[Siamo partiti] il 30 di ottobre del 1944. Tu sai che il 31 ottobre sono venuti i partigiani e han preso possesso di Zara, e noi siamo partiti il giorno prima. Quindi, si sapeva già tutto, le autorità sapevano perfettamente i movimenti. Non c’era il satellitare quella volta, ma conoscevano tutto! E allora noi siamo partiti con questa nave tedesca che era accompagnata da due o tre Mas e da degli zatteroni; era proprio una flotta che se andava da Zara. [Noi eravamo] l’unica famiglia [di] civili; poi c’erano le autorità, però civili eravamo noi. E tanti carabinieri son rimasti in città. Carabinieri che poi son stati fucilati: quaranta - cinquanta carabinieri mi sembra a Zara, dopo il 31 di ottobre. E invece quelli della milizia sono andati via con la prefettura: il governo della città se ne andava, invece i carabinieri erano quelli che dovevano mantenere fino all’ultimo il territorio. Non ho capito perché son rimasti, comunque... Ci siamo imbarcati e siamo stati coccolati dai tedeschi: venivano continuamente giù. Sai, penso che a casa tutti avevano lasciato dei figli, dei fratelli e [vedere] tutti sti bambini dentro... Poi la marina tedesca penso fosse come l’esercito: era tutta gente che aveva famiglia, quindi non avevano questo odio e questo astio. Penso che siano andati in guerra - tutti quanti - perché dovevano andare in guerra, perché se no andavano a casa loro. E quindi era già buio quando siamo andati, e siamo arrivati davanti a Pago. E davanti a Pago ci han cominciato a sparare, gli slavi: c’erano le batterie slave e han cominciato a sparare. Han visto le luci e poi sapevano il movimento che c’era, magari pensavano che c’eran dei prigionieri, non so. Comunque han cominciato a sparare, e dalla nave han cominciato a rispondere, a sparare. E’ venuto giù il capocannoniere - mi ricordo -, ci ha portato dei salvagenti e dice: voi state tranquilli, se succede qualche cosa i primi ad essere salvati siete voi. Insomma, ci ha dato conforto. E’ stato lì e ha detto: adesso passerà un Mas intorno alla nave, butterà un fumogeno e così poi noi andiamo via. Perché , si vede, che le batterie non arrivavano lontano anche perché loro si tenevano a una certa distanza, e poi sai, di notte non c’era il pericolo dei sottomarini, perché i sottomarini non c’era tutti gli aggeggi che ci sono oggi come il radar, il sonor e una cosa e l’altra. Insomma, è successo così, siamo passati e siamo arrivati a Fiume. Siamo arrivati a Fiume, ci hanno sbarcato e ci hanno ospitato in una caserma di tedeschi, una caserma della milizia. Baracche di legno e, per il momento, ci hanno messo là. Quindi noi, insomma, stavamo bene, perché finché eravamo in caserma da mangiare ce lo davano loro, e quindi noi non abbiamo sofferto la fame. Magari chi era in città - i cittadini - tribolava per trovare da mangiare, ma noi no. E poi ci hanno trovato una casa. Ci hanno portato in via XXX Ottobre e ci han detto: questa è casa vostra. Quella volta [non ci ho fatto caso], ma poi mi son reso conto. Dicevano: è casa di ebrei che son scappati via. Dopo ho collegato! La casa era ammobiliata, c’era tutto. E ci han detto: questa è casa vostra per sempre. Magari pensavano: questi qui non torneranno più e noi vinceremo la guerra... E siamo stati là, e lì a Fiume siamo stati parecchi mesi. Mio padre, dove stava la caserma si chiamava Scoglieto che era proprio sotto la montagna, dove c’è la Fiumara, il fiume che entra dentro la montagna e sopra c’è Susak. C’è questo fiume e sopra questo fiume c’era un muretto, dove io e mio fratello Sergio andavamo sempre a giocare. Eravamo vicini alla caserma e poi, qualche volta, andavamo a mangiare da mio padre. E si andava su per la montagna, a giocare. E un giorno abbiamo visto due aeroplani che passavano sopra, così. Allora noi li abbiamo guardati e abbiamo visto che uno aveva fatto il giro e tornava indietro. E io ho detto a mio fratello: questo qui verrà mica a spararci addosso? Mettiamoci dietro - mi è venuto per istinto - che c’era un roccione. Ci siamo messi dietro, e questo disgraziato ci ha sparato addosso! Ci ha sparato addosso! E’ vero eh! Poi è arrivato un giorno... E lì abbiamo subito altri bombardamenti - quei cinquantaquattro che avevo subito a Zara non erano sufficienti -, quindi a Fiume altri bombardamenti! Noi stavamo proprio sopra il rifugio, facevamo una scalinata e c’era il rifugio del municipio; però a Fiume c’era dei rifugi che potevi stare dentro mentre bombardavano. Erano tutti scavati sotto la roccia, colava acqua, [c’era] umidità, però lì si faceva la vita normale: dovevi convivere! Tutte le cose brutte, dopo un po’ ti abitui e diventa una vita normale. E lì [a Fiume] siamo stati fino a marzo-aprile, anzi, fino a fine marzo del ’45. Mi ricordo che poi lì c’è stata la nave che è andata a Trieste ed è stata bombardata ed è stata affondata, [era] quella nave che ci aveva portato a noi. Poi mi sembra anche nel ’45 il prefetto è stato fatto prigioniero; insomma, quelle storie.... Noi ci hanno caricato sui camion e abbiamo lasciato la casa così come l’avevamo trovata. L’unica cosa che abbiamo portato via dalla casa - che potevamo portare via tutto - è stata una seggiolina piccola di paglia. Perché avevo una sorellina piccolina che nel ’45 avrà avuto quattro - cinque anni, e lei era sempre seduta su questa seggiolina e non voleva andare via senza seggiolina. E allora abbiamo preso questa seggiolina e l’abbiam portata via. Cioè, abbiamo lasciato tutto, anche se avevamo già lasciato tutto a casa nostra! Però, diciamo che a Fiume in quei cinque - sei mesi che siamo stati, ti sei fatto degli amici, perché i ragazzi trovano [delle amicizie]. E io poi dopo ci ho pensato: non subito, ma dopo, quando ho finito tutti i campi profughi, e ho pensato: a Zara ho lasciato degli amici e delle cose, a Fiume ho lasciato degli amici, e tutte queste cose ti aiutano a crescere e ti formano un carattere diverso da quello che magari avresti avuto. Ti formano o ti sformano, dipende da come vanno le cose. Quindi poi siamo andati per Trieste su due camion militari: siamo arrivati a un certo punto della strada in mezzo al bosco, i camion si son fermati e gli uomini sono scesi, perché erano militari e non potevano passare. I partigiani conoscevano, sapevano tutto, e se passavano anche i militari avrebbero fermato i camion, avrebbero sparato. E gli uomini, sapendolo, si son fermati e non potevano venire a Trieste e son rimasti nella provincia di Fiume. Noi invece siamo passati, non è successo niente, e siamo arrivati a Trieste. Siamo arrivati a Trieste e ci han messo in una scuola, alla scuola Cambler - me lo ricordo sempre -, una scuola che era sopra Trieste.
Antonio V.