INTRODUZIONE
Sotto i portici di via Po, lungo le vie e le piazze del centro, ma
anche nelle strade di periferia, da Mirafiori a Madonna di Campagna,
un visitatore non troppo distratto noterà la presenza di numerose
lapidi incastonate nei muri delle case.
Sono lapidi molto semplici di forma uguale: un rettangolo di marmo
grigio porta scolpito al centro un cognome e un nome; spesso, ma non
sempre anche l’indicazione della professione; in alto la dedica
uguale per tutte: “Al martire dell’eterna libertà”;
in basso una fascia di bronzo su cui è incisa la frase: “Caduto
nella lotta di liberazione contro il nazifascismo 1943-1945”.
Sotto la lapide un piccolo vaso in cui la pietà dei familiari,
della popolazione, delle associazioni mette qualche fiore e un fiocco
tricolore in occasione della celebrazione del 25 aprile.
Queste lapidi, apposte dal Comune negli anni immediatamente successivi
alla Liberazione, sono le più numerose. Ne esistono altre, sempre
a cura dell’amministrazione comunale, che raccolgono più nomi
e con tipologie differenti rispetto a quella sopra ricordata. Esistono
nel tessuto cittadino anche altre lapidi, collocate per iniziativa
di soggetti diversi dal Comune, di cui in questo lavoro non ci occuperemo,
anche se in buona parte già censite, perché essendo state
predisposte con criteri molto diversi, avrebbero richiesto per il completamento
dell’indagine un prolungamento della ricerca non compatibile
con i tempi e le risorse disponibili. Speriamo in una fase successiva
di poter completare il lavoro per altro già avviato.
I caduti ricordati dalle lapidi qui censite sono 367. Questo il totale
che siamo riusciti a ricostruire, sapendo che si tratta di una contabilità resa
incerta a cinquanta e più anni di distanza dalle trasformazioni
del tessuto urbano, da qualche vuoto documentario, da vuoti di memoria
che non sono facilmente interpretabili. Per molte ragioni. Ad esempio,
non tutti i caduti della prima fase della lotta resistenziale per motivi
che solo in parte siamo riusciti a chiarire, sono entrati nel computo
finale. Per un altro verso abbiamo potuto constatare che le ristrutturazioni
o la ricostruzioni di stabili o di interi isolati hanno cancellato
anche qualche parte di questa memoria cittadina. In qualche caso si è potuto
ripristinare la lapide, in altri non è stato possibile ed è rimasta
solo qualche traccia di archivio, in altri si è dovuta constatare
la scomparsa di ogni riferimento. Già. L’oblio disgrega
anche le pietre se non c’è una memoria attiva che vigila
e ricompone ciò che il tempo inesorabilmente consuma.
Raccogliendo la richiesta dell’amministrazione comunale e la
sollecitazione personale del sindaco, questo piccolo libro cerca di
dare il suo contributo alla conservazione di questa memoria. Con un
lavoro attento e non facile, grazie ad un lavoro preparatorio svolto
dagli uffici tecnici del Comune e alla piena collaborazione dell’Archivio
storico e dei servizi anagrafici, i nostri ricercatori hanno cercato
di ricomporre l’elenco dei caduti ricordati dalle lapidi, di
determinarne la collocazione nel territorio, di comparare gli elenchi
disponibili e non sempre coincidenti, e soprattutto hanno cercato di
fornire alcuni elementi biografici che integrassero le pochissime informazioni
ricavabili dalle lapidi stesse. Un lavoro questo difficile che ha comportato
l’integrazione di fonti diverse, a cominciare dalla banca dati
che il nostro Istituto con gli altri Istituti della regione ha costruito
sul partigianato piemontese. Le informazioni raccolte sono state anche
confrontate con la letteratura esistente e il tutto è confluito
nelle schede che vengono presentate. Il risultato, ci rendiamo conto,
non è perfetto, o almeno non è quale un ricercatore scrupoloso
vorrebbe che fosse e cioè completo ed esaustivo in ogni sua
parte. Ma come sa chi abbia provato a misurarsi sul piano della ricerca
su temi riguardanti il periodo di cui trattiamo, un margine di incertezza
più o meno ampio è il prezzo che si paga alle insicurezze,
alle fluidità, agli imprevisti di anni pieni di accadimenti
in cui il caso, così come le vite di tanti protagonisti e di
tante comparse, era affidato al gioco imperscrutabile del destino.
Si poteva sparire nel nulla, come in effetti è successo ad alcuni
a cui non siamo riusciti neppure a dare un nome. Oppure in altri casi
non siamo riusciti ad andare oltre i puri dati anagrafici. Malgrado
questi limiti oggettivi, la ricerca, sempre perfettibile se altre fonti
si rendessero disponibili, ci pare che offra al lettore delle cose
interessanti e faccia percepire gli intrecci di destini che arrivano
all’appuntamento con la morte per strade diverse. Così ci
pare interessante la distribuzione sul territorio di questi caduti
per la libertà; abbiamo cercato di rappresentare visivamente
queste densità spaziali e temporali; di ricostruire il profilo
di questi caduti e le situazioni che li hanno portati al passaggio
estremo. Da questo punto di vista sono risultate preziose le inchieste
verbalizzate dai vigili urbani, a cui l’amministrazione comunale
ha affidato l’istruttoria prima della decisione per l’assegnazione
della lapide. Ci sarebbe molto da dire su questi materiali prima di
tutto perché restituiscono informazioni altrimenti perdute,
ma anche perché ci dicono molto sui meccanismi della memoria
dei testimoni che vengono sentiti a non grande distanza dagli eventi.
Il loro coinvolgimento diretto o come testimoni di fatti segnati dal
dramma lasciano a volte segni indelebili nella memoria e producono
particolari rappresentazione degli eventi. Più che le morti
di persone che hanno avuto ruoli di rilievo nella lotta partigiana,
e che sono in qualche modo “note” attraverso una memoria
tramandata dal racconto storico o letterario, colpisce ciò che
viene detto della morte, del sacrificio di tanti comprimari, a volte
del tutto casualmente coinvolti, ma non per questo meno degni di essere
ricordati, di essere tolti all’oblio, e collocati in uno spazio
di memoria pubblica. C’è insomma del materiale su cui
riflettere e che la ricerca nell’Archivio comunale ci ha restitutito.
Tra i tanti percorsi possibili vorrei richiamare l’attenzione
sull’avvio del processo che porterà alla decisione da
parte dell’amministrazione comunale del dopo liberazione, quella
guidata dal sindaco Roveda, di ricordare in forma pubblica i caduti
della città.
Come ci dicono le note scritte da Nicola Adduci (a cui va il nostro
ringraziamento per la tenacia e serietà con cui ha condotto
questo lavoro non facile), l’amministrazione comunale, pressata
dai mille problemi che la liberazione e la ricostruzione portano con
sé, in un primo momento è orientata a dare una risposta “tradizionale” di
memoria pubblica predisponendo all’interno del Cimitero generale
della città uno spazio dedicato ai caduti della libertà.
Questa iniziativa però non esaurisce, non può esaurire
una domanda di memoria che esiste dentro il tessuto della città,
con iniziative che avvengono nell’estate e nell’autunno
1945 nelle strade e nelle piazze di Torino per iniziativa di soggetti
diversi: compagni di lotta delle vittime, parenti, amici di borgata
o di fabbrica, organismi politici, associazioni. La pietà popolare
incomincia a segnare il territorio con lapidi di diversa fattura e
natura con una tale intensità che il Comune è costretto
a intervenire di fronte ad un fenomeno diffuso e forse anche un po’ disordinato.
Verrà trovata la formula delle lapidi “uniformate” di
cui si è detto, assumendo su di sé sia la verifica delle
procedure sia l’onere dell’intervento. La soluzione adottata è un
po’ spartana; d’altra parte le casse del Comune non consentivano
di più. È in qualche modo uniformante perché riduce
ad una tipologia unica le diverse soluzioni che spontaneamente erano
state trovate, ma che creavano però problemi di gestione e di
conservazione. Insomma qualcosa si perde della risposta, del bisogno
di memoria che veniva dal basso.
Ma forse ciò che importa rilevare è che non si perde
il riconoscimento ad una memoria distribuita sul territorio: la lapide,
il segno della memoria incastonato nel luogo più vicino al punto
in cui la morte ha colpito, è un segnale forte che rinvia al
significato che quella guerra ha avuto per la popolazione. Una guerra
che è entrata nelle case, che ha colpito dentro le pieghe degli
aggregati sociali, dei quartieri, delle borgate, dei luoghi di lavoro
e che dunque non può essere rappresentata in un solo luogo,
come è avvenuto per le altre guerre, ma che deve riconoscere
e far riconoscere la sua dimensione privata e civile insieme. Il riconoscimento
pubblico nella dimensione del luogo deputato al cordoglio e alla memoria
non è sufficiente a rendere il senso dell’esperienza vissuta
che si pone nell’intersezione, nel punto di sutura tra pubblico
e privato e fa dell’esperienza drammatica del 1943-1945 un qualcosa
di unico, di non assimilabile ad altre esperienze di memoria pubblica
perché non rappresentabile da un solo soggetto politico. Il
Comune, la struttura pubblica più vicina alla popolazione, questo
lo capisce e con il suo intervento interpreta il fenomeno che ha di
fronte e il movimento che l’ha prodotto: un’esperienza
che ha bisogno dei luoghi della memoria, il più vicini possibile
ai luoghi della vita così come è stata la lotta di liberazione.
Claudio Dellavalle
Presidente dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza
e della società contemporanea