"Son passati i due camion alleati per le vie di Pinerolo e, pur senza iscrizioni, tutti hanno compreso che si trattava dei profughi di Pola”. Queste parole, pubblicate il 15 febbraio 1947 dal settimanale cattolico pinerolese «L’Eco del Chisone», fotografano l’arrivo dei primi nuclei di giuliano-dalmati che, “guidati da un sacerdote della Pontificia Commissione di Assistenza di Torino”, giungono a Pinerolo “pigiati su due panche” colme di “materassi, viveri, casse e legna”. [«L’Eco del Chisone», 1947] Si tratta, secondo i dati diramati dal prefetto di Torino al Ministero dell’Interno in data 25 marzo 1947, di 13 famiglie, per un totale complessivo di 41 componenti, giunti in città tra l’11 febbraio e il 15 marzo 1947 e sistemati presso due strutture cittadine di proprietà delle suore di San Giuseppe, dal momento che il comune, come afferma una lettera inviata dal sindaco di Pinerolo alla Prefettura di Torino, “data la ben nota penuria di abitazioni”, si trova impossibilitato a mettere a disposizione “locali adatti alla loro sistemazione”. Gli stabili individuati ad ospitare i giuliano dalmati sono quindi l’ Ospedale di San Giuseppe (ex Ospizio di carità), in via Luciano e la Casa Madre delle Suore Giuseppine al civico 38 di via Principi d’Acaja, al centro di alcuni lavori di manutenzione e risistemazione degli ambienti le cui spese, ammontanti a “Lire 155.600”, sono interamente sostenute dal locale Ente Comunale di Assistenza. Una perizia effettuata il 7 luglio 1952 dal Genio Civile di Torino nei locali dell’Ospizio di Carità, evidenzia infatti come l’ECA pinerolese abbia provveduto “all’allestimento di un dormitorio per profughi dalla Venezia Giulia, dividendo un camerone dell’Ospizio di carità, in via Luciano 1, in varie sezioni mediante tramezze di legno”, la cui posa, continua il documento, “fu effettuata dai profughi giuliani che occuparono i locali” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. Un articolo pubblicato sulle pagine de L’Eco del Chisone l’8 marzo 1947 afferma come nello spazio in questione siano stati ricavati “cinque alloggetti, con numero di camere proporzionato ai componenti delle famiglie” [«L’Eco del Chisone», 1947] il cui numero, secondo le informazioni contenute in un documento redatto nel marzo del 1947 dal sindaco di Pinerolo contenente “l’elenco nominativo dei profughi di Pola residenti in Pinerolo dall’11 febbraio 1947 e ricoverati presso l’Ospizio di Carità”, ammonta a nove unità, “per un totale di 31 individui, 19 uomini e 12 donne” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo].
Una situazione differente si viene invece a creare nella Casa Madre delle Suore Giuseppine, che il 3 giugno 1947, per mano della madre superiora, inviano al comune una lettera contenente la richiesta di sgombero dei locali “in via Principi d’Acaja 38, attualmente occupati dai profughi polesi” che, “accolti in un primo tempo”, sono ora chiamati a lasciare la struttura di proprietà delle religiose, bisognose di tali ambienti “per accogliere le nostre suore che nel mese di luglio vengono dai diversi paesi per i santi spirituali esercizi”.[Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. Pochi giorni dopo il primo cittadino informa la madre superiora che il comune ha deciso di provvedere “con la massima sollecitudine” alla risoluzione della questione, provvedendo a “ottenere altri locali da assegnare ai profughi stessi”. Locali che sembrano essere individuati nell’istituto della Ex Casa della Divina Provvidenza, in via Abbadia Alpina, struttura già utilizzata nel corso del recente conflitto mondiale come ricovero per gli sfollati arrivati in città, ed ora messa a disposizione “dell’ECA per l’assistenza ai profughi della Venezia-Giulia” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo], che qui si trovano a vivere in condizioni non del tutto ottimali, come dimostrano ad esempio le parole di Giuseppe S., profugo di Pola, che il 14 gennaio 1949 scrive al presidente dell’Ente Comunale di Assistenza una lettera nella quale denuncia “l’eccessiva umidità del locale in Abbadia Alpina” che, secondo quanto affermato dal profugo, “si trova in pietose condizioni” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. La permanenza dei giuliano-dalmati all’interno di queste strutture durerà fino alla prima metà degli anni Cinquanta quando anche sul territorio pineroloese faranno la loro comparsa alcune abitazioni di carattere popolare edificate direttamente dallo stato o da aziende locali come la RIV, all’interno delle quali i giuliano-dalmati troveranno una definitiva ed adeguata sistemazione.
Contemporaneamente alla sistemazione alloggiativa, le autorità locali devono affrontare le problematiche relative all’assistenza dei giuliano-dalmati, per la quale il 10 febbraio 1947 si costituisce un apposito comitato, il Comitato Profughi Giuliani, che ha come scopo principale quello di portare “l’aiuto immediato ai profughi polesi giunti nella nostra città” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo], supportando in tal senso le attività assistenziali portate avanti dalla Pontificia Commissione di Assistenza, dal Patronato Scolastico, dalle Officine RIV di Villar Perosa (che concedono al Comitato Profughi Giuliani “un congruo numero di materassi e coperte”, indispensabili “per poter far fronte ai bisogni più urgenti del momento” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]) e, soprattutto, dall’ECA, la cui azione si snoda in più direzioni. Infatti, come si intuisce dalla lettura delle carte d’archivio, l’Ente si impegna a corrispondere ai giuliano dalmati un sussidio di “lire 300 giornaliere a ciascun capo famiglia e 200 a ciascun altro componente”, del quale possono godere i profughi “provvisti del certificato di esodo da Pola, che non dispongono di provvidenze particolari e che sostengono direttamente le spese di vitto e alloggio”, e la cui durata “non deve superare un periodo massimo di tre mesi”. Inoltre l’ECA cittadino concede ai profughi l’assistenza sanitaria gratuita (si veda a titolo esemplificativo la situazione di Laura S., una giovane profuga bisognosa di cure e medicinali “le cui spese sono da addebitare a questo Ente Comunale di Assistenza” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]) e provvidenze alimentari, come dimostrano, tra i molti riscontrati, i casi di due famiglie di profughi provenienti da Fiume e da Pola che ricevono dall’Ente dei buoni per il prelievo “di 5 Kg di farina di granoturco" ed altri viveri come "due scatole di carne, cinque scatole di latte condensato, oltre a Lire 300 in buoni alimentari” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. I documenti conservati presso l’Archivio Storico Comunale di Pinerolo, rivelano infine l’esistenza di un’altra pratica assistenziale messa in atto dall’ECA in favore dei giuliano-dalmati: la carta del profugo, e cioè l’istituzione di un documento rivolto “agli esercenti e alle ditte pinerolesi” arrecante la richiesta dell’Ente di favorire, “nel limite del possibile”, ciascun profugo giuliano dalmata nell’acquisto “di quanto possa aver bisogno per la sua sistemazione nella nostra città”. [Archivio Storico Comunale di Pinerolo].
Come accaduto in altre realtà della penisola, anche il contesto pinerolese presenta sul piano lavorativo uno scenario nel quale le iniziali occupazioni precarie e di fortuna svolte dai giuliano-dalmati subito dopo il loro arrivo, sembrano lasciare spazio a una sistemazione lavorativa che, in molti casi, avviene con l’ingresso nei reparti delle principali industrie della zona. Affermazione che sembra essere avvalorata dalle parole dello stesso prefetto di Torino che mediante un telegramma datato 25 marzo 1947, informa il Ministero dell’Interno come a Pinerolo siano stati avviati al lavoro quattro capi famiglia, due presso la Società Talco e Grafite e due presso il cotonificio Turati”, mentre altri sono “in via di sistemazione presso Aziende Cittadine” [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. Una sistemazione che, qui come altrove, sembra passare attraverso una fitta rette di conoscenze e raccomandazioni, come dimostra ad esempio la vicenda di Luigi C., profugo da Umago, a favore del quale il 14 agosto 1947 il presidente dell'ECA di Pinerolo intercede presso le Officine RIV di Villar Perosa, pregando la direzione di provvedere “a una sua eventuale assunzione”, dopo averla informata che il profugo in oggetto “necessita di una urgente sistemazione in quanto le condizioni economiche della sua famiglia sono disagiate" [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]. Una prassi che sembra essere utilizzata anche per l’assunzione in altre realtà industriali della zona: si legga in proposito una corrispondenza datata 4 luglio 1947 intercorsa tra la direzione del Cotonificio Widemann di San Germano Chisone e il presidente dell’ECA di Pinerolo. Nella lettera la direzione dell’azienda informa il presidente dell’Ente circa l’impossibilità di "poter subito aderire alla domanda di lavoro per il profugo da Pola Vincenzo L., in quanto che non abbiamo un posto disponibile". La direzione, si legge nel documento, si impegna comunque in favore del profugo in oggetto, chiedendo allo stesso presidente di tenerla informata sull’evolversi della situazione ed affermando che, “qualora il raccomandato non trovasse sistemazione altrove, si presenti tra venti- venticinque giorni e vedremo se, nel frattempo, si sarà reso un posto vacante". [Archivio Storico Comunale di Pinerolo]
Testimonianze
Che poi le case le ha fatte anche la RIV, e lì sono ad esempio andati i V. e gli I. Case RIV perché si vede che c’era un unione e han cominciato a dire: sti sfollati mettiamoli a posto, non è mica colpa loro! Mio padre è stato poi sfortunato, se no magari anche noi andavamo lì alle case popolari. Poi però han fatto questa ed è andata bene questa!
Franco D.
[A Pinerolo hanno costruito le case per i profughi], in via Duca d’Aosta. Ma noi siamo andati via per ultimi [rispetto agli altri], nel ’56 [anche perché ] mio padre non aveva fatto domanda, perché lui era stato assunto alla Piemonte Centrale Elettrica, la PCE, un bellissimo posto, e gli avevano ventilato che gli avrebbero fatto le case. E invece i nostri compaesani han trovato subito una casa, e invece noi fino [non l’abbiamo trovata fino] al ’56, [perché fino al ‘56] la PCE non ha fatto quelle case e ci siamo iscritti per le case popolari, queste, la ACP e ci è andata bene. Ma non è che ce le hanno date le case, le abbiamo prese a riscatto, come gli altri.
Bruno D.
Eh si, questo era l’andazzo! Lavoravo in una fabbrichetta.
Franco D.
Andava su e giù con i treni, ma non quelli che ci sono adesso, quelli fatti come un carro bestiame: salivano su e si erano fatti quegli sgabellini [di legno] con la tela che aprivano e si sedevano lì. Carri bestiame!
Bruno D.
[All’inizio si campava] col sussidio e poi con sti lavoretti, ma non da ingrassarti! Perché nessuno... Io mi ricordo che mio papà mi diceva che andava a chiedere, perché lui non stava [con le mani in mano] non era il tipo mio papà e neanche gli altri dei nostri, non erano i tipi da star lì ad aspettare che cosa, la mela?! Allora Fiat e RIV non ti assumevano, perché non sapevano chi eri, e Pinerolo non ti dava la residenza. Pinerolo non ti dava la residenza, mio papà andava a lavorare, facevi due o tre giorni, chiedeva la residenza ma Pinerolo non te la dava. Mio papà andava a fare l’elettricista dove poteva [e gli dicevano]: quanto vuoi? Eh, dammi quello che vuoi, non pretendeva niente. Dopo qualche anno, perché prima non ti assumevano, non eri italiano, hanno cominciato ad assumere... Nel ’52, che questa è una data che ce l’ho qui, perché sono andato a lavorare anche io nel ’52, a quattordici anni, ma non qui, a Torino.
Franco D.
Le suore ci hanno aiutato, in tutti i sensi: se le nostre mamme avevano bisogno ad esempio delle cose di casa, perché siamo arrivati e avevamo solo i letti e i materassi, [ma] pentole, coperte e tutte quelle cose lì terra terra, giorno giorno, andavamo a chiedergliele alla suore che se non le avevano ci dicevano dove andarle a prendere. Venivano due otre volte al giorno giù da noi, e prendevano sto saccone dell’immondizia e lo portavano via, mandavano il giardiniere [a sistemare], pulivano sempre... No, no, ci hanno sempre aiutato. I bambini si ammalavano? E loro venivano a farci le punture: no, no, per carità, le suore ci hanno aiutato. E veniva, ogni tanto, [anche] il vescovo a trovarci, che mi ricordo che ci dava la medaglietta. E noi eravamo diventati talmente suore.... E poi, a cento metri, c’erano anche le suore di clausura, e venivano sovente su i preti a confessare le une e le altre e noi, automaticamente, [dicevamo] sia lodato Gesù Cristo! Eravamo, come dire, di chiesa e di suore! Comunque le suore ci hanno sempre aiutato: non ci hanno mai rinfacciato niente, di andare via, di darci da fare... Noi siamo stati lì fino al ’56, quindi otto anni. Poi mi ricordo [che] sono arrivati anche i vestiti. Mi ricordo sti pacchi che portavano, non so chi, attraverso la chiesa, dall’America. Per i bambini e anche per i grandi. Ma non tante volte, saran venuti una volta o due. E poi, come diceva mio fratello, si andava nel negozio di alimentari segnavi, segnavi, segnavi e a fine mese si pagava. Si andava dal sarto, il famoso C., ma dopo diversi anni, perché si diventava grandi, e allora non c’erano come adesso [i negozi] che lei va a comprarsi i pantaloni, bisognava farli e si andava dal sarto. Mio papà, ad esempio, lavorava alla Piemonte Centrale Elettrica, e alla befana ci davano i pacchi per i bambini. Poi i pali della luce che erano tutti di legno e li hanno tagliati per metterli in cemento, sti pali, a chi voleva tra i dipendenti, ce li portavano fino là con i camion e noi li portavamo dentro nel cortile e li segavamo per far legna. Tra una cosa e l’altra ci hanno aiutati!
Bruno D.
Insomma, lasciamo stare le elementari che più o meno è andata bene, io mi ricordo l’avviamento che i professori... Ad esempio il francese... Il professore mi diceva: ignorante! Ma vaglielo a dire che non capisco quando mi parli in francese! Sempre tre, tre, tre! Son quelle cose che te la prendi con tutti, dopo. Io finito l’avviamento basta, sono andato a lavorare e [di] studiare mi è passata la voglia.
Franco D.
Io a scuola mi sono trovato malissimo, Perché non capivo una mazza! A un certo punto a Pola andavamo a scuola italiana, però, e non so come, io a inserirmi qui [ho avuto difficoltà]: fino alla quarta non ero io a scuola. Mi ricordo che gentilmente, ti chiedevano perché noi avevamo portato [dietro] qualche pagella, e non so più se della prima o della seconda, con quello che avevamo fatto. Poi [gli insegnanti] chiedevano ai nostri genitori: ma il fatto di controllare psicologicamente questo bambino che è arrivato dopo un viaggio da un’altra terra e in che stato si trovava, non esisteva. [Il] pensare a come [si trovava] sto bambino non c’era. Cioè, no si preoccupavano, se non capivi, di insistere, ti dicevano via! L’inserimento con gli altri bambini [non è stato duro], perché insomma, con gli altri bambini si giocava, ma a scuola [è andata] male. Che poi io avevo un maestro che mi diceva sempre: tu c’hai il chiodo in testa come i tedeschi! Me lo diceva sempre, sempre! Io me la ricordo sta frase! Una volta durante l’ora di storia, si è parlato di Nazario Sauro, che è stato impiccato a Pola. E si son girati tutti verso di me, come se l’avessi impiccato io. Per darle un’idea!
Bruno D.
Che gli rubavamo il lavoro... Eh si, ce lo rinfacciavano sovente, me lo ricordo. Sia [per il lavoro], ma anche per le case. Ma io penso che sono quelle polemiche che si sentono dappertutto in Italia, anche per i meridionali che son venuti su. La stessa cosa che è successa coi meridionali: gli portavamo via il lavoro, gli portavamo via le case. Ma io per la casa non è che gli do ragione, perché non hanno provato ad essere profugo. Però, sai, si vedono arrivare un altro...
Bruno D.
Da bambini, mi ricordo le prime volte che siamo usciti in strada per vedere dove eravamo, e c’erano altri bambini, e dopo non dico il primo [giorno] ma il terzo o il quarto si giocava già: come ti chiami, chi sei? Poi non parlavano nemmeno l’italiano qui eh! Parlavano piemontese, piemontese. Noi il picio e la picia è il bambino e la bambina. Dire quando siamo arrivati noi non è che era tanto, eh! Solo per fare piccoli esempi, terra, terra.
Bruno D.
Noi qui fino a un certo punto non eravamo italiani! Ci è andato qualche anno: infatti noi qui eravamo i polacchi e i fascisti, ci trattavano così, dicevano che quelli che venivano da là [dall’Istria] eran fascisti, che avevano piantato casino, [dicevano] cosa siete venuti qui?! Queste cose le sentivamo noi da bambini, poi da grandi [è andata meglio], però in quel periodo, [sentirci dire] fascisti era fisso, perché i grandi pensavano che noi eravamo tutti fascisti. No i bambini eh, i grandi. E i polacchi [cioè ci chiamavano polacchi] sai il perchè? Perché erano venuti tanti sfollati polacchi che erano ex prigionieri, e si erano fermati a Porte. La famosa fabbrica di talco e graffite, la Val Chisone, che si chiama adesso ma anche allora, era piena di polacchi nelle miniere. E allora anche noi siamo arrivati insieme a loro ed eravamo tutti polacchi per la gente qui. Che ne sapeva la gente qui! Poi ti facevi amico con le famiglie e parlavi: guarda che io son questo, son quello, son quell’altro... Però poi abbiamo incontrato dei negozianti che ci aiutavano. Infatti io non do la colpa [a nessuno], però voglio dire che il panettiere, il macellaio e gli alimentari avevamo il libretto, e bisogna ringraziarli, dio bono! Eh si, si andava a comprare col libretto, venti lire, dieci lire...
Franco D.
Noi siamo arrivati in via Principi d’Acaja, [che era] una piccola clinica, un ospedale delle suore. [Altri però li hanno mandati] vicino a San Giuseppe: lì [c’erano] i V., i M., i Ze. , e i Z. [Altri li hanno poi mandati] anche ad Abbadia Alpina, che lì c’era i S..
Bruno D.
Ci hanno dirottato qui [a Pinerolo], perché alle Casermette era pieno. E noi siamo arrivati dove le stavo dicendo, al convento delle Giuseppine, in via Principi d’Acaja, che era un piccolo ospedale del convento, e ce l’hanno dato a noi. Quattro famiglie: D. [la nostra] i Cr., i C. e i P.. C’era questo ospedale fatto a U, con la ringhiera, e giù al pian terreno c’era un cortile. Sopra, al primo piano, hanno accolto i C. [in] una stanzetta, più piccola di questa [dove stiamo facendo l’intervista], un buco. I Cr, che insomma erano sempre lì che sgomitavano, perché erano papà, mamma e due figli già maggiorenni, uno aveva già addirittura fatto il marinaio, si sono presi il posto più bello, anche perché avevano la toilette dentro. [Era] uno stanzone grande. Poi, sempre a quel piano lì, c’era il P. che aveva una stanzetta piccolissima. Noi quattro [eravamo] sotto, due stanze, non male. Però era umido, umido: queste costruzioni piemontesi di una volta, tutto umido, [con la ] la muffa. Non era male, però mia mamma si è poi ammalata.
Bruno D.
Non sapevamo nemmeno dov’era Pinerolo: vedevamo queste montagne, e non le dico come siamo arrivati, una cosa allucinante! Un camion americano, il Dodge, col telone e noi dietro, un freddo che non le dico! L’unica cosa, per vedere ogni tanto, perché non potevi chiedere niente, tirava tutto dritto! C’era un finestrino e quello che guardava ci diceva siamo qua, siamo là... Noi siamo stati accolti su alle Giuseppine, a San Maurizio. Per arrivare lì, sono passati da una salita tremenda. Con la neve, questo Dodge slittava di qua e di là, e arrivato su doveva poi scendere per cento metri, per una via che si chiama via Principi d’Acaja. E le nostre mamme, io me le ricordo, che dicevano ma dove ei ne porta, dove ei ne porta! E piangevano!
Bruno D.
Quanto siamo stati [alle Casermette] non mi ricordo, ma un giorno noi eravamo lì che si giocava, arriva tanta gente e arriva uno vestito di rosso, era poi un vescovo. Arrivano i carabinieri, i preti neri, i militari e sto qui in rosso. Era poi il vescovo di Pinerolo, Binaschi. Mai visto un vescovo noi, neanche laggiù [a Pola]. Noi eravam bambini, i preti li vedevamo, si andava in chiesa, però [un vescovo non lo avevamo mai visto]. Comunque, vedo la scena e noi tutti a scappare. E mi ricordo che sono andato da mamma e lei mi dice, cosa c’è? Mamma, c’è i rossi! Ma che rossi? Eh, c’è uno vestito da rosso! Ma no, stai bravo, stai bravo, è un vescovo! Ed era sto famoso Binaschi di Pinerolo, che è venuto a Torino, ha radunato tutti i capi famiglia e gli ha fatto un certo discorso: io posso accogliervi e sistemarvi non qui ma in delle case disponibili per tot persone, dieci famiglie, boh, non so. Chi vuol venire si faccia avanti. E allora papà ha detto io vengo.
Franco D.
...giungono anche a Pinerolo, «L'Eco del Chisone», 15 febbraio 1947 [
Leggi l'articolo completo]
I profughi giuliani, «L'Eco del Chisone», 8 marzo 1947 [
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• Archivio Storico Comunale di Pinerolo, Fondo Ente Comunale di Assistenza, Faldone 175, Pratiche individuali profughi Giuliani, Briga, Tenda e Albania, 1946-1954.
• Archivio Storico Comunale di Pinerolo, Fondo Ente Comunale di Assistenza, Faldone 258, fascicolo 10, Comitato e spese sistemazione per profughi giuliani.