Antonietta C.
In mezzo alle acque limpide e profonde dell'Adriatico settentrionale, poco lontano dal Golfo del Quarnaro, si allunga per circa quattro chilometri quadrati uno scoglio brullo e roccioso alto 230 metri. Un pugno di pietre bianche corrose dal sole e dalla salsedine, appena affrescato da qualche timido sprazzo di verde, sul quale il regime titino crea uno dei simboli più tristi del suo brutale apparato repressivo: il lager di Goli Otok, che in italiano significa Isola Calva, dal quale passano, tra il 1949 e il 1956, circa 30.000 prigionieri. Si tratta in gran parte di militanti comunisti che in seguito alla scomunica della Jugoslavia di Tito da parte del Cominform (l'organismo politico internazionale di informazione e collaborazione tra i partiti comunisti europei voluto da Stalin),la prima grande frattura del movimento comunista su scala internazionale datata 28 giugno 1948, decidono di schierarsi a favore di Stalin e dell'Unione Sovietica. Una scelta che molti di loro pagano a caro a prezzo con la deportazione e la prigionia sull'Isola Calva, che nei piani del regime di Tito avrebbe dovuto essere la prigione nel quale «rieducare» i comunisti contrari a sposare la via jugoslava al socialismo. Goli Otok, dove muoiono circa 4.000 persone, diventa dunque sinonimo di lacrime, sangue e morte. Un luogo dove i prigionieri sono costretti a sopravvivere in condizioni igieniche precarie, e all'interno del quale la fame la denutrizione e le continue umiliazioni diventano compagne di vita quotidiana. La «rieducazione» si svolge seguendo un rituale macabramente collaudato, che prevede sotto il sole infuocato dell'estate e i soffi gelidi della bora d'inverno, lo svolgimento di un lavoro massacrante quanto inutile consistente nel rompere le pietre per poi buttarle in mare, e l'attuazione di un sistema repressivo subdolo e crudele coinvolgente direttamente gli stessi detenuti chiamati, per riacquistare la libertà, a prendere attivamente parte alle innumerevoli violenze (botte, sputi, bastonature), alle umiliazioni e alla derisione dei propri compagni, la cui colpevolezza è sancita da farseschi miniprocessi collettivi, nel corso dei quali ogni accusato è chiamato a confessare di fronte a una giuria le proprie colpe.
Nelle quattordici baracche del campo arrivano prigionieri appartenenti a tutte le nazionalità della nuova Jugoslavia; tra di essi, vi sono anche degli italiani, il cui nucleo più consistente è rappresentato dai cosiddetti monfalconesi: circa 2.500 militanti comunisti, in larga parte provenienti dai cantieri navali di Monfalcone, che spinti dai propri ideali decidono tra il 1946 e il 1947 di trasferirsi in Jugoslavia per partecipare alla costruzione del socialismo, dando vita a un passaggio storico meglio conosciuto come controesodo dei monfalconesi. Assorbiti in molti casi nei cantieri navali di Pola e di Fiume, essi si scontrano, dopo un'iniziale euforia, con la dura realtà jugoslava scandita da fame, miseria, disorganizzazione e da un modello politico che, nei fatti, appare molto lontano da quello desiderato e per realizzare il quale molti di essi hanno deciso di partire. Una situazione che si fa ogni giorno più difficile e che precipita irrimediabilmente dopo la risoluzione del Cominform: protagonisti di una scelta «urgente e visibile, soprattutto nei luoghi, come a Fiume, dove è più massiccia la presenza italiana» [A. Di Gianantonio, T. Montanari, A. Morena, S. Perini, 2005] , la maggior parte di essi decide di schierarsi contro Tito e a fianco di Stalin finendo nel giro di poco tempo nella morsa repressiva del potere titino. Alcuni di essi abbandonano la Jugoslavia riuscendo a rientrare in Italia, dove si trovano non solo sottoposti al rigido controllo della polizia poiché considerati «dalle autorità italiane dei pericolosi sovversivi» [M. Puppini, 2008], ma anche discriminati ed emarginati dagli stessi compagni di partito, che gli impongono di consegnare al silenzio la loro drammatica esperienza, condannandoli «a una sorta di isolamento politico e di esclusione sociale»[A. Morena, 2006]. Paradossalmente, si tratta dei più fortunati. Per circa trecento monfalconesi, gli esponenti più in vista, il destino ha in serbo una sorte peggiore: arrestati e condannati per attività antijugoslava, sono internati sull'Isola Calva, dalla quale riescono a ritornare dopo lunghi anni e inenarrabili sofferenze. Ma soltanto una parte di essi riuscirà a raccontarle, perché da quel pugno di rocce in mezzo all'Adriatico non tutti riusciranno a tornare vivi.