Fin dal luglio del 1945 la Caserma Perrone, una struttura di tre piani fuori terra, con "un lato sinistrato a causa della guerra" [ASNo, Fondo Prefettura], è utilizzata, con la denominazione di XVIX AMG Evacuation Camp, come campo destinato al transito di militari, di ex prigionieri di guerra ed ex internati in campo di concentramento e prigionia. La struttura accoglie però anche semplici civili, come gli sfollati dalle regioni dell’Italia del sud, i cittadini italiani allontanati dalla Grecia (Dodecanneso e Rodi), dalle ex colonie italiane dell’Africa (Eritrea, Libia e Tunisia) e quelli provenienti dalla costa dalmata come dimostrano i 79 zaratini presenti nel campo nel luglio del 1945 [P. Lebra, 2003]. Nel campo transitano anche numerosi nuclei di rumeni e di altri profughi provenienti da paesi europei quali il Belgio la Francia la Svizzera e la Germania. Dopo la partenza delle truppe alleate, la Caserma Perrone muta la propria attività: passata sotto il controllo diretto delle autorità civili, si trasforma, nel settembre del 1945, in centro di raccolta destinato esclusivamente ad ospitare profughi civili.
All’interno della struttura gli ospiti alloggiano in trentanove camerate, che presentano una pavimentazione "in parte in piastrelle, e in parte in bitume di catrame" [ASNo, Fondo Prefettura], alle quali si aggiunge un altro locale indipendente in grado di accogliere un massimo di cinque persone. Proprio come gli altri centri di raccolta italiani, anche quello novarese sembra avvolto da un’atmosfera permeata da "un senso di incompleto e provvisorio, da un nudo vivere con lo spazio contato" [«La Voce del Popolo»]. Ne sono una dimostrazione le grandi camerate divise, qui come altrove, in tanti piccoli box: circa centocinquantasette locali di varie dimensioni (camerette e camerate), all’interno dei quali vivono intere famiglie, separate le une dalle altre da coperte e lenzuola sostituite, nel 1950, "da appositi telai separatori" [ASNo, Fondo Prefettura].
Nelle camerate gli assistiti, che hanno a disposizione due coperte nella stagione estiva e cinque in quella invernale, dormono "su letti di ferri e su letti costituiti da cavalletti di ferro ed assicelle (tipo militare), con materassi in cascame di cotone e pagliericci" [ASNo, Fondo Prefettura]. Paglia che, come afferma il direttore sanitario del campo, viene "rinfrescata una volta al mese" e cambiata "ogni volta se ne riscontra la necessità" [ASNo, Fondo Prefettura]. Adiacenti alle camerate, su ogni piano, sono dislocati i servizi igienici, nella misura di "venti gabinetti tipo turca" e di circa sessanta "posti con acqua corrente distinti per uomini e donne" [ASNo, Fondo Prefettura]. A questi si aggiungono gli bagni, "due a dieci posti", ubicati all’interno del cortile, dove sorgono anche due fontane con vasche, lavatoi e circa "quaranta rubinetti" [ASNo, Fondo Prefettura].
Il campo presenta poi al suo interno una vasta gamma di servizi: una chiesa, un asilo nido, (inaugurato nel 1947 e capace di accogliere fino a un massimo di cinquanta bambini), un’infermeria, dotata di trenta posti letto e di locali di isolamento, dove operano due medici (uno funzioni di dirigente, l’altro con le funzioni di medico generico), tre infermiere e un infermiere e una scuola elementare (distaccamento della scuola Rosmini) il cui operato avviene però, come informa un promemoria avente come oggetto "i problemi del Centro Raccolta Profughi di Novara solubili a Roma" redatto nel 1949 da Antonio Nava, direttore del campo, ed inviato all’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, "senza adeguati mezzi ambientali e personale insegnante, determinando una deficienza nell’istruzione dei bambini profughi" ai quali, si legge nel documento, "è stato fatto divieto, per motivi non noti, di frequentare le scuole elementari comunali". [ASNo, Fondo Prefettura]. Accanto a tali servizi si riscontra anche la presenza di alcuni esercizi commerciali (un barbiere, un parrucchiere, uno spaccio di generi alimentari) e di un locale adibito a cucina dimesso nel 1950 quando la gran parte delle famiglie, utilizzando fornelletti a gas, inizia a cucinare autonomamente "negli ampi corridoi antistanti gli alloggi, o nelle stesse camerate". [ASNo, Fondo Prefettura].
Assolutamente carenti appaiono invece gli spazi destinati al tempo libero, visto che la Caserma Perrone non presenta al suo interno locali di svago, biblioteche, spazi ludici per bambini e luoghi di ritrovo per ragazzi e ragazze, a beneficio delle quali è istituito un laboratorio di taglio e cucito, la cui gestione è affidata a due suore appartenenti all’Ordine dell’Immacolata Regina Pacis. Le religiose, oltre ad essere coinvolte nelle attività dell’infermeria, dell’asilo e della cucina, hanno il compito di provvedere, come si legge in una lettera inviata il 24 febbraio 1949 dalla curia vescovile di Novara al direttore del campo, "all’assistenza morale e spirituale delle bambine e delle giovinette", intrattenendole "su conversazioni morali ed insegnare loro il cucito e il ricamo" [ASNo, Fondo Prefettura].
La vita quotidiana all’interno del campo è scandita da una disciplina rigida e da un regolamento ferreo, che prevede una rigorosa regolamentazione degli orari di entrata e di uscita da parte dei funzionari di Pubblica Sicurezza in servizio all’interno della Caserma e continui controlli da parte della direzione e del personale sanitario, impegnato regolarmente ad ispezionare tanto le singole camerate quanto gli spazi comuni (bagni, scale corridoi e cucina) puliti dai profughi stessi secondo turni settimanali. Ciò non impedisce il fiorire di una socialità tra gli abitanti del campo che organizzano manifestazioni sportive (nel centro vi è un campo di calcio sul quale giocano la Società Sportiva Olimpia e la Polisportiva Giuliana, due squadre di calcio che partecipano ai campionati dilettantistici locali) festeggiamenti tipici delle terre di origine (è il caso, ad esempio, delle celebrazioni in onore dei santi Vito e Modesto, patroni di Fiume) nel corso dei quali hanno luogo eventi di vario genere, che vanno dalla gara di bocce al tiro alla fune, dall’ albero della cuccagna alla pignatta. Il tutto condito da serate danzanti che spesso si protraggono fino a tarda notte.
Testimonianze
A Novara, alla Caserma Perrone, siamo stati otto mesi, fino al mese di ottobre. E mi ricordo che ci davano tutti i giorni il riso: riso a mezzogiorno, riso alla sera, e dicevo a mia mamma: mamma, mangia un po' di riso! [Lei rispondeva]: mangia tu figlio mio, che devi crescere! Dopo dieci anni ci ha detto che c'erano i vermi dentro, per quello non lo mangiava. Per noi invece andava tutto bene! Noi eravamo al primo piano, [dove] c'era un lungo corridoio e c'erano tutte le stanze. E siccome le stanze erano molto grandi, secondo le famiglie che c'erano davano le stanze. In una stanza due famiglie, cioè ad esempio quattro o cinque persone. Noi eravamo in dieci: otto figli, perché poi uno dei miei fratelli è nato a Tortona, perché noi siam partiti il 17 di novembre e lui è nato il 17 di agosto. A Novara poi abbiamo incominciato a mettere le coperte e a separare, insomma. Mettevamo le coperte dove le donne andavano a spogliarsi. E poi non c'erano i gabinetti, non c'era niente. Proprio come a Tortona, perché anche a Tortona non c'era niente, non creda mica...Noi a Tortona eravamo in campo profughi giù al pian terreno. Avevamo un camerine grosso, dove c'eravamo solo noi, però;. Solo la mia famiglia. I miei hanno fatto tredici anni in campo profughi, mica un giorno eh! Io nel '53 sono andato via, [ma loro hanno fatto tredici anni]. Noi siamo stati a Novara fino al mese di ottobre del '46. Il 26 di ottobre - o il 24 o il 25 di ottobre - ci hanno caricato di nuovo sul treno e ci hanno mandato a Tortona.
Luigi V.
Avevamo una squadra di calcio che era fortissima, con tantissimi giocatori [bravi]. Solo che poi gli piaceva mangiare e bere, soprattutto bere. C’è stato uno che doveva andare a fare il provino per la Sampdoria e prima di andare è passato a trovare suo fratello, e ha preso la ciucca prima di andare a fare il provino, ma era un fenomeno! Cioè tanti bei giocatori son venuti fuori. Vedi Udovicich, che ha fatto il centro mediano nel Novara, che è fiumano anche lui e ha fatto cinquecento e rotte partite nel Novara!
Giuliano K.
Per noi [bambini] la Caserma Perrone è stata un divertimento, eravamo piccoli, eravamo felici. Però i nostri genitori, sapesse quanto hanno sofferto, son morti di disperazione! Cioè noi avevamo una camera grande come questa, divisa con le coperte e con due famiglie, una parte di qua e una di là. C’erano le docce dei militari, i bagni e i lavandini in comune e avevi il tuo spazio, il tuo fornello che ti facevi da mangiare. [Poi] c’era l’infermeria, c’era la chiesa, [e] c’era il medico, morto poco tempo fa, il dottor Neri.
Giuliano K.
La vita in campo era bella [per i bambini], mentre invece per gli adulti era un’altra cosa. Perché non avevano neanche il bagno: io mi ricordo di una grande stanza con i gabinetti, ma senza porta, aperti. Perché era roba militare, e io non so come facevano ad andare in bagno senza porta, erano aperti. E anche per lavarsi, c’era questo grande stanzone che da una parte c’era le docce, e dall’altra c’era il bagno. Però noi per lavarci [stavamo] sempre in camera, non mi ricordo che mia mamma ci portava a fare la doccia. Scaldava l’acqua nel mastello e ci lavavamo sempre nella bacinella. La doccia no.
Irene V.
La doccia io la facevo una volta al mese, c’era i giorni. Una volta al mese.
Romano V.
Noi che eravamo bambine, mi ricordo le feste. Ma era sempre festa lì alla sera! Bastava che uno aveva la chitarra, si mettevano sotto il portico, suonavano e ballavano sempre. Qui ballavano, quello si. Anche ragazzine, però sempre nel porticato insieme ad altra gente. E cantavano! Eh, quello che mi ricordo io è sentire tanto cantare, ballare e suonare! E poi le famose partite di calcio! Dentro al campo c’era un campo da calcio dove giocavano. Mi ricordo di queste partite che facevano. Che anzi, qualcuno reclamava, perché diceva: guarda, il campo dev’essere per i bambini e vengono qui a giocare! Perché se giocavano la partita non si poteva andare in mezzo, logico! Però queste partite me le ricordo. E poi che giocavamo anche noi nel cortile. Praticamente eravamo sempre fuori noi bambine. O con le suore, o con mia mamma, che lei non lavorava, ha avuto tre figlie subito, una dietro l’altra.
Irene V.
Facevamo le gite al mare, là vicino a Genova a Rapallo, e poi... Ah, a calcio, si! C’era Ludovicich che giocava nel Novara. Vent’anni ha giocato! Prima c’era l’Olimpia, poi [c’]era la Polisportiva Giuliana che han vinto un torneo qua a Novara che era anche famoso. Eh, giocavano a pallone, e anche bene! Però, sai, dopo era solo baldoria quando si vinceva!
Romano V.
All’inizio, proprio, mi ricordo che andavamo in fila a prendere il mangiare, ma mia mamma ha detto che è durato poco quella cosa lì. C’era una cucina nel campo, avevamo quei piatti di latta e andavamo proprio così [in fila] e ci davano da mangiare loro. Ma questo è durato proprio poco per noi. Poi mia mamma ha comperato subito [il fornello] per fare da mangiare e facevano da mangiare loro.
Irene V.
La vita era quella, e poi si cantava e si rideva. Io ero abbastanza grande, andavo a lavare i piatti, cantando, pulendo, lucidando. Eh, abbiamo fatto una vita serena. Per forza o per amore, e dopo ognuno è andato [via], chi di qua e chi di là. Dentro c’era l’ambulatorio del prof. Pisano e del dr. Bellomo, e l’infermiera che è morta... E si portava i bambini in asilo. Avevamo anche la chiesa, che la gente si sposava lì. A una certa ora c’era pace e tranquillità. Se le dico che io sono entrata che avevo il moroso, però poi dopo abbiamo fatto amicizia con fiumani, mai visti, perché loro [a Fiume] erano in collina, e io son del centro storico. E basta, io sono entrata col moroso, perché mio marito, defunto abitava nel piano di fronte [al mio] e allora, prima di andar su ci si salutava ciao, ciao, buonanotte, buonanotte. Poi ci si trovava vicino agli alberi [nel cortile]: è venuta la guardia a dirci a casa! Ma se siamo già, a casa!
Amedea M.
C’era l’asilo nido. Mia mamma era giovane ma soffriva di reumatismi, e allora aveva dovuto metterci all’asilo nido, perché era proprio a letto, stava proprio male. L’asilo nido però io me lo ricordo proprio vagamente. Mi ricordo dell’asilo, che invece non mi piaceva per niente. Era sempre dentro il campo, però mi sembrava di essere lontana. Forse eravamo più mammone, non so, ma non [mi] piaceva. [Poi] c’era [la scuola], e io ho fatto fino alla terza elementare. Venivano le maestre da fuori, ed era proprio interna al campo, che come si entrava, proprio sulla destra, c’era la scalinata e poi c’era la scuola. Poi c’era [anche] la latteria, c’era il fruttivendolo: c’era due negozi di frutta e verdura e poi c’era la latteria. Però noi dobbiamo dire grazie alle suore che ci hanno aiutato tanto. Infatti il punto di riferimento per tutti - bambini e adulti - erano queste suore. C’era una suora, noi chiamavamo quella con gli occhi e quella senza occhi, perché una aveva gli occhiali e l’altra senza, e i bambini dicevano quella con gli occhi e quella senza occhi. E quella senza occhi aveva vent’anni, anche lei era giovanissima, si era fatta, era venuta in campo ed è cresciuta lì, praticamente. Invece l’altra suora era un po’ più severa. Però hanno fatto la vita come noi, cioè loro non avevano le coperte, erano in una stanza,. Noi andavamo dalle suore. E non solo per il catechismo ma anche a ricamare, cantare, giocare, facevamo tutto con le suore. E anche nel cortile si facevano tutti i giochi sempre con le suore. Le suore hanno fatto tanto, hanno fatto tanto.
Irene V.
Noi lo chiamavamo il corridoietto, perché eravamo in una stanza in fondo al corridoio, e allora, chissà perché , dicevamo corridoietto. In fondo al corridoio eravamo quattro famiglie: eravamo divisi, non avevamo le tende ma c’era la cartapesta. E c’era una lampadina - quello lo ricordo - solo una lampadina in centro allo stanzone diviso per quattro famiglie. E la luce era a orario. E con queste quattro famiglie noi eravamo tutti uniti e si sentiva tutto, perché non c’era il muro. Noi eravamo qui e sentivamo tutto di qua e di là, si sentiva tutto. Non c’era intimità per i genitori, e io penso adesso da adulta ai miei genitori che vita che hanno [fatto]. Perché poi c’era un letto e dormivamo tutti in un letto: c’era un letto grande con mia mamma e mio papà e noi di lato. Tanto che quando è nata l’ultima sorella - che è nata nel ’51 qui a Novara - mia mamma l’ha messa nella cassetta della frutta. Ha foderato la cassetta con della stoffa e così le aveva fatto tipo culla, un altro lettino ma con la cassetta della frutta, quelle di adesso in legno. Quello lo ricordo perché le avevo chiesto: ma perché l’hai messa lì? Eh, ma non posso metterla nel lettone, perché è talmente piccola che se la metto nel lettone e va in centro al letto soffoca! Poi l’aveva messa lì anche per riscaldarla, perché [nel campo] non c’era il riscaldamento, c’era una stufa. Dopo i miei [genitori] avevano preso la stufa che si faceva anche sopra da mangiare, ma all’inizio avevamo solo il fornellino, il Primus. E non c’era riscaldamento, e allora è anche per quello che l’aveva messa lì, per coprirla bene. E noi eravamo anche fortunati perché avevamo la finestra, perché essendo in un angolo avevamo la finestra. Ma chi capitava nell’altro angolo - come un’altra famiglia - non aveva la finestra e non c’era luce. Invece noi avevamo la finestra ed era già una bella cosa avere la finestra, in quel senso lì. E poi mi ricordo quando ero seduta sempre sulla finestra e guardavo la strada, la via Passalacqua, e mi sembrava di essere - adesso lo dico da adulta- in carcere, di essere in galera, di non essere libera: vedere la strada, vedere le altre persone che camminavano - c’erano i negozi - mi sembrava una cosa strana! Perché noi bambine eravamo chiuse, non potevamo uscire liberamente dal campo, bisognava avere sedici anni perché la guardia ti facesse uscire. Che c’era una guardia, un custode, che non faceva uscire i ragazzini, giustamente. Perché , si, si, [il movimento] era regolato; non so se per gli adulti la sera, ma c’era un orario.
Irene V.
La struttura che c’è oggi giorno... lì abitavano la maggioranza, quelli che non avevano mobili; [abitavano] nei corridoi con le coperte. Invece il pezzo mancante, più o meno aveva qualcosa, era, come dire, un po’ signorile, ecco! E noi siamo andati lì, [nel] pezzo che manca, proprio al secondo piano. In principio eravamo nel corridoio con coperte, poi ci han dato quel posto lì. Perché sono grandi arcate lì... E lì stavano quelli coi mobili, più chiusi, con un pezzetto di chiave e quelle robe lì.
Amedea M.
[La Caserma Perrone], non era l’Università che c’è adesso! C’erano le camerate come i militari e - questo glielo posso dire - militari eravamo anche noi, soltanto che eravamo divisi da tende. Ogni camerata aveva quattro famiglie o cinque: [c’era gente] al primo e al secondo piano e anche in cantina c’era gente dormiva, capito? Dovevano esserci circa 1.300 persone.
Romano V.
Arrivo a Novara nel ’47, il 28 aprile del 1947. Dovevano venirci a prendere [alla stazione] col camioncino, e invece siamo venuti a piedi, con le valigie. E a me sembrava lunga, eh! Perché dalla stazione alla caserma Perrone è poco, ma sa, uno che è stanco, e che non sa... Sapevano già che c’era gente da andare a prendere. Invece noi non è venuto nessuno, e allora il gruppo è andato su [a piedi]. Poi dopo [nel campo] c’era il colonnello Nava, il maggiore, negli uffici. C’era poi un impiegato e bom, prendevano il nome e tutte le cose. C’era l’entrata che non ci si doveva fermare dentro, nel cortile. Io avevo il moroso e ci si fermava vicino agli alberi, che adesso non ci sono più: via, fuori, diceva la guardia che controllava l’entrata e l’uscita, capisce?
Amedea M.
Eh, il campo profughi... Un disagio, perché ti trovi là, non è che ti mandano in camera d’albergo. Insieme ai tuoi letti ci sono gli altri, hai capito? Non parliamo poi del campo profughi di Novara, che la vita nel campo profughi era già un dato acquisito quando sono arrivato io. Noi avevamo tutto un altro modo di concepire la vita, perché non dimenticare che sono nato e vissuto in una città. Perchè Novara adesso si è ingrandita, ma quella volta, per me, era più vuota di Pola, perché non prendevano iniziative.
Otello S.
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Foto di gruppo di profughi fiumani nel cortile della Caserma Perrone, Novara, 1953
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Giovani profughi fiumani in bicicletta nel cortile della Caserma Perrone, Novara, 1949
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I bambini dell'asilo nel cortile del campo, Caserma Perrone, Novara, 1949
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Donne istriane e fiumane al lavatoio nel campo, Caserma Perrone, Novara, 1953 c.a.
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La Società Sportiva Olimpia nel campo di calcio della Caserma Perrone, Novara, 1949
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La prima Vespa in campo, Caserma Perrone, Novara, 1954
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La Polisportiva Giuliana festeggia al Bar Dora la vittoria della Coppa ENAL, Novara, 1956
Campo profughi, «La voce del Popolo», 4 aprile 1947 [
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• Archivio di Stato di Novara, Fondo Prefettura, Affari Generali, Busta 326, Fascicolo 2, Gestione Centro Raccolta Profughi, 1946-1950.
• Archivio di Stato di Novara, Fondo Prefettura, Affari Generali, Busta 415, Fascicolo 3, Cappellano, suore, 1949.
• Archivio di Stato di Novara, Fondo Prefettura, Affari Generali, Busta 415, Fascicolo 9, Fogli vari, 1949.
• P. Lebra, Storia di un esodo. I profughi giuliani a Novara (1946-1956), tesi di laurea, a.a. 2002-2003, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Storia.
• E. Miletto, L’Istria, l’Italia, il mondo. Storia di un esodo: istriani, fiumani, dalmati in Piemonte, Istoreto, Isral, Isrn, Torino, 2007.