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Partenze da Zara

Il lungo esodo della popolazione italiana vive la sua prima stagione mentre i fragori della guerra sono ancora in corso, e ha come teatro la città dalmata di Zara, vera e propria enclave italiana in territorio jugoslavo.

Le vicende di Zara rappresentano una significativa eccezione rispetto a quanto accadrà negli anni successivi nei territori dell'Istria e della Venezia Giulia, dal momento che la spinta alla partenza è data dai cinquantaquattro bombardamenti dell'aviazione alleata che tra il 2 novembre 1943 e il 31 ottobre 1944 scaricano quasi ininterrottamente sulla città 584 tonnellate di bombe, causando la distruzione dell'85% delle abitazioni e la morte di circa 2.000 abitanti. Il peso e i disagi provocati dai bombardamenti, ai quali si aggiunge,il 24 maggio 1944, l'ordine di sfollamento impartito dal comando di piazza tedesco, spingono gli zaratini a intraprendere uno «sfollamento senza ritorno che si trasforma in esilio» [R. Pupo, 2000]. Gran parte della popolazione decide così di sfollare inizialmente nelle campagne circostanti, per poi spingersi verso mete più lontane come Trieste, Venezia e le regioni al di là dell'Adriatico. Chi trova rifugio nei dintorni, lascia la città già nell'ottobre del 1944, e cioè subito dopo l'arrivo dei partigiani di Tito. A Zara resta così una minima parte di popolazione, che si trova ad essere testimone dell'instaurazione del potere jugoslavo, il cui avvento trascina con sé una lunga scia di violenze ed abusi tali da spingere i pochi zaratini rimasti ad abbandonare la città, che subisce un sensibile ridimensionamento del numero di abitanti passati dai 21.372 del 1940, ai 10.000 del 1944, 7.000 dei quali arrivati nell'ottobre, e cioè subito dopo l'ingresso in città delle formazioni partigiane croate.

Le vicende di Zara si portano dietro un allarmante interrogativo riguardante l'accanimento dei bombardieri alleati nei confronti di un centro di così piccole dimensioni, peraltro privo di rilevanti obiettivi strategici. Una condotta che sembra sfuggire alle logiche militari e che secondo studi recenti trova una sua collocazione nel quadro più ampio delle iniziative di «diversione strategica» attuate dagli Alleati «per ingannare i tedeschi circa le loro autentiche intenzioni» [R. Pupo, 2005]. Fin dal periodo bellico, si diffonde così tra la popolazione italiana il sospetto che tale accanimento sia in realtà dovuto a una precisa richiesta del movimento di liberazione jugoslavo che, gonfiando la portata bellica dell'obiettivo, avrebbe sollecitato l'intervento alleato con il chiaro intento di eliminare «l'unico centro urbano completamente italiano sulla costa dalmata» [R. Pupo. R. Spezzali, 2003]. Un dubbio che nonostante si sia ben presto tramutato in certezza negli ambienti legati agli esuli giuliano-dalmati, sembra però destinato a rimanere tale, dal momento che, allo stato attuale, non si può contare sul supporto di una documentazione in grado di fornire una precisa ricostruzione storiografica dei passaggi che hanno portato all'elaborazione del processo decisionale alleato.

Testimonianze

Partenze da Zara

“[Subito dopo la guerra, Zara era] tutta distrutta. Noi poi ogni esodo andavamo alla riva, tutti. ... [Leggi tutto]
“[Subito dopo la guerra, Zara era] tutta distrutta. Noi poi ogni esodo andavamo alla riva, tutti. C’era tanta tristezza a veder sta gente con sti pochi bagagli, con queste valige scarse che partiva, e tutti piangevamo ed eravamo tutti tristi. Questo mi ricordo: delle grandi navi [con la gente che diceva] ciao, ci vediamo. Era triste. Ogni giorno, ogni settimana partivano.
Alma M.
Niente, niente, non ci siam portati niente, neanche le cose più indispensabili. Non abbiamo avuto ... [Leggi tutto]
Niente, niente, non ci siam portati niente, neanche le cose più indispensabili. Non abbiamo avuto il tempo, perché abbiam dovuto correre, perché era l’ultima nave in partenza dal porto di Zara - siccome poi entravano i titini - per Fiume e poi doveva riandare a Zara. E siamo andati al porto a piedi, così, col fagottino che aveva mia madre. La nave ci aspettava dall’altra parte perché nel porto c’eran navi bombardate e si partiva da dove si poteva, dal molo che si poteva. E c’era, appunto, una torpediniera tedesca, piena di tedeschi, gli unici civili eravamo noi e questo Franz, amico di mio padre, ci ha fatto sto favore. Ci ha portato lui lì. Ricordo che Zara è questa penisoletta, da una parte c’era il porto e poi c’era la darsena e c’era un ponte che era stato abbattuto, bombardato. C’era poi un mezzo molo che andava verso il mare, dove attraccavano anche le navi e c’era il passaggio per la darsena. Bisognava prendere la barca perché siccome il ponte era stato distrutto, bisognava fare tutto il giro fino in fondo, Valdichisi si chiamava, e quindi siamo andati con la barca, che ci ha aspettato un militare italiano perché [sulla nave] c’erano anche militari italiani. Poi ho scoperto che oltre a noi civili c’era anche Serentino, il prefetto di Zara, che, per la storia, ha proseguito poi per Trieste - perché la sua destinazione era Trieste - ed è stato catturato dai partigiani e consegnato agli slavi dove nel ’47 è stato poi fucilato. Queste sono le porcherie che si facevano! Fucilato a Sebenico. Sebenico o Dubrovnik, non mi ricordo, una di queste due città, comunque. E’ stato fucilato; insomma, mi sembra una porcata. Dovete condannare? Va bene, tenete voi. Nel ’47, eravamo già avanti, no? Dopo due anni, insomma, è stato grave. Ed era un momento nel quale tra noi e la Jugoslavia non c’era molta simpatia. Già da subito, perché è chiaro, Tito tirava l’acqua al suo mulino e noi abbiam tirato l’acqua al suo. Il partito comunista di Trieste ha tirato l’acqua al mulino di Tito, purtroppo.
Sergio V.
[Siamo partiti] il 30 di ottobre del 1944. Tu sai che il 31 ottobre sono venuti i partigiani e han ... [Leggi tutto]
[Siamo partiti] il 30 di ottobre del 1944. Tu sai che il 31 ottobre sono venuti i partigiani e han preso possesso di Zara, e noi siamo partiti il giorno prima. Quindi, si sapeva già tutto, le autorità sapevano perfettamente i movimenti. Non c’era il satellitare quella volta, ma conoscevano tutto! E allora noi siamo partiti con questa nave tedesca che era accompagnata da due o tre Mas e da degli zatteroni; era proprio una flotta che se andava da Zara. [Noi eravamo] l’unica famiglia [di] civili; poi c’erano le autorità, però civili eravamo noi. E tanti carabinieri son rimasti in città. Carabinieri che poi son stati fucilati: quaranta - cinquanta carabinieri mi sembra a Zara, dopo il 31 di ottobre. E invece quelli della milizia sono andati via con la prefettura: il governo della città se ne andava, invece i carabinieri erano quelli che dovevano mantenere fino all’ultimo il territorio. Non ho capito perché son rimasti, comunque... Ci siamo imbarcati e siamo stati coccolati dai tedeschi: venivano continuamente giù. Sai, penso che a casa tutti avevano lasciato dei figli, dei fratelli e [vedere] tutti sti bambini dentro... Poi la marina tedesca penso fosse come l’esercito: era tutta gente che aveva famiglia, quindi non avevano questo odio e questo astio. Penso che siano andati in guerra - tutti quanti - perché dovevano andare in guerra, perché se no andavano a casa loro. E quindi era già buio quando siamo andati, e siamo arrivati davanti a Pago. E davanti a Pago ci han cominciato a sparare, gli slavi: c’erano le batterie slave e han cominciato a sparare. Han visto le luci e poi sapevano il movimento che c’era, magari pensavano che c’eran dei prigionieri, non so. Comunque han cominciato a sparare, e dalla nave han cominciato a rispondere, a sparare. E’ venuto giù il capocannoniere - mi ricordo -, ci ha portato dei salvagenti e dice: voi state tranquilli, se succede qualche cosa i primi ad essere salvati siete voi. Insomma, ci ha dato conforto. E’ stato lì e ha detto: adesso passerà un Mas intorno alla nave, butterà un fumogeno e così poi noi andiamo via. Perché , si vede, che le batterie non arrivavano lontano anche perché loro si tenevano a una certa distanza, e poi sai, di notte non c’era il pericolo dei sottomarini, perché i sottomarini non c’era tutti gli aggeggi che ci sono oggi come il radar, il sonor e una cosa e l’altra. Insomma, è successo così, siamo passati e siamo arrivati a Fiume. Siamo arrivati a Fiume, ci hanno sbarcato e ci hanno ospitato in una caserma di tedeschi, una caserma della milizia. Baracche di legno e, per il momento, ci hanno messo là. Quindi noi, insomma, stavamo bene, perché finché eravamo in caserma da mangiare ce lo davano loro, e quindi noi non abbiamo sofferto la fame. Magari chi era in città - i cittadini - tribolava per trovare da mangiare, ma noi no. E poi ci hanno trovato una casa. Ci hanno portato in via XXX Ottobre e ci han detto: questa è casa vostra. Quella volta [non ci ho fatto caso], ma poi mi son reso conto. Dicevano: è casa di ebrei che son scappati via. Dopo ho collegato! La casa era ammobiliata, c’era tutto. E ci han detto: questa è casa vostra per sempre. Magari pensavano: questi qui non torneranno più e noi vinceremo la guerra... E siamo stati là, e lì a Fiume siamo stati parecchi mesi. Mio padre, dove stava la caserma si chiamava Scoglieto che era proprio sotto la montagna, dove c’è la Fiumara, il fiume che entra dentro la montagna e sopra c’è Susak. C’è questo fiume e sopra questo fiume c’era un muretto, dove io e mio fratello Sergio andavamo sempre a giocare. Eravamo vicini alla caserma e poi, qualche volta, andavamo a mangiare da mio padre. E si andava su per la montagna, a giocare. E un giorno abbiamo visto due aeroplani che passavano sopra, così. Allora noi li abbiamo guardati e abbiamo visto che uno aveva fatto il giro e tornava indietro. E io ho detto a mio fratello: questo qui verrà mica a spararci addosso? Mettiamoci dietro - mi è venuto per istinto - che c’era un roccione. Ci siamo messi dietro, e questo disgraziato ci ha sparato addosso! Ci ha sparato addosso! E’ vero eh! Poi è arrivato un giorno... E lì abbiamo subito altri bombardamenti - quei cinquantaquattro che avevo subito a Zara non erano sufficienti -, quindi a Fiume altri bombardamenti! Noi stavamo proprio sopra il rifugio, facevamo una scalinata e c’era il rifugio del municipio; però a Fiume c’era dei rifugi che potevi stare dentro mentre bombardavano. Erano tutti scavati sotto la roccia, colava acqua, [c’era] umidità, però lì si faceva la vita normale: dovevi convivere! Tutte le cose brutte, dopo un po’ ti abitui e diventa una vita normale. E lì [a Fiume] siamo stati fino a marzo-aprile, anzi, fino a fine marzo del ’45. Mi ricordo che poi lì c’è stata la nave che è andata a Trieste ed è stata bombardata ed è stata affondata, [era] quella nave che ci aveva portato a noi. Poi mi sembra anche nel ’45 il prefetto è stato fatto prigioniero; insomma, quelle storie.... Noi ci hanno caricato sui camion e abbiamo lasciato la casa così come l’avevamo trovata. L’unica cosa che abbiamo portato via dalla casa - che potevamo portare via tutto - è stata una seggiolina piccola di paglia. Perché avevo una sorellina piccolina che nel ’45 avrà avuto quattro - cinque anni, e lei era sempre seduta su questa seggiolina e non voleva andare via senza seggiolina. E allora abbiamo preso questa seggiolina e l’abbiam portata via. Cioè, abbiamo lasciato tutto, anche se avevamo già lasciato tutto a casa nostra! Però, diciamo che a Fiume in quei cinque - sei mesi che siamo stati, ti sei fatto degli amici, perché i ragazzi trovano [delle amicizie]. E io poi dopo ci ho pensato: non subito, ma dopo, quando ho finito tutti i campi profughi, e ho pensato: a Zara ho lasciato degli amici e delle cose, a Fiume ho lasciato degli amici, e tutte queste cose ti aiutano a crescere e ti formano un carattere diverso da quello che magari avresti avuto. Ti formano o ti sformano, dipende da come vanno le cose. Quindi poi siamo andati per Trieste su due camion militari: siamo arrivati a un certo punto della strada in mezzo al bosco, i camion si son fermati e gli uomini sono scesi, perché erano militari e non potevano passare. I partigiani conoscevano, sapevano tutto, e se passavano anche i militari avrebbero fermato i camion, avrebbero sparato. E gli uomini, sapendolo, si son fermati e non potevano venire a Trieste e son rimasti nella provincia di Fiume. Noi invece siamo passati, non è successo niente, e siamo arrivati a Trieste. Siamo arrivati a Trieste e ci han messo in una scuola, alla scuola Cambler - me lo ricordo sempre -, una scuola che era sopra Trieste.
Antonio V.
[Zara si stava svuotando], si, perché si sentiva continuamente nei discorsi in casa è andato via ... [Leggi tutto]
[Zara si stava svuotando], si, perché si sentiva continuamente nei discorsi in casa è andato via quello, è andato via l’altro, e c’era la nave che trasportava la gente, il Sansego, che era sempre pieno e poi è stato abbattuto, è stato affondato e quindi si è rallentato un po’ il traffico. Perché eran tutte navi da guerra e quindi... Si capiva questo [svuotamento] e si vedeva anche. Il diradarsi sempre di più, si vedeva poca gente, Zara era diventata una città come Berlino, nel suo piccolo. Morta. Una città morta, un cumulo di macerie.
Sergio V.
Zara era già vuota! Era rimasto non so, qualche centinaia di persone, mille persone. Su ... [Leggi tutto]
Zara era già vuota! Era rimasto non so, qualche centinaia di persone, mille persone. Su ventiduemila, mille persone erano rimaste là, che poi tante sono venute dall’interno, sono venute giù. Noi da Zara abbiamo portato niente: qualche pentola, qualche cosa, le cose personali addosso, ma niente. Come che arrivavano i meridionali con la valigia di cartone, per dire. Quelle cose lì. Siam partiti tutti noi. I miei parenti son rimasti tutti là, salvo un cugino che era da parte di mia madre - di sua zia -, che sono andati a Roma. Ecco, loro si sono italianizzati, perché loro erano tutti L.-ich di cognome. E son diventati L.-uri, e sono andati tutti a Roma: erano madre, padre e cinque o sei fratelli. Italiano per scelta: italiani eravamo prima, parlavamo la lingua italiana e parlavamo slavo, adesso siamo italiani e bazzichiamo ancora qualcosa di slavo, quello che ti è rimasto. Però diciamo che non puoi rinnegare le tue radici, le tue tradizioni e le tue cose, ti rimangono ancora. Mia madre adesso ha centoquattro anni, e parla più slavo adesso che dieci anni fa!
Antonio V.
Io le posso dire questo: che noi eravamo così abituati ad essere bombardati, perché i ... [Leggi tutto]
Io le posso dire questo: che noi eravamo così abituati ad essere bombardati, perché i cinquantaquattro bombardamenti erano bombardamenti a tappeto eseguiti da quaranta bombardieri che bombardavano a tappeto una piccola zona, così, incredibile, ma lì bombardavano tutti i giorni. Tutti i giorni passavano dei ricognitori che mitragliavano e sparavano su tutto. Gli americani sparavano su tutto quello che si muoveva, se ne fregavano che fossero bambini o altro, e poi gettavano spezzoni e roba così, piccole bombette che non facevano paura neanche nei paraschegge provvisori che avevamo costruito. C’era gente che si ficcava dentro a un bidone di quelli del catrame, magari infilato in un muretto; quei muretti che in croato si chiamano muzire, muretti. Fatti di pietre, ricavate dalla bonifica dei campi, perché i campi sono un po’ come il Carso, tutti piene di pietre. E quindi infilavano questi bidoni e si ficcavano lì dentro. Ma se fosse caduta una bomba di una tonnellata certamente non sarebbe rimasta neanche l’ombra di quella persona. Ecco, succedeva questo: quei bombardamenti dei ricognitori e le mitragliate, avvenivano sempre al mattino. Al mattino presto e sempre alla solita ora. Facevano le ricognizioni... E a Zara li chiamavamo le mlekaritze, che erano le lattaie che portavano il latte porta a porta. Le mlekaritze, in croato.
Sergio V.
[Zara] era una città che fumava. Fumante, piena di macerie. Io sono stato durante i ... [Leggi tutto]
[Zara] era una città che fumava. Fumante, piena di macerie. Io sono stato durante i bombardamenti... Perché la città è sfollata, già nel ’43, alla fine del ’43, la gente si era già tutta riversata nelle campagne, nei paesi delle campagne: la gente è andata via, ha cominciato anche a partire. Poi in primavera del ’44 si è svuotata: c’era il Sansego, una nave che faceva scalo a Venezia e Ancona e ha portato via tutti i zaratini. C’era il molo che era pieno di scatolame, era tutto ammucchiato lì e si andava via. E noi eravamo anche pronti ad andarcene via, prima, quando c’era questo esodo da Zara. E mia madre [diceva]: ma no, aspettiamo, non andiamo, forse le cose cambieranno, una cosa e l’altra. Ma mio padre [diceva]: forse è meglio che andiamo, perché qui le cose non è che cambieranno. E allora abbiamo aspettato, aspettato. La città... Noi, durante i bombardamenti, stavamo fuori, ma c’è stata una volta che hanno bombardato anche da noi: c’era le case popolari in costruzione, son passati di là e han bombardato. Io non volevo mai andare via di casa, ero molto attaccato alla casa, [ e dicevo], no, no, io sto qui. E allora io son rimasto a casa, e con mia madre andavamo nel prato e uno che stava lì vicino aveva messo dei fusti di metallo contro il muro, e niente, andavi dentro per ripararti dalle schegge. E io stavo fuori e guardavo: sono arrivati sti apparecchi e han bombardato, e mi ricordo bene come si vedeva come si apriva sto sportello, e ste bombe che venivano giù! E allora da quella volta mio padre ha detto: è meglio che andiamo in città. In città c’era la caserma Vittorio Veneto, che era dove c’è la porta di Terraferma. Se entri dalla porta a sinistra c’è una caserma: adesso non so cosa han fatto, forse una prigione, ma una volta lì c’era la caserma Vittorio Veneto. Quando esci a destra c’è il mare che entra dentro, e si chiamava la fossa. La fossa, lì venivano tutti quei delle isole e portavano le derrate alimentari, l’olio: c’era il mercato, proprio con le barche. E noi lì, logico, si stava nelle cantine: bombardavano - han bombardato la caserma di sopra, han scoperchiato il tetto - e di sotto c’era non so quanta gente. E di sotto, quando bombardavano, si faceva una vita normale: si rideva, si scherzava, si cercava di [vivere normalmente]. E poi quando finiva il bombardamento, noi ragazzi si andava fuori tra le macerie - tutto sto fumo! -, si andava a cercare tra i negozi quello che era rimasto. Nelle farmacie andavamo a prendere le ostie: cioè, non erano ostie, erano come le ostie ma non erano consacrate, e si andava a prendere tutto. [Zara era] una città distrutta: si vedevano le isole da una parte all’altra, perché era tutto a terra. Dalle mura, logico, perché se eri a livello del mare non vedevi niente; ma se eri dalle mura - perché sai che Zara era tutta circondata da mura -, di lì vedevi tutte le isole. Non c’era gente, la gente aveva spopolato, era rimasto solo questo gruppo, [mentre] gli altri erano andati via. Noi siamo stati lì un paio di mesi, e il mangiare ce lo davano. [Infatti] mio padre quando era militare lavorava in cucina, faceva il cuoco - che poi lui ha fatto sempre il cuoco anche dopo, quando eravamo al campo profughi - e quindi il mangiare lì non ci mancava, perché mangiavano i soldati e mangiavamo tutti. Noi poi si andava fuori e non mi sono mai reso conto di quello che stava succedendo, vedevo questa città che si distruggeva. Mi ricordo solo che su una via, che era proprio dove c’era il ponte - che una volta c’era il ponte mobile che si apriva, dove venivano le navi che entravano dentro nel porto - che è stato poi distrutto, mi ricordo che proprio sulla calle che entrava dentro c’era una bomba inesplosa dentro una via. Una bella bomba! E noi ragazzi si correva e si saltava sopra per vedere chi era coraggioso! Mi ricordo queste cose... Cioè, finito il bombardamento noi si correva fuori e si viveva normale, come tutti quelli rimasti in città. Però la città era spopolata: non c’erano negozi, non c’era attività, non c’era vita. Non c’era niente, era morta.
Antonio V.
Noi abitavamo in una zona che si chiamava Bellafusa di Zara, che era a trecento metri dal porto in ... [Leggi tutto]
Noi abitavamo in una zona che si chiamava Bellafusa di Zara, che era a trecento metri dal porto in linea d’aria ma era già in periferia in una città piccola come Zara. Noi eravamo nell’immediata periferia, aggrappati alla città. Lì cascava qualche bomba, ma poca roba, perché loro hanno bombardato soprattutto la città. Zara è stata una città che ha subito un tentativo di cancellazione di italianità, voluta dai nostri, dalle ambizioni di chi stava per conquistare il potere in Italia, d’accordo con le truppe di Tito. E questo è stato gravissimo, perché noi abbiam visto insieme ai Mitchell e a tutti gli altri bombardieri che han bombardato Zara, anche bombardieri italiani. Almeno, nella prima parte si erano rifiutati, poi alcuni son stati minacciati e sono venuti bombardare Zara, son venuti a bombardare i loro fratelli. Abbiamo avuto circa 2.000 morti, 900 tonnellate di bombe e 54 bombardamenti, nel raggio di un chilometro quadrato di territorio. E quindi è stata difficile per tutti, ma lì, veramente abbiam subito. Gli americani, come dire, sono stati inconsapevoli esecutori di questa mattanza, perché venivano informati sia dai nostri partigiani che dai titini diversamente da come stavano le cose. A Zara non ci sono mai stati più di tre - quattrocento tedeschi. Quando è stata conquistata trecento tedeschi, poi il massimo sono arrivati a settecento. Dobbiam fare questo discorso perché è importantissimo per capire. Si diceva che era un grande centro di smistamento, che Zara era un centro di rifornimento per le truppe tedesche. Non è vero niente! Non c’era la ferrovia, non c’erano strade praticabili per mezzi né corazzati, camion e queste cose qui. All’interno non c’era niente, quindi era difficilissimo e rischioso qualsiasi tentativo di rifornire verso l’interno. Il porto era in grado di ospitare qualche nave di piccolo tonnellaggio: le torpediniere che sono sotto le mille tonnellate e basta. Invece cosa aveva Zara che faceva paura a Tito? L’italianità di Zara: illiri prima ancora dei romani, poi i romani e poi quattrocento anni di dominazione veneziana. E questo faceva paura. Lui voleva cancellare proprio l’italianità. E a quei tempi, pur di cancellare il fascismo, c’è chi li ha aiutati. Noi siamo stati - il nostro esercito - in quel periodo i maggiori fornitori di armi, perché Tito aveva pochissimo: era male armato e male organizzato. Ma mentre le nostre truppe insieme ai tedeschi risalivano, gli han mollato - anche i tedeschi - armi e li hanno armati praticamente. Altrimenti li non sarebbero mai riusciti a entrare; si poteva almeno ritardare quella ritirata e trattare qualcosa, insomma. Forse avremmo salvato l’Istria, avremmo salvato magari Pola, non tutto, magari anche Fiume. Zara è difficile, perché è più giù, ma era quella che era considerata la più italiana delle città quella che aveva il marchio di italianità più vistoso.
Sergio V.
Il primo bombardamento che è successo a Zara, che l’han fatto il 2 di novembre del ’43. Il 2 di ... [Leggi tutto]
Il primo bombardamento che è successo a Zara, che l’han fatto il 2 di novembre del ’43. Il 2 di novembre... Cioè, la data. Perché se andiamo a vedere i bombardamenti di Zara, son tutte date vicine alle festività, vicino alle ricorrenze: qualcuno lo faceva proprio con un pensiero macabro! Il 2 di novembre vieni a bombardare di notte, una roba da terrorizzare la gente! Siamo andati poi in un rifugio fuori [Zara], che siamo stati lì, e mi è venuta perfino la febbre a quaranta per la paura. Ma, tutto in una volta, vedere illuminato tutto quanto: noi quella volta eravamo ignoranti di queste cose, si ignorava e dicevamo ma cosa è successo? Il mondo ha preso fuoco. E mio padre che era tornato a casa - che all’epoca era già nella milizia - dice: no, no, tra un po’ arriveranno a bombardare, è meglio che andiamo nei paraschegge. Mezz’ora dopo, nemmeno, hanno bombardato un paio d’ore, c’è stato il primo bombardamento, il primo impatto con la guerra che mi ha lasciato dei segni. Poi dopo tutti gli altri bombardamenti, perché io ne ho subito cinquantaquattro, io sono andato via da Zara il 30 di ottobre 1944, alla fine proprio, ma questo è quello che mi ha lasciato proprio un segno, che mi ha segnato per tutta la vita. Io guarda che fino agli anni Settanta - ero sposato e avevo già due figli -, quando sentivo l’apparecchio che passa sopra i dieci mila metro che fanno quel rumore, mi sembrava le fortezze volanti che arrivavano, e mi veniva di istinto di alzare la testa. Ed è difficile cancellarla dalla testa questa cosa qui, eh! Si, [Zara è stata devastata]:diciamo che vedevi da una parte all’altra della città... Cinquantaquattro volte è stata bombardata tra bombardamenti e mitragliamenti. Eran sempre lì sopra, e non ho capito - forse non ha ancora capito nessuno e forse un giorno si capirà perché questa è materia da studiare e qualcuno lo dirà un giorno o l’altro - perché bombardavano, quale era lo scopo, o se era qualcuno che li dirottava là. Se era politica, che poi abbiamo capito cosa è successo, tagliare fuori l’italianità da quella parte là per avere poi le trattative più vantaggiose e più favorevoli
Antonio V.

Immagini

Zara, il vecchio mercato, 1941
Zara, il vecchio mercato, 1941
Zara, donne della campagna, 1941
Zara, donne della campagna, 1941
Zara, colonna romana, 1941
Zara, colonna romana, 1941
Zara, il porto, 1941
Zara, il porto, 1941

Riferimenti bibliografici

 E. Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano, 1996
 R. Pupo, L’esodo degli italiani da Zara, da Fiume e dall’Istria: un quadro fattuale, in M. Cattaruzza, M. Dogo, R Pupo, Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli, 2000
 R. Pupo, R. Spezzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano, 2003
 R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano, 2005
 O. Talpo, S. Bricic, ...Vennero dal cielo, Libero Comune di Zara in esilio, Campobasso, 2000

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