni Quaranta saranno circa 206.000 i profughi rimpatriati dall'Africa, una cifra consistente che comprende sia i territori dell'Africa Orientale, dove risiedono gli italiani giunti nelle colonie di Eritrea e Somalia alla fine dell'Ottocento e quelli arrivati dopo la conquista dell'Etiopia, sia quelli dell'Africa Settentrionale dove tra il 1933 e il 1940 si registra un forte flusso migratorio che porta in Libia un cospicuo numero di italiani. L'illusoria prospettiva del facile benessere, abilmente propagandata dall'apparato comunicativo del regime attraverso un linguaggio trionfalista e spettacolare, capace di unire le immagini patinate delle bellezze al bagno sulle spiagge libiche a quelle del mastodontico piano di popolamento rurale intrapreso da Italo Balbo, carismatico governatore della Libia, abbaglia soprattutto gli italiani del sud, i contadini e i braccianti delle zone depresse della pianura padana che, pur di sfuggire alla fame e alla miseria, inseparabili compagne di vita quotidiana, decidono di intraprendere l'affascinante avventura in questa terra che, incontaminata e fertile, attende soltanto braccia in grado di farla fruttare. A bordo di potenti motonavi, carichi di sogni e speranze, sono almeno 20.000 i coloni sbarcati in Libia nel 1938 seguiti da altri 11.000 l'anno successivo. Ad accoglierli sui moli dei porti di Tripoli e di Bengasi c'è Italo Balbo, fasciato da una divisa bianca, immortalato dalle cineprese del regime il cui compito è quello di mostrare (e confermare) agli occhi dell'opinione pubblica italiana le magnifiche sorti dell'impero. Alla vigilia della guerra vi sono 23.919 coloni in Tripolitania e 15.014 in Cirenaica che andranno ad ingrossare le fila dei 93.721 profughi giunti in Italia dalla Libia, alcuni dei quali ancor prima della fine della guerra. Pur non andando a fondo nel discorso, occorre in questo senso ricordare anche i circa 13.000 bambini figli di coloni libici che, nell'imminenza del conflitto, sono imbarcati sulle navi della marina militare italiana e rimpatriati in Italia dove, ospitati nelle colonie della GIL, vivono una vera e propria odissea restando separati dalle proprie famiglie, con le quali comunicano soltanto attraverso messaggi radio, che possono riabbracciare i loro figli soltanto dopo lunghi anni di lontananza. Al flusso di profughi libici, che rappresentano la componente più consistente tra gli italiani rimpatriati dai territori dell'Africa, si uniscono anche quelli provenienti dall'Etiopia, dall'Eritrea e dalla Somalia il cui numero, secondo i dati su cui la storiografia può attualmente riflettere, ammonta, rispettivamente, a 54.878, 45.142 e 12.124 unità [A. Del Boca, 1991].

Un flusso che interessa da vicino anche alcune località del Piemonte, toccate dall'arrivo di profughi italiani rimpatriati dall'Africa. Le carte conservate negli archivi regionali, pur non consentendo una panoramica dettagliata sull'intera scala piemontese, permettono comunque di analizzare alcune singole realtà territoriali, facendo registrare la presenza di questa tipologia di profughi. A Torino le carte del fondo dell'Ente Comunale di Assistenza, evidenziano come le prime presenze di profughi dai territori dell'Africa Orientale (definiti dai documenti con il termine di «rimpatriati») risalgano al 1941. Infatti, secondo una nota compilata dal direttore dell'ECA il 2 novembre 1941, in città sono presenti «1.105 famiglie di rimpatriati, per un totale di 2.968 persone.» Tra esse sono «235 quelle provenienti dall'Africa Orientale» [ASCT, Fondo ECA]. La stessa tipologia di documento consente di risalire alle presenze dei periodi precedenti che ammontano a 81 alla data del 1 luglio 1941 (su un totale di 866 famiglie, e cioè 2.483 persone), a 85 alla data del 1 agosto 1941 (su un totale di 921 famiglie, e cioè 2.585 persone), a 103 alla data del 1 settembre 1941 (su un totale di 964 famiglie, e cioè 2.663 persone) e a 136 alla data del 1 ottobre 1941 (su un totale di 1.015 famiglie e cioè 2.773 persone) [ASCR, Fondo ECA]. Per loro, come si legge nel rendiconto compilato dal direttore dell'ECA relativamente alle spese assistenziali sostenute «in favore degli sfollati dall'Africa Orientale», l'Ente Comunale di Assistenza cittadino spende la somma di «25.540 lire per gli effetti lettericci e lire 57,15 per gli indumenti» [ASCT, Fondo ECA]. Tra i profughi dell'Africa Orientale arrivati in città, appare consistente la presenza di quelli provenienti dai territori libici. Infatti nel novembre 1941 l'Ente Comunale di Assistenza redige un elenco dei «profughi libici presenti in città»: si tratta -come si legge nel documento -di 65 nuclei familiari, ovvero di 133 persone. Tra esse 81 sono originarie di Tripoli, 48 di Bendasi, 2 di Derna e 2 di Barce [ASCT, Fondo ECA]. Un'altra fonte da utilizzare per censire la presenza in città di profughi provenienti dall'Africa Orientale è rappresentata dagli Annuari Statistici, la cui lettura evidenzia come nel 1943 risiedano a Torino 349 profughi dall'Africa: 235 provengono dall'Africa Orientale, 114 dalla Libia (17 da Bengasi, 1 da Derna, 3 da Misurata e 93 da Tripoli). La stessa fonte, che presenta alcune lacune per il periodo bellico, rileva nuovamente la loro presenza tra la popolazione torinese a partire dai primi anni del dopoguerra: 204 (107 dall'Africa Orientale e 97 dalla Libia) nel 1947, 382 (154 dalla Libia e 228 dall'Africa Orientale) nel 1948 e 771 (204 dalla Libia e 567 dall'Africa Orientale) nel 1949, l'ultimo anno nel quale la fonte li censisce come «cittadini italiani provenienti dalla Libia e dall'Africa Orientale», per poi accorparli, a partire dal 1950, nella categoria, decisamente più generica, dei «cittadini provenienti dall'estero» [Città di Torino, 1943- 1950]. Un quadro più preciso è però tracciato, limitatamente al 1955, dalla documentazione dell'Ente Comunale di Assistenza che assiste tra le Casermette di Borgo San Paolo, le Casermette di Altessano e i vari alloggiamenti sparsi per il territorio cittadino, 298 nuclei familiari, per un totale complessivo di 827 persone. Di queste, come si legge in un promemoria redatto dal direttore dell'ECA in data 27 aprile 1955, «227 provengono dall'Africa Orientale Italiana» [ASCT, Fondo ECA], per i quali però il documento in questione non riporta alcuna informazione circa la loro distribuzione sul territorio cittadino.

La cospicua documentazione conservata presso l'Archivio di Stato di Vercelli, consente di allargare il campo d'indagine, spostando lo sguardo dal contesto torinese a quello della provincia di Vercelli. Infatti i dati presenti in alcune relazioni, periodicamente inviate dalla prefettura vercellese al locale ufficio di assistenza post-bellica al fine di valutare il numero dei profughi assistiti, evidenziano, fin dal 1948, la presenza di 148 profughi provenienti dall'Africa italiana (non è però indicata, nel dettaglio, la loro zona di arrivo). Un numero salito a 194 unità nel 1949 e a 197 nel 1951, ultimo anno al quale le carte fanno riferimento [ASVc, Fondo Ufficio Provinciale di Assistenza Post Bellica].

Appena arrivati in Italia i profughi rimpatriati dall'Africa vengono inseriti nelle maglie della rete di emergenza predisposta dal governo italiano per far fronte alla loro assistenza: per 101.236 di essi, poco meno della metà, si aprono così le porte dei centri di raccolta profughi. Anche di quelli del Piemonte. A supporto delle molte testimonianze raccolte che individuano in maniera netta la presenza nei centri di raccolta di profughi provenienti dall'Africa, interviene anche la documentazione archivistica relativa ai campi profughi piemontesi che consente di quantificare in maniera piuttosto dettagliata il loro numero in almeno due dei tre centri della regione. I già citati Annuari Statistici della Città di Torino, certificano nel centro di raccolta cittadino delle Casermette di Borgo San Paolo la presenza di profughi provenienti dall'Africa in un arco di tempo compreso tra il 1947 e il 1956: 42 nel 1947 (una nota del direttore parla infatti, esplicitamente, di «33 profughi provenienti dalla Libia e 9 dall'Africa Orientale Italiana, per una totale di 8 nuclei familiari» [ASCT, Fondo ECA]), 109 nel 1949 e nel 1950, 69 nel 1951, 51 nel 1952, 52 nel 1953, 65 nel 1954, 27 nel 1955 e nessuno nel 1956, anno che segna il trasferimento delle famiglie nel villaggio di Santa Caterina a Lucento. E' però necessario evidenziare come i dati rendano pressoché impossibile uno scorporamento circa la loro provenienza anche perché, salvo in rari casi (nel 1947, ad esempio, e ancora nel 1954, quando una nota del direttore inviata alla presidenza dell'ECA fa esplicitamente riferimento a «65 profughi dall'Africa» [ASCT, Fondo ECA]), essi sono identificati nella documentazione come «profughi provenienti dalle ex colonie italiane» [Città di Torino, 1947- 1950], una denominazione comprendente quasi sicuramente anche i profughi provenienti dai possedimenti italiani nell'Egeo. Più precise sono invece le carte conservate all'Archivio di Stato di Novara che restituiscono una fotografia più dettagliata della situazione nel campo novarese della Caserma Ettore Perrone dove, secondo le statistiche quindicinali inviate dal direttore al Ministero dell'Interno, risiedono nel 1947 47 profughi provenienti dall'Africa Italiana (4 dall'Eritrea e 43 dalla Libia), diventati 50 (47 dalla Libia e 3 dall'Eritrea) nel 1949 e 27 nel 1953 (23 dalla Libia e 4 dall'Eritrea). Le fonti consultate non restituiscono invece dati quantitativi relativi alla Caserma Passalacqua di Tortona, dove però quelli provenienti dalla Libia sono «tra i primi profughi a varcare le soglie dell'ex caserma tortonese» [A. Anetra, 1996], diventata dal 1946 uno dei più imponenti centri di raccolta dell'intero panorama nazionale.

Testimonianze

Arrivo in Italia

Partiamo da Derna e attracchiamo a Bari. Di Bari non mi ricordo niente, però; ho letto delle ... [Leggi tutto]
Partiamo da Derna e attracchiamo a Bari. Di Bari non mi ricordo niente, però; ho letto delle testimonianze di gente che era più grande di me che entrando nel porto di Bari siamo andati a finire in mezzo alle mine, perché avevano già minato il porto di Bari. E dovevamo essere sempre tutti pronti con il salvagente, perché non si sapeva mai [cosa potesse succedere]. Magari le mine [potevano] scoppiare...Per fortuna non è successo niente e all'indomani sono intervenuti i rimorchiatori che hanno tirato via la nave, che si chiamava Marco Polo ed era una nave ospedale. Ci hanno tirato fuori dal porto e poi siamo sbarcati e col treno siamo poi andati fino a Rimini. Ci hanno messo su un treno, subito, abbiamo viaggiato la notte, e siamo arrivati a Rimini il 9 di giugno 1940. Il giorno dopo tutti a sentire la radio...E lascio immaginare le scene, specialmente dei più piccoli...Perché anche i più piccoli si sono subito resi conto che era difficile che noi saremmo rientrati in Libia, perché gli inglesi erano i padroni: avevano la flotta più potente del mondo e loro la guerra l'han vinta con la flotta.
Ernesto S.

Arrivo in Libia: il viaggio

Il terreno che era stato assegnato al nostro podere era di trenta ettari, e di qui in poi fummo ... [Leggi tutto]
Il terreno che era stato assegnato al nostro podere era di trenta ettari, e di qui in poi fummo assistiti abbastanza da chi era [preposto]. C'era un'ottima organizzazione, e c'era bisogno di una guida su come comportarsi e anche di un aiuto morale, anche sotto una specie di conforto. Addirittura organizzavano dei divertimenti: passavano coi pullman, ci caricavano e ci portavano al centro del villaggio, dove veniva proiettato un film, oppure dove [c'era] il ballo. Insomma, ci fu una buona assistenza per i mezzi di allora, non si può; rinnegare questo: come organizzazione c'era un'organizzazione che dire soddisfacente era forse anche dire poco. Questo è quello che abbiamo trovato. Dopo di che da qui in poi, siamo stati assistiti, tutte le famiglie. Assistite e guidate su quello che bisognava fare per rendere questo terreno coltivabile. [...] L'organizzazione si chiamava Ente per la Colonizzazione della Libia. Aveva la sua organizzazione con tutte persone molto qualificate e molto preparate in agricoltura. Per cui loro erano quelli che ci facevano arrivare le piante. E [per] ogni pianta che veniva piantata, era stato studiato il punto dove doveva essere messa. Sempre filari, diritti, precisi, sia in direzione che per traverso. [...] E poi trovammo l'attrezzatura: palo, picco, zappe, aratro. Quindi ci diedero una cavalla, molto giovane, la Nina: io ricordo ancora il nome di quella cavalla che ci avevano dato. Il raccolto veniva immagazzinato dall'Ente. E questo perché gli adulti erano stipendiati - erano pagati - e la paga che veniva data non era un granché. Però; la famiglia andava avanti. [Diciamo che] c'era tutto. C'era una chiesa, ma era lontana da noi circa undici chilometri, ma veniva un francescano nelle varie zone a dire messa, tutte le domeniche. Quindi, anche sotto questo aspetto, c'era l'assistenza umana e questo lo devo riconoscere.
Nicola G.
[La mia famiglia] è partita dal porto di Genova la sera del 28 ottobre [1938] , tanto per ricordare ... [Leggi tutto]
[La mia famiglia] è partita dal porto di Genova la sera del 28 ottobre [1938] , tanto per ricordare una data famosa e cioè la marcia su Roma, e dopo sei giorni circa sono sbarcati a Tripoli. A Tripoli c'è stato poi il discorso di Balbo con l'inaugurazione della statua equestre di Mussolini, per cui le famiglie che dovevano essere destinate alla Tripolitania sono scese dalle navi e avviate ai rispettivi villaggi, mentre quelli, come la mia famiglia, destinati in Cirenaica, si sono reimbarcate e sono scese a Bengasi. A Bengasi poi son state ospitate in un centro che raccoglieva queste famiglie a Barce e poi con un camion son stati ravviati ai vari villaggi e alle case che loro erano state assegnate. Erano poderi molto vasti, di trenta ettari ciascuno, e non tutta la terra era stata avvalorata, diciamo. Sarebbe stata avvalorata maggiormente in seguito se l'esperimento della colonizzazione fosse andato avanti. Invece poi la guerra e altre vicissitudini lo hanno bloccato lì.
Ernesto S.
Arrivammo di notte...[Ricordo] che [appena arrivammo] rimanemmo impauriti, perché ci rendemmo conto ... [Leggi tutto]
Arrivammo di notte...[Ricordo] che [appena arrivammo] rimanemmo impauriti, perché ci rendemmo conto che la terra non era un terreno normale, era sabbia, era tutta sabbia! La casa era molto bella: c'era una grande cucina di circa sei metri per sei, tre camere da letto belle grandi, il forno a legna, fuori, e poi staccato di circa venti metri, c'era una stalla, dove c'era la possibilità di poter mettere la mangiatoia di un cavallo che era più alta di quella dei buoi e almeno quattro bovini. C'era questo spazio, più o meno. Poi c'era un magazzino. [...] Sul retro di questa casa c'era un porcile, un pollaio e il gabinetto con accanto il pozzo. Non il pozzo pendente, ma una vasca dove sarebbero finiti i liquami per poi raccoglierli e poterli utilizzare in agricoltura. Quindi, questo per descrivere che cosa abbiamo trovato. Cosa c'era in casa? Intanto la luce accesa, perché in ogni casa c'era un qualcuno messo da chi organizzava queste cose, e ci fecero trovare la luce accesa. A petrolio, naturalmente. E in casa trovammo [anche] un sacco di farina, non so quanti chili di zucchero, poi olio di oliva...Insomma, fummo accolti bene e quello che si trovava in casa era un'abbondanza, una grazia di dio, si diceva allora. E quindi [eravamo] contenti di questi, ma di quello che c'era [all']esterno, di fuori, mio dio! Quando fece giorno, i miei fratelli che erano più grandi rimasero esterrefatti: era un deserto, non c'era nulla! Non c'era un albero, niente. Solo cespugli spinosi e nient'altro.
Nicola G.

Arrivo in Libia: la vita

[Appena arrivati in Libia le nostra aspettative non sono state disattes], no, no. In principio no. ... [Leggi tutto]
[Appena arrivati in Libia le nostra aspettative non sono state disattes], no, no. In principio no. Perché i coloni erano assistiti dall'Ente per la colonizzazione della Libia, che aveva i suoi agronomi, il suo capo zona, il suo capo del villaggio che dava le disposizioni di come doveva essere trattata la terra, di cosa si doveva seminare eccetera. Venivano aiutati nella sussistenza da questo ente per i primi periodi. Solo che [sono arrivati alla] fine del '38, poi il '39 e poi nel '40 è scoppiata la guerra...[Quindi] non hanno avuto neanche il tempo di radicarsi un momento che poi han dovuto fare fagotto nel '42. Quelli della Cirenaica, specialmente la mia famiglia. Ogni villaggio aveva la sua scuola, poi c'era il prete, l'ostetrica, il medico. Ogni villaggio aveva i suoi supporti logistici. Era tutto organizzato, c'era un'assistenza e quelli dell'Ente della colonizzazione ti assistevano anche nei lavori, dicevano come doveva essere impiantato il podere, quali prodotti si voleva ottenere, anche secondo le zone. Che poi molto dipendeva anche dall'acqua: per esempio in certi villaggi c'era l'acqua, perché avevano trovato dei pozzi e hanno distribuito l'acqua, [mentre] dove c'era la mia famiglia l'acqua non c'era. Però; nel '40 il fascismo ha progettato e stava costruendo un acquedotto che avrebbe dovuto prendere l'acqua sopra Derna - una delle due città della Cirenaica - dove c'era una fonte. E quando l'acquedotto sarebbe stato costruito, avrebbe fornito l'acqua a tutti questi villaggi. Nel frattempo, dove mancava, la portavano con delle botti. E la cosa particolare di questo è che uno di quelli che aveva avuto l'appalto per trasportare l'acqua, era niente meno che colui che aveva assassinato Matteotti. Dumini, Ambrogio Dumini, che aveva avuto anni prima, nel '36, una concessione in Cirenaica, poi gliel'han tolta nel '39, [ma] c'è questa particolarità.
Ernesto S.

Bambini via dalla Libia: il viaggio

Ricordo che mentre sbarcavamo, c'era il bollettino col discorso di Mussolini - mentre noi stavamo ... [Leggi tutto]
Ricordo che mentre sbarcavamo, c'era il bollettino col discorso di Mussolini - mentre noi stavamo sbarcando a Napoli - che veniva dichiarata [guerra]. C'era la dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Noi non capivamo, ma avevano incominciato a inculcarci dentro la patria, gli altri erano i nemici, i sopraffattori. Cosa ne capivamo noi di queste cose? Nulla, ne capivamo nulla. Per cui fummo poi sparpagliati in tutta Italia: io e le mie sorelle finimmo a Fiesso Umbardiano, in provincia di Rovigo. Ed era una colonia stupenda, ci fecero divertire, fecero di tutto per farci dimenticare la nostalgia della famiglia, [con la quale] si, certo, ci si scriveva. La corrispondenza viaggiava: ci impiegava otto giorni prima che arrivassero le lettere, ma le mie sorelle scrivevano anche per me, perché io avevo appena cominciato la scuola. Lì ci fecero divertire in tutti i modi.
Nicola G.
Sono partito con una sorella. Guardi, l'unica cosa che mi ricordo della Libia è quando sono ... [Leggi tutto]
Sono partito con una sorella. Guardi, l'unica cosa che mi ricordo della Libia è quando sono partito. Sono arrivati i camion, e prima di caricarci un mio cugino - che anche lui veniva con noi - mi ha detto: vieni qua che almeno ti insegno ad allacciarti le scarpe! Mi ha insegnato ad allacciarmi le scarpe, ho questo ricordo qui. E poi, siamo partiti. Ricordo quando ci hanno caricati sul camion militare [...], e poi ricordo quando ci siamo imbarcati. Ci hanno imbarcati, ma bisogna tenere presente questa questione, [e cioè] che il porto di Derna, da dove siamo partiti, non aveva l'attracco vicino alla terra perchè non c'era il ripescaggio delle acque e le navi dovevano stare un po'allargo. E allora ci caricavano a bordo della barche, le cosiddette maone, che servivano al trasporto delle merci [...]. Poi quando mi hanno caricato sulla nave mi ricordo molto bene - perché mi era rimasto impresso [facendo] la scalinata che portava sulla nave - guardando giù [in basso] la profondità del mare, quel colore verde e azzurro che mi era rimasto proprio impresso e che io non avevo mai visto. Del viaggio non mi ricordo proprio niente, e poi sono andato a finire in una colonia che era Miramare di Rimini.
Ernesto S.
Noi non sapevamo quanto si restava. Si pensava [di tornare], invece la cosa è andata alla lunga. ... [Leggi tutto]
Noi non sapevamo quanto si restava. Si pensava [di tornare], invece la cosa è andata alla lunga. Poi noi siamo stati fortunati, perché mia madre e mia sorella son venute da Tripoli: c’erano gli aerei tedeschi che portavano la roba di là, ed erano vuoti, e allora caricavano la gente e la portavano in Italia. E [così] mia madre e mia sorella sono venute in Italia. Altrimenti gli altri sono venuti nel ’75, quando li hanno buttati fuori tutti. Perciò quei ragazzi lì, sono andati militari, sono morti, si son sposati, hanno fatto la loro vita e i genitori non c’erano. In principio [coi genitori ci sentivamo], quando [la Libia] era italiana. Ma dopo quando c’era re Idris, e poi Gheddafi no. Non c’era corrispondenza, perché quando lui ha mandato via tutti gli italiani e ha espropriato tutto, là non c’era più nessuno.
Giorgio B.
[Portavano in Italia i bambini] perché con la guerra, avevano paura che i senussi - che erano ... [Leggi tutto]
[Portavano in Italia i bambini] perché con la guerra, avevano paura che i senussi - che erano quelli che erano fuorisciti in Egitto, ed erano poi quelli che comandavano in Cirenaica e che hanno avuto le batoste più grosse da Graziani - venissero e si rivalessero anche sui bambini, e quindi i bambini li hanno portati via tutti. E ci hanno portato a Napoli. Poi [da Napoli] li hanno smistati in tutta l’Italia: c’era dei fratelli che ce n’era magari in Sicilia uno e l’altro era a Trento. E quando si son trovati quella gente lì? Non si son più trovati. Ci hanno portati nelle colonie estive. Poi dopo, i più grandi [come me], ci hanno mandato nei centri di preparazione al lavoro: io ero a Ravenna e l’altro mio fratello era a Faenza, faceva ceramica! A Ravenna eravamo centocinquanta, e c’era una scuola che faceva elettricisti e meccanici, falegnami e motoristi. E facevamo scuola lì: scuola e mangiare, ma mangiare poco, ma poco! E tanta marcia, perché a mezzogiorno, quando era ora di mangiare, c’era un disgraziato cadetto che ci portava in cortile e ci faceva fare avanti indietro, avanti, indietro, peggio che i militari. Andavi a mangiare che non c’era più niente, perché gli altri ti avevano già mangiato tutto!
Giorgio B.
Il 9 giugno [1940] è venuto un ingegnere a casa con la macchina, la Balilla, e ci ha portato ... [Leggi tutto]
Il 9 giugno [1940] è venuto un ingegnere a casa con la macchina, la Balilla, e ci ha portato all’imbarco a Bengasi. E allora lì cosa hanno fatto? Eravamo tutti bambini dai quattro ai tredici anni, noi [soltanto] eravamo in cinque. Eravamo circa 2.000 [bambini] su una nave che era piena come un formicaio... [Che poi] avevano messo i teloni intorno alla nave, intorno al parapetto, perché se no i bambini andavano giù. [E i miei fratelli] dalle fessure guardavano [il mare], perché c’erano i delfini, e allora io e mio fratello li abbiam presi e li abbiam messi in cabina. A Napoli li abbiamo presi per mano e siamo andati in stazione, tutti insieme. Ed è stata la nostra fortuna!
Giorgio B.

Dall’Italia alla Libia: andare via o restare

[Io sono nato a Ferrara] nel 1926. Mio padre era orfano di madre. Era stato adottato da uno zio, ma ... [Leggi tutto]
[Io sono nato a Ferrara] nel 1926. Mio padre era orfano di madre. Era stato adottato da uno zio, ma erano tre fratelli, erano possidenti terrieri. Poi dopo quando si è sposato - nel 1926, che son nato io - ha preso una casa in affitto con quattro ettari di terreno, ma non bastavano, siamo arrivati ad essere in sei, su otto figli. E a un certo punto come si faceva ad andare avanti? Perché fino al ’35 non c’era il lavoro, non c’era niente da quelle parti lì nel ferrarese, nella bassa ferrarese. Perché la bassa ferrarese e la provincia di Rovigo, era paggio che essere in Tunisia o in Sicilia! C’era qualche ora da fare in campagna e basta, lavori di industria dove andavi? [La nostra] era una famiglia che eravamo in tanti e c’era uno solo che lavorava. [Si lavorava la campagna]: mio papà era manovale agricolo, perché andava a ore da uno a tagliare l’erba, a tagliare la canapa da un’altra parte... Si viveva così. [Poi nel 1936] è arrivata l’occasione che hanno chiesto [a mio padre] se voleva andare in Africa, in Libia, come cantoniere sulla litoranea, e allora siamo partiti tutti. [La spinta a partire] è stata la fame, praticamente! Perché la maggior parte che siamo andati, che ci siamo poi trovati giù in Cirenaica, eravamo tutti della provincia di Ferrara e tutti veneti: c’erano friulani, c’erano di tutte le razze. Ci siamo trovati là, ed erano tutti andati per la fame. Perché quelli che avevan fatto i contadini, sono andati lì [in Libia] e avevano trovato la carne, due vacche nella stalla, la meccanizzazione tutta libera. C’era l’Azienda di bonifica che dava: di bestiame davano due vacche, e sul terreno il raccolto era a metà, metà all’azienda e metà al contadino. Perciò si son trovati la casa già ammobiliata, col mangiare per un mese dentro, mentre qui si mangiava la metà! Anche noi abbiamo trovato la casa pronta coi mobili dentro: erano tutti mobili verdi! Abbiam trovato mobili, abbiam trovato da mangiare: quello che non mangiavamo qui lo abbiamo trovato là!
Giorgio B.
Sono nato a Jesolo il 9 febbraio 1935. La mia famiglia di origine è una famiglia di contadini: ... [Leggi tutto]
Sono nato a Jesolo il 9 febbraio 1935. La mia famiglia di origine è una famiglia di contadini: padre, madre e quando siamo andati in Africa eravamo nove figli. Poi lì ne è nato un altro, siamo diventati dieci figli. Siamo andati quando Mussolini ha deciso di colonizzare la Libia e ha cercato delle famiglie di contadini da mandare in Libia. C'era una commissione che ha scelto le famiglie da mandare e tra queste è stata scelta anche la mia famiglia. Dico è stata scelta, perché le famiglie che hanno fatto domanda erano 6.000 - mi sembra, più di 6.000 - e hanno selezionato 2.000 famiglie, di cui 1.800 erano quelle che dovevano partire e altre 200 erano di riserva se qualcuna non dovesse partire. E [allora] nel 1938 siamo andati in Africa con la famosa trasferta dei 20.000, chiamati così perché avevano previsto di mandare 20.000 coloni per cinque anni in Libia, per colonizzare la Libia. E i primi 20.000 eran quelli, e c'era anche la mia famiglia. Penso che la cosa principale [che ha spinto la mia famiglia a partire] sia stata la crisi che c'era nelle campagne. I miei erano dei braccianti, dividevano la metà [del raccolto] con il proprietario della terra. Eravamo una famiglia numerosa e praticamente si lavorava per vivere e basta, altro non avanzavamo. Lì [in Libia] ci offrivano un podere di trenta ettari che poi dopo venticinque anni con il contratto - che poi il contratto bisogna esaminarlo bene, perché non è tutto rosa e fiori - si sarebbe potuto riscattare con i prodotti, che in parte si riscattavano e in parte servivano per vivere. Dopo venticinque anni sarebbe rimasto di proprietà della famiglia, e quindi c'era la prospettiva: da non essere padroni di niente, a essere padroni di qualcosa, c'era un vantaggio enorme. Infatti tante famiglie che son partite erano del Veneto, [proprio perchè] in quel periodo c'era una crisi molto grande della campagna.
Ernesto S.
Sono nato il 21 settembre 1932 a Teora, in provincia di Avellino. Siamo partiti per la Libia nel ... [Leggi tutto]
Sono nato il 21 settembre 1932 a Teora, in provincia di Avellino. Siamo partiti per la Libia nel '39, a ottobre del '39. La traversata fu molto lunga, praticamente fu una crociera. Eravamo mezzadri, contadini, ma non su terreni di proprietà. Per cui si era soggetti al proprietario, il padrone come si diceva allora - e come si dice ancora oggi - e naturalmente dovevi fare quello che voleva lui. Dopo di che, dopo aver lavorato e faticato tanto, alla fine del raccolto e della trebbiatura, davano una misura a me e una misura a te. E per cui questo era, non è che si potesse contestare. Era così. E allora, a un certo punto, [visto anche] che la famiglia era abbastanza numerosa - eravamo sette figli, io ero il più giovane - mio padre [...] un giorno che era andato al paese aveva visto un bando, si fece leggere che cosa c'era scritto, perché lui sapeva leggere appena,. [...] Gli spiegarono che c'era la possibilità di poter andare in un certo posto che era al di là del mare...Ma mica si rendeva conto che cos'era! [Un posto] che era territorio italiano e, in effetti, la Libia era territorio italiano: ecco perché si dice quarta sponda.Veniva offerta una casa, un bell'appezzamento di terreno, dove sotto la guida del regime di allora, si veniva guidati e aiutati a iniziare un certo tipo di lavoro dove ci si poteva affrancare dalla mezzadria. E quindi era un qualcosa in più: la prospettiva offriva qualcosa. Questo mi hanno spiegato i miei genitori. In realtà sarebbe andato molto meglio se non fosse scoppiata la guerra, perché dopo sette mesi che eravamo arrivati - forse [anche] meno di sette mesi - scoppiò; la guerra, per cui tutto cominciò; a cambiare.
Nicola G.

Le colonie per i bambini libici

In ottobre ci trasferirono a San Remo. A San Remo la collocazione venne fatta in grande stile, ... [Leggi tutto]
In ottobre ci trasferirono a San Remo. A San Remo la collocazione venne fatta in grande stile, [perché] vennero requisiti molti alberghi: il Grand Hotel, [che] allora si chiamava il Grande Albergo, e c'erano le ragazze. Ma siccome noi eravamo tra i più piccoli, una squadra - gli unici - ci misero insieme alle ragazze. E ci rimanemmo alcuni mesi, dopo di che ci trasferirono dove c'erano i maschietti. L'altro albergo [era un albergo] che allora si chiamava Albergo Aosta, oggi so che si chiama Hotel Londra. [Io e mia moglie] nel 1980 eravamo in vacanza a San Bartolomeo e andammo a San Remo proprio a visitare il grande albergo, che era il Grand Hotel e l'Albergo Aosta. Ci fermammo a un chiosco a prendere una bibita, e il gestore, al quale chiesi se si ricordava [quel periodo mi rispose]: cosa, io ero l'economo! Si ricordava tutto! Quanti ricordi mi fece venire in mente! E li ricordavo con nostalgia e si vedeva che questa persona aveva qualcosa di umano, perché ricordava questi bambini, ricordava cosa ci avevano fatto durante la guerra. E quindi noi siamo stati lì quattordici mesi, che ci chiamavano i bambini libici, e in tutto l'albergo c'era un cartello che era scritto Colonia bambini libici. Bimbi libici perché significava i bambini che venivano dalla Libia, non è che abbiamo cambiato nazionalità, e quindi eravamo italiani e basta.
Nicola G.
[Io finisco a Miramare] in una di queste colonie: era bellissima! Era una colonia della GIL a ... [Leggi tutto]
[Io finisco a Miramare] in una di queste colonie: era bellissima! Era una colonia della GIL a cinquecento metri dal mare, che si trattava di oltrepassare la litoranea e poi si era subito [in spiaggia]. C'è ancora questa colonia, è tutta diroccata e adesso stanno decidendo che cosa vogliono farne, perché è passata in proprietà della Regione Emilia e vogliono adibirla a qualcosa. Certe colonie - come ad esempio la mia - non avevano il riscaldamento e quindi dovevamo essere trasferiti. E infatti siamo stati trasferiti in Puglia: sono andato a finire in una colonia che questa si che era sul mare. Era fatta a metà rettangolo, che i due lati minori andavano a finire proprio sulla spiaggia. Io pensavo che fosse a Barletta, e invece ho saputo che la colonia si chiamava Giuseppe Barletta e si trovava alla Fesca, alla periferia di Bari, dove dopo hanno costruito la fiera di Bari, in quella zona lì. Tra parentesi, [quella colonia] alla fine della guerra è stata adibita anche come campo profughi. E siamo stati lì poco tempo, perché poi doveva essere più tranquillo, ma alla fine di ottobre Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia: spezzeremo le reni [all'Albania] diceva. E lì gli inglesi venivano a bombardare...Non era un obiettivo militare, ma se ci vedevano passare non è che distinguevano mica tanto, e ci mitragliavano, eh! Di quella colonia ricordo solo che era sul mare e che c'era l'acqua che entrava nei sotterranei. Allora han deciso di spostarci in Liguria, e ci hanno mandati a Bordighera. Ci han mandato in alberghi di lusso, dove andavano a soggiornare gli inglesi. Li hanno requisiti e hanno messo dentro questi ragazzi. E io a Bordighera ci sono poi stato quattro anni: ho fatto le elementari, ho fatto la comunione e la cresima.
Ernesto S.
[Le colonie erano gestite] da tutto il personale legato al regime di allora. Facevano parte ... [Leggi tutto]
[Le colonie erano gestite] da tutto il personale legato al regime di allora. Facevano parte dell'organizzazione che doveva accogliere questi 13.000 bambini dislocati nelle varie località dove c'era spazio. Molti sono finiti a Cattolica, Riccione, sono finiti in molti posti. Ma noi, a Fiesso, ci siamo rimasti pochi mesi. Ci siamo rimasti in inverno, dopo di che ci mandarono a Marina di Massa. Alla Colonia Torino, [che] allora si chiamava XXVIII ottobre. Le dice qualcosa 28 ottobre? Ecco, appunto! Ed eravamo 1.500. Per fortuna i maschi da una parte e le femminucce dall'altra, tutti...Ogni squadra era composta di trentatre - trentaquattro bambini, per cui quando ci si muoveva eravamo in fila per tre con un caposquadra, una vigilatrice e un'accompagnatrice. Le accompagnatrici erano le figlie degli italiani che erano in Libia. Erano quelle che ci avevano accompagnato fino alle colonie. Ma lì si trovò; la vigilatrice che era la responsabile, ben organizzata e ben attrezzata, mentre le accompagnatrici erano le figlie delle famiglie, non avevano preparazione. Avevano però; la capacità di capire: erano ragazze più grandi, ragazze di diciotto - diciannove anni, qualcuna anche più grande. Ma quello che trovavamo sul posto, era invece personale preparato. Preparato per condurci in una certa maniera. Per cui al mattino suonava la sveglia, sempre alla stessa ora, si diceva la preghiera, dopo si andava a tavola, e a tavola c'era il rito: c'era la scodella dal latte con il pane, ma prima bisognava dire la preghiera e poi fare il saluto al duce. Saluto al duce e saluto al re! E ricordo un particolare: eravamo tutti in piedi, la scodella del latte era lì davanti a me, e quando [si doveva dire] viva il re, viva il duce, mentre faccio così [il saluto romano], vado a toccare la tazza e faccio cadere tutto!
Nicola G.

Propaganda fascista

I ragazzi della quarta sponda, sono i ragazzi che sono stati poi nel 1940 rimpatriati, con ... [Leggi tutto]
I ragazzi della quarta sponda, sono i ragazzi che sono stati poi nel 1940 rimpatriati, con cartolina di precetto. [Si parla di] 13.000 ragazzi portati in Italia con la scusa che c'era, imminente, lo scoppio della guerra. Sarà stato anche per questo, ma la realtà, vera, è che c'era bisogno di indottrinamento.
Perché mi soffermo su queste cose? Perché l'indottrinamento che è venuto dopo, quello che hanno cercato di farci, questa è stata una cosa tremenda! Ecco dove entro in conflitto con quello che ho trovato. Sembra una contraddizione: mentre riconosco l'organizzazione per chi voleva - per il regime di allora - colonizzare quel territorio, era stato fatto bene. Questo si, ma l'indottrinamento è un'altra cosa.
Nicola G.
[La propaganda del regime] c'è stata, senz'altro. C'era una commissione che sceglieva le famiglie ... [Leggi tutto]
[La propaganda del regime] c'è stata, senz'altro. C'era una commissione che sceglieva le famiglie che dovevano però; avere determinati requisiti: mio papà ad esempio ha fatto un corso di potatura, ha preso anche il diploma. [Erano corsi fatti per preparare] all'agricoltura coloniale. La campagna veneta era piena di questi coloni, l'agricoltura era la maggior risorsa [della zona].
Ernesto S.
[Mussolini] chiamava [in Libia] quando erano pronti i villaggi. Lo stato faceva i villaggi - ... [Leggi tutto]
[Mussolini] chiamava [in Libia] quando erano pronti i villaggi. Lo stato faceva i villaggi - cercava i terreni migliori, perché prima venivano tutti i geometri a fare i rilievi - e quando eran pronti li riempiva. Perciò, ogni anno, erano 10.000 famiglie che venivano. Lo stato non spingeva ad andare, [quelli che andavano] erano volontari, non era lui che diceva tu devi andare. Però c’era la propaganda: qui c’era fame e non c’era soldi, là [invece] ti diceva che c’era la casa e il terreno a metà con l’azienda e la gente di qua, che aveva fame, cosa faceva? Andava!
Giorgio B.

Provenienza coloni

C'è un volume che è stato emesso dal governo della Libia sull'emigrazione del '38 che ho trovato a ... [Leggi tutto]
C'è un volume che è stato emesso dal governo della Libia sull'emigrazione del '38 che ho trovato a Trieste un po' di anni fa, e lì c'è proprio un resoconto, quanti ce n'erano e quanti non ce n'erano. Il 60% delle famiglie che sono andate nel '38 erano veneti. I lombardi erano pochi, c'erano tanti emiliani, perché Mussolini era di quelle parti. E poi meridionali anche, erano parecchi anche i meridionali. Comunque quello che spingeva ad andare via era principalmente il bisogno. Non era l'avventura, diciamo. [Non si partiva con l'idea di dire] vado lì e poi vediamo. Magari qualche famiglia ci sarà stata, ma dal Vento a far partire era proprio quello, il bisogno.
Ernesto S.
[Nel Villaggio Garibaldi], c'era un bel numero di famiglie siciliane, campane, abruzzesi, laziali e ... [Leggi tutto]
[Nel Villaggio Garibaldi], c'era un bel numero di famiglie siciliane, campane, abruzzesi, laziali e venete. Questi erano i cinque gruppi etnici - chiamiamoli così - più rappresentati. Erano la maggioranza: di calabresi c'è n'era proprio soltanto qualcuno, [invece] non ricordo toscani, non ricordo liguri, non ricordo piemontesi, lombardi. [C'erano] tanti veneti, friulani, tutto il Veneto, dal Friuli al veneto in basso. Questa era la stragrande maggioranza delle famiglie con le quali, all'inizio, si sono avuto grossi contrasti: non soltanto gli sfottò;, ma qualche volta ci si è anche menati! Polentoni e terroni! [Poi siamo rientrati]. Ma [iniziarono a rientrare] prima i piccoli, a scaglioni, non tutti insieme. Per cui noi siamo rientrati in aprile, poi c'è stato un altro scaglione rientrato in settembre...Io avevo tredici anni e andavo per i quattordici. Poi [sono rientrati anche] i miei fratelli: uno è entrato nel '48, l'altro nel '49, [perché] non li facevano rientrare subito. Ma nel frattempo si aveva completamente familiarizzato: c'erano stati dei matrimoni tra italiani di varie regioni, che li potremmo definire misti.
Nicola G.

Rapporti coi libici

Ci dicevano vai al tuo paese! E quindi quando siamo partiti, io ricordo un particolare sulla nave: ... [Leggi tutto]
Ci dicevano vai al tuo paese! E quindi quando siamo partiti, io ricordo un particolare sulla nave: la nave è partita, saluti le coste e sai che si chiude un capitolo della tua vita. Dove lasciavamo il cuore. Il mal d'Africa io lo provavo già allora, e lo chiamavamo mal d'Africa. Noi quella la consideravamo la nostra terra, e la terra che ci avevano dato io non lo so se il governo l'aveva confiscata a chi o come, ma noi non avevamo rubato niente. Ce l'avevano assegnata e noi l'avevamo presa. Che poi avremo dovuto riscattarle nel tempo. Cercavano di farci andare via, perché erano convinti che rimanendo loro da soli...Intanto spariva la lingua italiana e loro potevano dominare tranquillamente. E quindi rendendoci conto che non avevamo futuro, abbinato al fatto che quell'anno non aveva piovuto, siamo andati via. E ricordo, quando siamo partiti, [che] eravamo tutti sotto coperta [sulla nave] e i nostri vecchi erano seduti in cerchio, e noi giovani gli eravamo alle spalle. I nostri vecchi piangevano, perché [erano] tutti di estrazione contadina, tutti ex mezzadri che lì invece si erano riscattati ed erano diventati padroni, dicevano: incontro a quale sorte andiamo? Non è per noi - dicevano - noi siamo anziani ormai, ma questi giovani non sanno fare altro se non i contadini, cosa faranno in Italia? Cosa faranno in Italia questi? Maledetti! Li sentii dire maledetti, e ce l'avevano con gli arabi. E noi alle loro spalle dicevamo: no, non malediteli, hanno ragione loro, ognuno a casa sua. Io questa frase l'ho pronunciata la sera del 5 gennaio del 1956. Ho detto ai nostri vecchi: non malediteli, hanno ragione loro. Noi qui ci comportavamo come i padroni. I padroni andiamo a farli a casa nostra.
Nicola G.
Allora, il rapporto coi libici...Noi ci servivamo della manodopera dei libici, perché nel frattempo ... [Leggi tutto]
Allora, il rapporto coi libici...Noi ci servivamo della manodopera dei libici, perché nel frattempo non avevamo più un solo podere, ne avevamo cinque. Perché dopo la guerra, le famiglie che erano venute via, un mio fratello ha preso un podere, mio fratello ne ha preso un altro, per cui ne avevamo [tanti], e c'era bisogno di lavoro. C'è n'era uno che ci guardava il bestiame, altri che lavoravano con noi alla vigna, alla raccolta del grano, alla semina. Devo dire una cosa: le maestranze che lavoravano con noi - e le sembrerà forse una bestemmia quello che dico - mangiavano alla nostra tavola, perché il modo di essere lì [l'usanza], è che gli arabi se lavoravano per una famiglia italiana, mangiavano da un'altra parte. Noi li abbiamo fatti sempre mangiare alla nostra tavola, quello che mangiavamo noi. Perché nel frattempo il nostro livello - anche economico - si era elevato, è chiaro. Ma non avevamo dimenticato le nostre origini, per cui far mangiare una persona fuori, o dargli la forchetta diversa dalla tua di modo che lui mangia sempre con la stessa forchetta o mangia sempre nello stesso piatto, era una mortificazione per noi. Mangiavano con il nostro stesso piatto, con la nostra stessa forchetta, bevevano agli stessi bicchieri e mangiavano quello che mangiavamo noi. Stavamo attenti solo a una cosa, per rispetto nei loro confronti, nell'alimentazione dei suini. Loro non mangiano il maiale, anche se noi ci divertivamo a liberare il maiale, e i ragazzini piccoli ci giocavano, mentre i grandi, invece no, perché per loro, il solo vederlo, era peccato. Per cui si coprivano gli occhi e noi ci divertivamo perché i loro ragazzini ci giocavano con i maialini. Ecco. L'unica cosa di grosso che abbiamo fatto è questa, per il resto siamo sempre andati d'accordo. Però;, piano, piano, cominciavano anche a fare qualche abuso: venivano a rubare e anche nel dialogo e nei rapporti, italiano vai al tuo paese ce lo siamo sentito dire. E dicevamo: qui, mano a mano che passa il tempo, rimaniamo sempre meno noi e questi alzano la testa.
Nicola G.
Ci son state le invasioni, ci son stati anche degli episodi di arabi che hanno assalito dei coloni. ... [Leggi tutto]
Ci son state le invasioni, ci son stati anche degli episodi di arabi che hanno assalito dei coloni. Dipendeva anche un po' dagli italiani, da quelli che facevano i prepotenti e da quelli che non facevano i prepotenti. Quelli che non facevano i prepotenti avevano [con gli arabi] un rapporto buono. Certamente, noi eravamo sulla loro terra, però; c'erano quelli che avevano avuto un rapporto non buono con gli arabi e appena han potuto gli arabi si son vendicati.
Ernesto S.
Qualcosa avevano, perché altrimenti non scappavano. Crollato il fascismo sono andati via, si ... [Leggi tutto]
Qualcosa avevano, perché altrimenti non scappavano. Crollato il fascismo sono andati via, si capisce. Gli espulsi sono gli ultimi, quelli del ’75. Quelli che se ne sono andati, è perché avevano delle grane. Io penso che dalla Libia non son scappati via per politica, ma son scappati via perché se no gli tagliavano la gola. Perché avevano fatto delle puttanate, perché se no non scappavi. In quel periodo lì non scappavi, stavi lì. Mio papà è venuto perché noi eravamo tutti qua, mia madre era qui, e lui intendeva venirci a prendere. Perché poi mia madre voleva tornare là a tutti i costi, [per lei] non c’era verso di stare in Italia, perciò [voleva ritornare]. Ma da Catania ce n’era di gente che han preso i pescherecci e provavano a ritornare di là e poi li rimandavano indietro, eh!
Gigi B.
Mio padre era capo tronco: aveva quattro arabi che lavoravano sulla strada e lui doveva sorvegliare ... [Leggi tutto]
Mio padre era capo tronco: aveva quattro arabi che lavoravano sulla strada e lui doveva sorvegliare e segnare le ore per il pagamento. Sorvegliare i lavori, dire i lavori che c’era da fare e farli insieme agli arabi. C’era tanta gente che erano prepotenti, che facevano lavorare [i libici] e poi gli davano dei calci nel culo, invece di pagarli! Comunque un po’ di rivalsa per forza c’era... Episodi di violenza ci son stati perché se li cercavano... Se le son cercate le storie, perché Graziani ne ha ammazzati un mucchio: quanti ne son morti! I senussi prima di andare fuori dalle scatole... Se non c’era Graziani che ha incominciato a impiccarne dieci o dodici alla volta, non ce la facevano mica a mandarli via da lì. A un certo punto quella gente lì cosa vuoi che faccia? Quando ritornano sul posto dov’erano, che [prima] li han buttati fuori a tutta forza, e sapevano dai residenti che quello lì aveva fatto questo e quell’altro aveva fatto quello, reagivano per forza. E infatti [quelli che son scappati dalla Libia nel 1943], è gente che è scappata via di là perché aveva la coscienza sporca, perché altrimenti non scappava, stavano lì. [Sono andati via] perché o erano fascisti, o hanno fatto del male ai locali.
Giorgio B.

Rimpatrio dei bambini

Ci prendono con dei pullman dal villaggio - il nostro Villaggio si chiamava Villaggio Garibaldi, ed ... [Leggi tutto]
Ci prendono con dei pullman dal villaggio - il nostro Villaggio si chiamava Villaggio Garibaldi, ed era a circa trenta chilometri da Misurata - dove ci fu la raccolta di tutti i bambini. [Fummo] caricati sui pullman e portati a Tripoli, dove una notte dormimmo, ma non ricordo dove e come - forse su un fieno - perché eravamo in tanti, 13.000. E la mattina dopo si partì, in nave. Non ricordo quante navi [ci fossero], ma erano parecchie: sbarcammo a Napoli il 10 di giugno.
Nicola G.
Ci venivano a prendere...Avevano dato delle disposizioni che a una certa data i bambini dovevano ... [Leggi tutto]
Ci venivano a prendere...Avevano dato delle disposizioni che a una certa data i bambini dovevano trovarsi o a Tripoli da dove partivano quelli della Tripolitania, oppure a Bengasi o a Derna. Dovevano trovarsi pronti, passavano i camion militari che li caricavano su e li portavano al porto. Poi in Italia venivano presi in consegna dalla Gioventù Italiana del Littorio,che era quella che gestiva la gioventù in Italia, che li ha sistemati in trentasette colonie lungo tutto l'Adriatico. Non tutte queste colonie erano della Gioventù Italiana del Littorio, qualcuna era di qualche ente come non so, la Croce Rossa o le Ferrovie, che le hanno messe a disposizione. [In realtà] le han dovute mettere a disposizione, perché se no le portavano via. Molte però; erano degli organi provinciali della Gioventù Italiana del Littorio che avevano la loro colonia lungo l'Adriatico.
Ernesto S.
[A febbraio e a marzo], cominciarono ad arrivare gli avvisi che tutti i bambini - io ricordo - dai ... [Leggi tutto]
[A febbraio e a marzo], cominciarono ad arrivare gli avvisi che tutti i bambini - io ricordo - dai tre ai quattordici anni - anche se qualcuno dice dai quattro [anni] - erano precettati. Io la definisco una cartolina di precetto, dove diceva che tutti questi bambini venivano rimpatriati in Italia, perché era imminente lo scoppio della guerra e si volevano mettere in salvo i bambini, perché non si sapeva dove sarebbe arrivato il fronte, anche perché in Egitto c'era il dominio inglese, e quindi c'erano le truppe inglesi. Per cui, dicevano, che se ci sarebbe stata un'avanzata dell'esercito nemico, mettiamo almeno i bambini in salvo. Questa fu la motivazione detta, la motivazione data alla gente. E nessuno osò; ribellarsi. Tutti i bambini del nostro villaggio compresi in quell'età, venimmo rimpatriati. Credo che se ne salvarono un paio, perché in quel momento avevano l'influenza. Tutti gli altri, via! E partimmo da casa il 7 di giugno del 1940. Per cui, eravamo arrivati là a fine ottobre inizio di novembre, ed erano passati solo sette mesi, neppure. E tutti questi bambini vennero rimpatriati.
Nicola G.
Mussolini vede che i tedeschi fanno fuoco e fiamme, che mettono a tacere la Francia e lui vuole ... [Leggi tutto]
Mussolini vede che i tedeschi fanno fuoco e fiamme, che mettono a tacere la Francia e lui vuole sedersi al tavolo dei vincitori, come aveva fatto Cavour una volta. Cavour ha partecipato alla guerra di Crimea, e lo ha fatto con lo scopo di essere riconosciuto come Stato. Gli è andata bene perché han vinto e lui si è seduto [al tavolo dei vincitori], ha presentato il problema dell'Italia e poi dopo lo ha risolto. Mussolini voleva fare la stessa cosa: basta un migliaio di morti e io mi siedo al tavolo dei vincitori. Figuriamoci, i tedeschi! Noi eravamo impreparati a tutto quanto, si sa benissimo come è andata, ma questo è un problema degli storici...Comunque Mussolini ha pensato bene, due mesi prima di dichiarare [l'entrata in guerra dell'Italia], di rimandare in Italia tutte le famiglie, di evacuare la Libia. Li aveva mandati nel '38 e aveva speso un sacco di soldi, con un bordello di notizie e di propaganda, e poi voleva addirittura mandare via le famiglie. Invece quelli degli enti gli han detto ma come, mandate via le famiglie e tutta la roba noi la perdiamo. Poi ci ha ripensato, e ha detto che tutte le famiglie che restano lì producono e danno anche dei prodotti che non c'è bisogno di importare dall'Italia. Allora ha pensato di dire: mandiamo in Italia i bambini, dai quattro ai quattordici anni. Han pensato e poi a fine maggio del '40 - infatti le scuole sono finite a fine maggio - tutti i bambini dai quattro ai quattordici anni sono stati mandati in Italia. [Alle nostre famiglie] veniva detto che eravamo mandati per un periodo di tempo in Italia. Come motivazione [della partenza] dicevano che partivamo per rinfrancare lo spirito delle persone. Era una breve vacanza, doveva essere una breve vacanza, visto che saremmo dovuti ritornare dopo quaranta giorni. Invece han fatto questo perché sapevano già che il teatro di guerra quando l'Italia sarebbe stata in guerra era l'Africa, la Cirenaica, perché lo scopo di Mussolini era quello di invadere l'Egitto e l'Inghilterra.
Ernesto S.

Tornare in Libia

Quando arrivò; il passaggio, nel '52, perché dopo Parigi, questi territori rimangono sotto ... [Leggi tutto]
Quando arrivò; il passaggio, nel '52, perché dopo Parigi, questi territori rimangono sotto l'amministrazione italiana e nel '52 passano ai libici. Ma tutta l'organizzazione era italiana. E si è venuta a creare questa situazione: i libici volevano l'indipendenza, ma la lingua ufficiale era l'italiano e l'organizzazione militare dominante era quella inglese. E allora, tra queste tre, qual è che contava di più? Uno direbbe quella militare. No, non era quella. L'indipendenza libica? No, perché si doveva formare ancora. Era la lingua, che era l'italiano. Ma questo agli inglesi dava un fastidio tremendo, per cui facevano di tutto per metterci nelle condizioni di dovercene andare. Si cominciò; in questa maniera: dal '52 si cominciò; ad avere difficoltà a vendere il nostro prodotto, che erano i cereali. [...] Non riuscivamo a vendere il prodotto agricolo, perché? Perché loro [gli inglesi] importavano il grano dall'Australia e noi non riuscivamo a vendere [il nostro]. [...] Gli inglesi importarono il grano dall'Australia [mentre] il nostro marciva lì. E quindi, come fai? E quindi come si capì questo, uno dei miei fratelli fu il primo a venire: rientrò; in Italia, la moglie rimase al paese e lui andò; in Venezuela e la famiglia si sfasciò;. L'altro fratello rientrò; nel '55 e [in Libia] ero rimasto solo io, con le mie sorelle e i genitori. [...] Tentammo di rimanere ancora. Ma, accidenti, capitò; che non piovve: [a] settembre non piovve, [a] ottobre non piovve [a] novembre non piovve, [a ] dicembre non piovve e non si poté fare la semina. E per cui si fece domanda e si rientrò;. Rientrammo e finimmo nel campo profughi di Aversa in provincia di Caserta.
Nicola G.
[Dalla Libia, la mia famiglia] è dovuta andar via! Il dramma è stato quello. Sono andati via [a ... [Leggi tutto]
[Dalla Libia, la mia famiglia] è dovuta andar via! Il dramma è stato quello. Sono andati via [a bordo di] camion militari che tornavano indietro, magari carichi di materiale bellico, e che caricavano le persone. Si presentavano e dicevano: via, via, bisogna andar via! E si doveva lasciare tutto. Ma non tutta la famiglia a bordo del camion, [venivano divisi], un po' qua e un po' là. E via verso la Tripolitania. Son stati caricati così. Mia sorella mi ha detto che ha fatto 1.300 chilometri [sopra un camion] attaccata all'elica di un aereo, ha fatto 1.300 chilometri in quelle condizioni! E sono andati a finire in un altro villaggio della Tripolitania - Berliglieri si chiamava - e lì si sono fermati circa un anno e poi sono andati a Tripoli. Io poi nel '45 ho sentito che si poteva ritornare in Libia, [e allora] ci siamo incamminati [io e mia sorella] ma a Bologna ci hanno bloccati, perché anche lì, [Bologna] era sempre stato un centro di smistamento - come adesso del resto - anche perché i treni funzionavano solo sulla linea adriatica, di qua non funzionavano. Ci hanno bloccati per un certo periodo e poi ci hanno dato il foglio di via obbligatorio, perché si viaggiava con quello. La prefettura rilasciava il foglio di via obbligatorio, e noi andavamo sui treni non come quelli che circolano adesso, non Frecciarossa, sarà stata una Freccia nera! E poi siamo andati a finire a Roma, al campo profughi di Cinecittà. Io e mia sorella siamo partiti per tornare in Libia, per essere reimbarcati. Ma ci han detto che, come minimo, dovevamo arrivare fino a Roma, e a Roma ci hanno smistato a Cinecittà, che era un centro di raccolta profughi. E siamo stati lì in attesa di essere richiamati per l'imbarco. [La chiamata] doveva dipendere dal governo, però; c'è stato il veto da parte della BMP - la British Militar Police - che ha deciso di [vietare gli imbarchi], perché tanti italiani potevano entrare, quanti ne uscivano, cioè testa contro testa: uno usciva e uno entrava. [A] loro non fregava niente del problema di questi ragazzi che dovevano ricongiungersi con la famiglia. Ed eravamo io e mia sorella, ma c'erano anche altri profughi di altre categorie. Cioè non solo profughi, non solo i ragazzi della quarta sponda che dovevano rientrare, ma anche altri: a Roma in quel periodo lì c'erano sei campi profughi!
Ernesto S.
Per due anni noi non abbiamo avuto notizie della mia famiglia, non sapevamo nulla, se erano vivi o ... [Leggi tutto]
Per due anni noi non abbiamo avuto notizie della mia famiglia, non sapevamo nulla, se erano vivi o se erano morti, né loro [sapevano nulla] di noi. Poi attraverso la Croce Rossa, la famiglia riuscì a mettersi in contatto con gli zii [dove e mia sorella eravamo andati dopo essere stati in colonia] e gli zii ci fecero sapere e anche i nostri [genitori] ebbero notizie di noi. [...] Poi ripartimmo in aprile [del 1946] per la Libia. [Partimmo] da Napoli, in nave. Siamo tornati in Libia, al Villaggio Garibaldi. E, naturalmente, quando [la mia famiglia] mi vide - specialmente mia sorella più grande che era rimasta a casa - mi dissero: ma questo non è il nostro Nicolino! Non è lui, non è possibile, è così piccolo! Il reinserimento, [ha provocato] molti contrasti. Perché si era avuto un altro tipo di evoluzione rispetto ai ragazzi: l'educazione che avrebbero ricevuto in famiglia e quella che [invece] avevano ricevuto [in Italia] non era la stessa, era differente. Per cui [molti] pensavano di tornare a casa ed essere liberi, [mentre] i genitori cercavano invece di inquadrare su una strada con delle regole precise. E allora, la stragrande maggioranza si sono adeguati, come ci siamo adeguati noi, che non abbiamo mai avuto problemi se non quelli della crescita. Ma è normale, ogni figlio è in contrasto con i genitori arrivato a una certa età. Oggi succede molto di più di allora! Ma noi ci integrammo perfettamente: [eravamo] tutte famiglie con le quali conservo ancora rapporti adesso.
Nicola G.

Vita nelle colonie

[Stavamo] in divisa, eravamo tutti vestiti alla stessa maniera. Poi, negli anni, le divise vennero ... [Leggi tutto]
[Stavamo] in divisa, eravamo tutti vestiti alla stessa maniera. Poi, negli anni, le divise vennero fatte a regola d'arte, con un fazzoletto legato al collo con in mezzo una M grande che era appesa come crocifisso. E quello significava Mussolini. E da Marina di Massa in poi, perché a Marina di Massa passammo l'autunno e in primavera ci trasferirono e Fieve di Primero in provincia di Trento. E qui venimmo dislocati in più punti: avevano requisito piccoli alberghetti, trattorie, insomma [strutture] dov'era possibile mettere dei letti e delle camerate. Ci mandavano a scuola, naturalmente, ma sempre [sotto] lo stesso regime [si doveva] stare: bisognava marciare, dottrina fascista...Tutti i giorni c'era un'ora o due di dottrina fascista, e per cui ci spiegarono come era nato il fascio, perché era nato il fascio, grazie a chi aveva fatto sorgere questa organizzazione, le motivazioni, che erano tutte portate a un livello altissimo. E i bambini di allora che cosa dovevano pensare? Era vangelo! Abbiamo bevuto tutto! Ma avevo sette anni! Anzi, a questo punto ne avevo otto... Io ricordo un particolare di quanto eravamo a Marina di Massa: era inverno, eravamo alla Colonia Torino, che sono andato a visitarla circa dieci o dodici anni fa. Eravamo andati in vacanza da quelle parti, e io volli andare a vederla. Ci sono andato due volte: una volta in compagnia della famiglia per spiegargli com'era, [mentre] una seconda volta ci sono andato da solo. Volli andarci proprio da solo, perché volevo ricordare proprio i fatti e le cose precise. Mi ricordo che in questo giorno di inverno - faceva un freddo cane!- mentre ci facevano marciare, con i piccoli davanti e i grandi dietro - quindi eravamo circa dieci , undici file da tre con un caposquadra - dicevano uno, due, dietro front. Quando diedero il dietro front, i primi che eravamo più avanti, non sentimmo il dietro front. Per cui quelli che lo sentirono si voltarono, noi [invece] continuammo a camminare. Ma io che non sentii più i passi, mi voltai e corsi indietro, e qui vidi una cosa: vidi due uomini che erano in fondo dove stavamo marciando noi, fermi che guardavano. E quando i bambini - i primi - arrivarono alla loro altezza, li fermarono e gli dissero di tornare indietro. E, rivolti verso la vigilatrice che era ferma, le fecero con la mano questo gesto, come per dire ma che cazzo volete da questi bambini! Cosa volete!? Non dissero una parola, il gesto significava tutto. E questi sono quei fatti che ti rimangono tremendamente nella mente, e non li cancelli più.
Nicola G.
Lì [nelle colonie], tenevano separati maschi e femmine, però eravamo nella stessa colonia [...] La ... [Leggi tutto]
Lì [nelle colonie], tenevano separati maschi e femmine, però eravamo nella stessa colonia [...] La vita era normale, era quella tipo militare: al mattino suonavano la sveglia, poi bisognava essere pronti e prepararsi per l’alzabandiera e poi colazione e marce. Si faceva quella vita, ogni giorno era così. C’erano le educatrici e non c’era però ancora la scuola perchè non ci avevano pensato, dal momento che avevano detto che entro tre mesi si doveva rientrare, e quindi il problema della scuola non si poneva. Il problema della scuola si è posto dopo, passati i tre o quattro mesi, cioè quando il regime ha dovuto anche riorganizzare il sistema delle colonie. [Della nostra famiglia] nessuno sapeva niente. Due volte - una volta a Rimini e una volta a Bordighera - ci hanno messo in comunicazione radio con la famiglia e noi mandavamo i saluti, ma non so se poi loro li avevano ricevuti. Loro [il regime] dicevano che la famiglia li aveva ricevuti, ma non lo sapevamo. Noi ci mettevamo in fila, ci presentavamo e mandavamo i saluti. [Questa scena] si vede anche in un documentario dove c’è una bambina bionda - che [tra l’altro] è di Torino - che saluta la famiglia. Poi le notizie erano quelle che dava il bollettino del partito. Noi eravamo trattati come i prediletti. All’inizio [eravamo trattati] come dei prediletti del regime. Cioè noi ricevevamo un’educazione fascista e militaresca, perché eravamo inquadrati come i militari: alzabandiera, marce e tutto quanto. Però poi abbiamo incominciato una vita normale con gli altri bambini. Ma a scuola andavamo solo noi, perché il regime aveva previsto che in ogni colonia ci fosse una scuola. Solo che a Bordighera è stato diverso, perché lì c’erano sei o sette alberghi che avevano questi bambini, eravamo 1.500 a Bordighera, 1.500 a Sanremo, un migliaio a Ospedaeltti, un migliaio anche a Mentone. E poi qualcosa anche in provincia di Savona, ma eravamo soprattutto concentrati lì. E quindi non potevano fare sei scuole in ogni albergo, e allora han preso un albergo e lo hanno utilizzato come scuola. E noi al mattino andavamo a piedi, incolonnati, in marcia, e andavamo lì, che non passava il bus a prenderci! E quando pioveva stavamo a casa, eravamo tutti contenti! Come bambini eravamo controllati e isolati. [...] Avevamo la divisa da balilla che, tra parentesi, fino a che non ho compiuto otto anni ero figlio della lupa. Avevo quella divisa lì e basta. Il mantello d’inverno, ma meno male che a Bordighera non faceva tanto freddo! Comunque si, avevamo quello e basta.
Ernesto S.

Immagini

Foto di gruppo di bambini profughi dalla Libia
Foto di gruppo di bambini profughi dalla Libia
Villaggio Garibaldi (Libia) con gli amici, agosto 1954
Villaggio Garibaldi (Libia) con gli amici, agosto 1954
Centro Raccolta Profughi di Aversa. Sullo sfondo la chiesa del campo, 1960
Centro Raccolta Profughi di Aversa. Sullo sfondo la chiesa del campo, 1960
La squadra della Garibaldina. Villaggio Garibaldi (Libia), 1953
La squadra della Garibaldina. Villaggio Garibaldi (Libia), 1953
Scavazione di un pozzo con l'aiuto di  personale libico, Villaggio Garibaldi (Libia), 1955
Scavazione di un pozzo con l'aiuto di personale libico, Villaggio Garibaldi (Libia), 1955
Un matrimonio nel Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
Un matrimonio nel Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
Gruppo di profughe libiche nel Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
Gruppo di profughe libiche nel Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
La chiesa del Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
La chiesa del Centro Raccolta Profughi di Aversa, 1960
La famiglia Grasso al Villaggio Garibaldi, Villaggio Garibaldi (Libia), 1956
La famiglia Grasso al Villaggio Garibaldi, Villaggio Garibaldi (Libia), 1956

Riferimenti archivistici

 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1073, Assistenza di guerra, Fascicolo 1, 1939-1943, Anno 1940: assistenza ai rimpatriati, elenchi assistenza concessi": corrispondenza
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1073, Assistenza di guerra, Fascicolo 2, 1941, Anno 1941: assistenza a rimpatriati-statistiche": corrispondenza ed elenchi
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1208, Comitato alleviamento disagiati. Comitato comunale per la sistemazione dei profughi, Urbanesimo, Fascicolo 6, Comitato comunale per la sistemazione dei profughi: corrispondenza, 1955
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1736 Assistenza di guerra. Assistenza post-bellica. Profughi, Fascicolo 2, Circolari e corrispondenza, 1940-1956
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1740 Assistenza di guerra. Assistenza post-bellica. Profughi, Fascicolo 2, Sussidi straordinari a profughi e situazione profughi assistiti fuori campo 1955-1961 
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1742 Assistenza di guerra. Assistenza post-bellica. Profughi, Fascicolo 1, Rendiconti degli indumenti e calzature concessi dall'E.C.A. per conto del Ministero dell'Africa Italiana e rendiconto degli effetti lettericci acquistati dall'ECA per assistenza sfollati dall'Africa Italiana
 Archivio Storico della Città di Torino (ASCT), fondo Ente Comunale di Assistenza Cartella 1114, Fascicolo 3, Campo profughi Casermette: relazioni 1944-1955
 Archivio di Stato di Novara (ASN), fondo Prefettura, Affari Generali, Busta 358, fascicolo 37, CRP Statistiche 1947-1953
 Archivio di Stato di Vercelli (ASVc), fondo Ufficio Provinciale di Assistenza Postbellica, Mazzo 33, Fascicolo 6, Miscellanea sui profughi, 1946-1951

Riferimenti bibliografici

 A. Anetra, B. Boniciolli, F. Calamia, G. Gatti, Corso Alessandria 62. La storia e le immagini del Campo profughi di Tortona, Microart's Edizioni, Tortona, 1996
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1943, Città di Torino, Torino, 1943
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1946, Città di Torino, Torino, 1946
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1947, Città di Torino, Torino, 1947
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1948, Città di Torino, Torino, 1948
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1949, Città di Torino, Torino, 1949
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1950, Città di Torino, Torino, 1950
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1951, Città di Torino, Torino, 1951
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1952, Città di Torino, Torino, 1952
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1953, Città di Torino, Torino, 1953
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1954, Città di Torino, Torino, 1954
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1955, Città di Torino, Torino, 1955
 Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1956, Città di Torino, Torino, 1956
 A. Del Boca, Gli italiani in Libia. II. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza Roma-Bari, 1991
 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale vol. IV, Mondadori, Milano, 1996
 G. Esposito, Profughi e rimpatriati in terra di Bari, in G. Esposito, V.A. Leuzzi (a cura di), Terra di Frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. 1943-1954, Progedit, Bari, 1998
 G. Esposito, V. A. Leuzzi (a cura di), La Puglia dell'accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari, 2005

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