Nel Villaggio di Santa Caterina nel periferico quartiere torinese di Lucento, la cadenza istro-veneta, che accompagna in maniera inconfondibile il favellare di gran parte dei residenti, si mescola con un italiano dall'inflessione ionica, simbolo della presenza, tra queste case di mattoni rossi, di frammenti della comunità italiana rimpatriata dalla Grecia nell'immediato dopoguerra. Comunità stanziate sul territorio ellenico fin dal periodo risorgimentale, che trovano nuova linfa nei flussi migratori postunitari, provenienti soprattutto dalla Puglia, e che alla fine della guerra, scontando l'aggressività della politica fascista culminata con l'invasione della Grecia e la sua successiva occupazione nel 1941, si vedono costrette ad abbandonare terre sulle quali sono insediati da intere generazioni. Una sorte, la loro, simile a quella di molti altri italiani emigrati nel bacino del Mediterraneo che si trovano a pagare con l'esilio «una lunga serie di toriti di cui non hanno responsabilità». [G. Esposito, 1998]
Insieme ad Atene e Salonicco, sono Corfù e Patrasso, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, dalle quali provengono anche i testimoni intervistati nel corso della ricerca.
Costituita in gran parte da agricoltori e pescatori, quasi tutti di origine pugliese, la comunità italiana di Patrasso conta alla vigilia della prima guerra mondiale circa 3.000 persone, in gran parte concentrate nel quartiere di San Dionisio. Un numero che diminuisce con il trascorrere degli anni raggiungendo, nel 1945, la cifra di 2.000 unità.
Pescatori pugliesi e napoletani (questi ultimi impegnati fin dal XVIII secolo nell'attività di estrazione del corallo) costituiscono il nucleo portante della comunità italiana di Corfù che, stimata in 1.300 unità da un censimento promosso nel 1928 dalle autorità greche,raggiunge la quota di 1.500 persone durante gli anni della seconda guerra mondiale.
Sulla scia del percorso precedentemente tracciato dallo stato italiano in epoca crispiana, tendente a «mostrare verso gli italiani all'estero una certa cura» [G. Esposito, 2005], l'Italia fascista stringe nella propria morsa nazionalista anche gli italiani di Grecia. Un compito affidato alla solerte opera dei Fasci Italiani all'estero e a quella di altri enti (Direzione generale del lavoro italiano all'estero, Opera Nazionale Dopolavoro per l'estero, Direzione delle Scuole all'estero, Fondazione dei Figli del Littorio, Gioventù Italiana del Littorio all'Estero) che, con i toni propri della propaganda del regime, si ergono a estremi baluardi in difesa dell'italianità promuovendo non solo conferenze e dibattiti tenuti da oratori di provata fede fascista che, portando «il saluto e il pensiero del regime» [G. Esposito, 2005] si propongono di assistere spiritualmente gli italiani, ma anche sostenendo una serie di attività come, ad esempio, la pubblicazione di periodici e l'allineamento alla Riforma Gentile dei programmi svolti nelle scuole italiane (anche in quelle confessionali, parte integrante del sistema scolastico fascista) i cui allievi, dal 1927, sono inviati in Italia nelle colonie o nei campeggi marini e montani. Penetrata a fondo nella comunità italiana, una buona parte della quale si sente difesa ed amata dalla madrepatria, la potente macchina propagandistica sembra raggiungere i propri obiettivi, come dimostrano ad esempio i dati relativi al 1937 quando a Corfù si contano 356 aderenti al Partito e 306 giovani iscritti alla Gioventù Italiana del Littorio Estero (GILE). Una cifra piuttosto elevata, comprendente «una buona metà della comunità italiana» [G. Esposito, 2005].
L'incalzare degli eventi bellici e l'armistizio dell'8 settembre pongono fine all'occupazione italiana della Grecia, che passa sotto il controllo della Germania nazista. Spettatrici impotenti e frastornate degli eventi, le comunità italiane si trovano a dover sopportare i disagi e le privazioni del conflitto cui seguono misure di rappresaglia adottate nei loro confronti dalle forze resistenziali greche, in particolare di matrice monarchica che, una volta ottenuto il pieno controllo della situazione, deliberano l'allontanamento di quegli stranieri colpevoli, ai loro occhi, di «essere andati contro gli interessi della Grecia, prima e dopo gli anni dell'occupazione» [G. Esposito, 2005]. Un'accusa dietro alla quale si cela, nemmeno troppo velatamente, la convinzione, storicamente tutt'altro che comprovata, della fedeltà delle comunità italiane alla Repubblica Sociale mussoliniana e il loro collaborazionismo con l'occupante tedesco.
I primi ad essere allontanati sono così gli italiani di Corfù: arrestati il 14 ottobre 1944, sono immediatamente tradotti nelle carceri cittadine mentre i loro beni sono confiscati e le loro case depredate. Alcuni di essi, circa 200 persone, sono rimpatriati in Italia il 16 ottobre a bordo di una motozattera della Marina Italiana, mentre la maggior parte resta prigioniera fino al 7 novembre 1944, quando su una nave della Croce Rossa battente bandiera norvegese sono imbarcati 661 italiani (in gran parte anziani, donne e bambini), cui si aggiungono altri 500 soldati italiani scampati ai rastrellamenti tedeschi. Secondo alcune stime del governo di Roma, sono circa 900 i cittadini della colonia italiana evacuati da Corfù, dove restano soltanto «alcuni anziani e degli individui distintisi per meriti a favore della Grecia» [G. Esposito, 2005].
Nella primavera del 1945 il governo greco informa il comando delle forze alleate di stanza nel paese circa la propria intenzione di rimpatriare nei paesi di origine «tutti i cittadini di stati nemici ed ex nemici che si trovano in Grecia» [G. Esposito, 2005]. La sorte degli italiani di Patrasso, che tra la fine del 1944 e l'autunno del 1945 sono al centro di provvedimenti discriminatori (campagne di stampa, esclusione dalla distribuzione di arte annonarie UNRRA, licenziamenti dai posti di lavoro) è dunque segnata: nell'estate del 1945 sono rimpatriati coloro che hanno prestato servizio militare nelle fila del Regio Esercito Italiano seguiti, nel mese di novembre, dal resto dell'intera comunità patrassina. Il 7 novembre 218 persone partono alla volta del Pireo dove si imbarcano per l'Italia. Nei giorni successivi i viaggi si susseguono a ritmi incalzanti: 293 profughi lasciano Patrasso il 14 novembre, altri 290 il giorno 15 e 314 il giorno 20. Secondo fonti italiane i trasferimenti, iniziati il 3 novembre, interessano complessivamente 1.500 persone appartenenti alla comunità italiana della città, alle quali si aggiungeranno, nei mesi successivi, altri 5.000 italiani residenti in Grecia prima del 1938 e provenienti da altre località dello stato ellenico.
Arrivati in Italia in qualità di profughi, gli italiani di Grecia vedono aprirsi le porte dei centri di raccolta. I dati raccolti rivelano la presenza di profughi greci anche nelle strutture piemontesi. Gli Annuari Statistici della Città di Torino, evidenziano tracce di profughi greci alle Casermette di Borgo San Paolo in un periodo compreso tra il 1949 e il 1956. Come per i profughi provenienti dall'Africa orientale e dalla Libia, i dati non consentono uno scorporamento in grado di far emergere la località di provenienza dei singoli individui, dal momento che anche i profughi greci sono censiti con la generica denominazione di profughi provenienti dalle ex colonie italiane (comprendente dunque anche quelli provenienti dalla Libia e dall'Africa). Ci si deve quindi accontentare di alcuni dati quantitativi: 109 unità nel 1949 e nel 1950, 69 nel 1951, 51 nel 1952, 52 nel 1953, 65 nel 1954 e 27 nel 1955. Nel 1956 non vengono più censiti all'interno del campo: un'assenza fortemente correlata al trasferimento delle famiglie nel Villaggio di Santa Caterina a Lucento. Se a Tortona i soli dati di cui si dispone parlano di «149 profughi dalla Grecia» [G. Gatti, 1996] arrivati nel campo nel 1946, decisamente più precisi sono quelli relativi alla Caserma Perrone di Novara, tra le cui mura si trovano, nel 1947, 65 profughi provenienti dalla Grecia, il cui numero scende a 56 nel 1949 e a 16 nel 1953.
Testimonianze
Arrivo in Italia
[Sono partita dalla Grecia] nel ’46. Sono stata a Bari, appena arrivata con la nave, a Bari vecchia. Che lì ci avevano portato in una scuola, mi sembra Regina Elena. Siamo stati lì e poi son venuti i camion e ci hanno portato a Bologna, che Bari Bologna la strada era poca. E poi ci han portati a Bologna che era una caserma, ma mi ricordo [che ci avevano messo] in una stalla dei cavalli. E dormivamo sopra i sassi con i materassi che ci avevano dato. Ma là siamo stati poco, perché poi siamo andati a Verona e da Verona siamo poi andati ad Aversa. Che ci mandavano loro in queste parti.
Elisabetta D.
Quando siamo arrivati in Italia non c’erano ferrovie, non c’erano case, tutto un bombardamento, era la fine del mondo! Lei pensi che a Bari quando siamo arrivati, ci hanno messo a dormire dentro un garage, a dormire per terra tutti uno sopra l’altro. Era un grande garage e dicevano: dove trovate un posto, mettetevi a dormire, senza un materasso, senza niente. Poi di là ci hanno caricato sui treni, sui carri bestiame - dopo una decina di giorni che eravamo a Bari - e ci abbiamo messo una settimana ad arrivare a Bologna. Perché il treno arrivava alla stazione, e si fermava sopra un binario morto e ripartiva - non so - dopo tre o quattro ore e poi [ripartiva] e faceva ancora trenta o quaranta chilometri. Fino a che siamo arrivati a Bologna: lì sono venuti con i camion, ci hanno caricati e ci hanno portato in una caserma di Bologna, che era dell’ippica. C’erano i cavalli, i muli prima. C’erano le mangiatoie dei muli, ci hanno messo della paglia per terra e io per la prima volta ho visto la neve e [sentito] il freddo. Io son partito dalla Grecia in pantaloncini corti, non avevo un paio di pantaloni lunghi da mettere, un freddo cane! Non avevo un cappotto...Non avevo mai visto la neve in vita mia, [cioè] non l’avevo mai toccata, perché vista l’avevo vista al cinema.
Luigi V.
Io per esempio ricordo che quando tra Bari e Bologna, il treno si è fermato... Ci hanno messo su un binario morto a Reggio Emilia, e io e un cugino di mia moglie, siamo andati alla [sede del] Partito Comunista di Reggio Emilia: gli abbiamo detto che siamo sette famiglie di profughi su un carro bestiame e che stavamo morendo di fame, perché non c’era acqua e non c’era niente. Oh, si son dati da fare sta gente, ci han portato da mangiare! Aiuto da nessun altro, solo da loro ne abbiamo avuto, dai comunisti. E noi non sapevamo neanche chi erano. Ci avevano detto dei partigiani - che allora c’erano i partigiani - di andare al Partito Comunista. Andate al Partito Comunista, ci avevano detto. E con una macchina hanno portato da mangiare, ci hanno portato da mangiare pane, salame, mortadella, tutte queste cose qua. Anche acqua, che non c’era niente.
Luigi V.
[Siamo partiti] nel ’44-’45, proprio alla fine, quando poi da noi c’è stato lo sbarco e la resa. E poi sono arrivati i greci e ci han fatto andare via. [Le partenze a Patrasso avvenivano] a più riprese, certo. Ci siamo trovati nei campi profughi. [...] A un certo punto han detto: no, voi dovete andare a Firenze, che ci sono i campi profughi. [Dovevamo andare lì] per poterci dare, come profughi, quello che ci spettava: sussidi, coperte e robe del genere, perché non avevamo niente! Niente!
Luigi P.
Firenze [è stata] l’unica città che ci ha ospitato e che ci hanno dato accoglienza. I fiorentini sono stati un popolo molto cordiale. Anzi a noi, che eravamo più giovani e ragazzini, molte famiglie ci prendevano, ci vestivano e ci davano da mangiare. Per quello il popolo toscano è stato il migliore. Si capisce che più di quello non potevano fare anche loro, perché l’Italia era appena uscita dalla guerra, il ’45 era lì. Non è che potevano fare chissà cosa, però nel loro modo ci hanno aiutato molto. Poi noi abbiamo incominciato a fare un po’ di contrabbando, qua e là. Con le sigarette agli americani, sempre lì vicino a Santa Maria Novella, nel piazzale, che c’erano due o tre alberghi. E lì fatto i primi anni di esperienza, anche perché poi l’italiano lo parlavamo appena, appena. Lì abbiamo imparato un pochettino di italiano andando a scuola italiana, perché molti di noi italiani, sono andati a scuola greca, perché le scuole italiane erano distanti. E poi se prendevi un impiego o un lavoro, dovevi conoscere la scrittura greca e non l’italiano. Era quasi un obbligo. Potevi studiare tutte e due le lingue: chi aveva i mezzi, che aveva la possibilità lo faceva, chi non l’aveva rimaneva con quelle che aveva.
Andrea D.
[A Bari] c’era l’Ente Comunale di Assistenza. Ci davano da mangiare, la sbobba eh! Riso, pastasciutta, non avevamo neanche i piatti. [Andavamo a prendere il cibo] con le gavette militari. Dal porto ci hanno mandato in questo garage, [che in realtà] era una caserma. Caserma Sant’Elena, mi sembra che si chiamava, e ci hanno portato in quella caserma lì. E siamo stati una decina di giorni. Poi da lì ci hanno presi e ci hanno caricati e portati fino a Bologna. Ci avevano destinati per Bologna, mentre altri li avevano destinati a Firenze. E sono andati a Firenze, son rimasti a Firenze e tutt’ora sono a Firenze. A noi ci hanno mandati a Bologna in attesa di trasferirci da qualche parte.
Luigi V.
Abbiamo caricato tutto quanto sul Toscana e ci abbiamo messo otto giorni [ad arrivare] a Venezia. E [poi] ci abbiamo messo tre giorni da Venezia a Tortona. [A Venezia] c’era una delegazione che ci hanno accolto, e ci hanno messo su questi treni merci. Ci fanno sbarcare, c’era un treno pronto, e c’erano sti vagoni merci e abbiamo caricato sia le masserizie, sia noi, sopra sto treno. Perché noi eravamo [inizialmente] destinati ad Alessandria, però ad Alessandria non c’era il campo profughi. [Allora] siamo arrivati ad Alessandria [e lì] c’era gente che ci aspettava con panini, acqua, e questo me lo ricordo, perché siamo arrivati che era quasi sera. E poi quando siamo arrivati là, questi qui di Alessandria hanno detto: no, dovete tornare indietro a Tortona, che c’è il campo profughi. E lì al campo profughi, c’era chi ci ha ricevuto, e la prima notte abbiamo dormito sulla paglia.
Elena G.
[Dopo essere partiti da Patrasso], succede che ci siamo dichiarati profughi, che eravamo profughi. E da lì ci hanno caricato nei treni merci. Siamo partiti da Bari e per arrivare a Bologna ci abbiamo messo tre settimane. Non c’era niente: ti davano una galletta, un po’ di brodo e un po’ di paglia che avevamo dentro ai vagoni e lì si dormiva, si faceva tutto e buonanotte! A Bari [mi ricordo che] c’era un posto dove ci assistevano. Era a Bari Vecchia. Che a Bari vecchia siamo stati quindici giorni a dormire per terra...[Era una] grande caserma vicino al porto.
Andrea D.
Corfù e Patrasso: andare via o restare
[A Rodi] eravamo mischiati, non c'era un quartiere per ognuno. No, assolutamente [non è che gli italiani vivevano in un quartiere e i greci in un altro], vivevamo mischiati, vivevamo tutti quanti bene, tutti insieme. Noi siamo cresciuti insieme: i bambini, ad esempio, quando c'era la messa venivano, [perché] anche i genitori non è che li proibivano di venire alla messa perché tu sei musulmano, tu sei ebreo, sei ortodosso e non devi andare [alla messa]. Noi abbiamo sempre vissuto insieme, non c'era quella divisione. Perché i loro figli li lasciavano [giocare con noi], anche perché venivano a scuola [italiana], e poi lì le scuole erano tutte dei preti e dei salesiani. Erano tutti di Ivrea: mi ricordo che le suore erano tutte di Ivrea. E solo quelle scuole c'erano, e basta. I rapporti tra le comunità erano buoni, non c'era differenza.
Elena G.
[A Patrasso come comunità italiana] facevamo le nostre [feste]: facevamo il
corpus domini, la processione...C'erano tutte quelle [festività] italiane. Poi però; la Pasqua, per esempio, quando i greci avevano Pasqua la facevamo con i greci, perché se no non era più una festa. Solo con i greci si poteva fare l'agnello allo spiedo, i taralli, le uova rosse eccetera, eccetera.
Luigi V.
Io sono nata nell'isola di Rodi in Grecia il 18 marzo 1934. E' un'isola. Era più che altro [una città] turistica. Il turismo c'è sempre stato. [Infatti] mi ricordo che mio padre ha servito Vittorio Emanuele, Umberto di Savoia e anche il duce, perché loro venivano là [a Rodi]. E tutti questi mio padre li ha serviti. Eh, lì comandava il fascismo: prima c'era il re, poi il fascismo. [A Rodi] c'erano quattro comunità: turchi, greci, ebrei e italiani. Però; la maggior parte [degli abitanti] erano greci, perché turchi ce n'erano parecchi, ebrei ce n'erano non tanti. Che poi gli ebrei li hanno portati via i tedeschi...E poi c'erano gli italiani, e comandavano gli italiani. [Comandavano] politicamente, tant'è vero che io che mi ricordo bene - perché andando a scuola io ho fatto fino alla quarta, che poi non l'ho finita [perché] ci hanno rimpatriati - anche i greci, cioè sia i turchi che i greci che gli ebrei, [andavano] alle scuole italiane. Una volta alla settimana, ogni comunità poteva far scuola nella loro lingua. [E ricordo che] quando c'era il fascismo, non c'era scuola al sabato e allora loro avevano un permesso dato dal governo che potevano far scuola loro [nella loro lingua]. Se no sapevano scrivere e leggere solo in italiano. Allora veniva data a ogni comunità la possibilità di poter far scuola loro, però; una volta alla settimana, anche i greci. E quello che mi ricordo bene, è che anche i greci e i turchi avevano la carta d'identità italiana. E chi non ha voluto aderire alla cittadinanza italiana, venivano messi come in un campo di concentramento. Che poi facevano un periodo così, ma poi rimanevano chi greci e chi turchi. Però; questa cosa riguardava la minima parte, perché tutti hanno aderito. Però; finché comandava l'Italia, la cittadinanza era tutta italiana.
Elena G.
Sono nato a Patrasso il 20 ottobre 1936. [Patrasso] era una città portuale. Quando c'eravamo noi era piccola, adesso 200.000 e passa abitanti, ma quando c'eravamo noi era una cittadina, era piccolina. Io abitavo in campagna. Era una cittadina sul mare, infatti tutti i traghetti che partono da Ancona, quasi tutti fanno scalo a Patrasso. Io abitavo in campagna, un po' fuori, ma adesso si è sviluppata. [...] C'era via Gabetta, in quartiere Santa Rosa, che abitavano tutti italiani. C'era proprio una via, e a Patrasso c'era e c'è una chiesa cattolica, perché lei sa benissimo che la maggioranza dei greci son di religione ortodossa.
Luigi B.
Io sono nato a Patrasso il 23 maggio 1929. Eravamo 15.000 italiani, c'era la nostra chiesa cattolica, però; adesso non c'è più nessuno. Per me è la città più bella del mondo. E' il terzo porto della Grecia, è una città per me meravigliosa. Io quando mi parlano di Patrasso mi commuovo, sinceramente. Poi, ai tempi di Mussolini, siccome eravamo italiani, avevamo le scuole italiane. Noi non eravamo né protettorato italiano, né niente, eravamo italiani all'estero. Non era come la Libia che era italiana, non è come la Tunisia che era protettorato dell'Italia. La Grecia era la Grecia, e basta. E noi eravamo [lì] come emigrati, da tre generazioni. Mio padre è nato lì, mio nonno Luigi che è morto nel 1930 e che io non ho conosciuto, perché son nato nel 1929, è nato in Grecia, nel 1865 o 1864, un affare così. Lì, era Grecia. Solo che eravamo un po' di italiani, c'era una via che si chiamava Santorre di Santarosa e c'è ancora, era il quartiere degli italiani. E poi c'erano gli italiani, quelli che facevano i contadini, quelli che avevano gli aranceti e via dicendo. C'erano gli italiani pescatori, c'erano gli italiani artigiani, falegnami e via di seguito. Come mi raccontava mio nonno, dice che la Grecia è stata sotto i turchi, è rimasta per quattrocentoventi anni sotto il dominio turco, e i turchi mangiavano tutti seduti per terra. E allora, dice che tanti italiani sono andati in Grecia che erano falegnami. E sono andati a fare sedie e tavoli, perché i greci facevano come i turchi, mangiavano per terra, seduti, e mangiavano da un piatto soltanto. Invece adesso è tutto cambiato, come in Italia: se vai giù in bassa Italia - in Sicilia, nelle Puglie, in Calabria - a quei tempi là era anche così.
Luigi V.
Sono nato nel 20-7-1930 a Patrasso, Grecia. Siccome che [Patrasso] era una città che offriva molti lavori per i pescatori, la maggior parte degli italiani scappavano con le barche e andavano in Grecia. A Patrasso c'era il consolato italiano che registrava tutte le famiglie provenienti da ogni comune d'Italia. E la mia famiglia - per quello che so io - viene dal comune di Trani. O se no [arriva da ] San Licando, perché mi sembra che mio nonno aveva sposato una di San Licando, un paese vicino a Trani, sempre nelle Puglie, ed emigrò; in Grecia, e lì è rimasto sempre, lavorando. Faceva il pescatore, e da pescatore faceva poi anche il giardiniere, perché suo papà gli aveva insegnato [quel lavoro], anche perché c'è da dire che nell'epoca facevano di tutto per sopravvivere! Ma la maggioranza erano pescatori.
Andrea D.
Son nato a Patrasso - Grecia - il 17 marzo 1931. [Patrasso] era florida, perché c’era lavoro per tutti: i nostri si erano fatti avanti con le loro arti, i loro mestieri, anche perché il porto di Patrasso, l’hanno fatto i nostri. I nostri hanno fatto anche alcune altre cose, ed erano ben piazzati, perché oltre ad essere pescatori e muratori, c’erano anche commercianti, per cui era un momento molto bene. Io mi ricordo bene, stavamo bene, avevamo un tenore di vita abbastanza alto, avevamo le nostre case con i nostri giardini: erano case coloniche, che naturalmente ogni casa aveva il suo giardino, il pozzo dell’acqua con la fontanella. In quel periodo [Patrasso] aveva dai 50 ai 60.000 abitanti. Ma era ben sistemata, con la sua collina.
Simone P.
Sono nata a Patrasso il 29 ottobre del 1937. [A Patrasso] avevamo la nostra piccola comunità, a iniziare dalla chiesa e dalle scuole. Quartiere Santorre di Santarosa: noi avevamo le nostre suore italiane, che poi tra l'altro sono venute via con noi ad Ivrea, avevamo il nostro parroco e avevamo dei buonissimi rapporti con i nostri vicini. Anche durante la guerra moriva qualche figlio dei vicini, però loro dicevano: voi non avete colpa, voi siete brave persone, sono venuti gli italiani a bombardare! Noi avevamo un rapporto buono coi vicini greci. Mio papà pescava, aveva il moto peschereccio e il negozio di pescheria. Avevamo due case, però quando è venuta la guerra gli hanno sequestrato tutto. Noi eravamo da diverse generazioni in Grecia, ma con cittadinanza italiana.
Elisabetta V.
Sono nato a Corfù [in] Grecia, nel 1927. Corfù è la capitale delle isole Ionie, ha un clima che [è molto mite]. L’imperatrice d’Austria, la Sissi, è venuta a curarsi a Corfù, perché era malata di TBC, e i dottori dicevano che doveva andare in Grecia. Gli hanno comprato una villa e quella villa - che l’ha lasciata alla stato greco - adesso è diventato il museo di Corfù, l’
Achilleion. Siccome davanti al museo c’è la statua di Achille che si levava la freccia dal piede, allora l’hanno chiamato
Achilleion, il museo di Corfù. Corfù faceva - anteguerra, adesso ne farà anche di più perché tutta l’Albania si è riversata là - 120.000 [abitanti], compresi i paesi. La città faceva 40.000 [abitanti], [con] tutti i paesi dei dintorni - perché c’era diversi paesi - faceva 120.000. A Corfù c’era: scuola di polizia, scuola di cavalleria, prefettura, provincia - perché era la capitale delle isole Ionie - e poi il famoso lord Byron... Lo conosci lord Byron? Abbiamo la sua statua a Corfù, è lui che ci ha portato l’acqua.” (Achille C.)
Achille C.
Dall’Italia alla Grecia
Gli italiani in Grecia, avevamo una colonia, come le colonie che abbiamo giù in meridione anche dei greci. Ci sono, giù nelle Puglie. I miei nonni per lavoro sono andati a Patrasso e han fatto i figli. Mio papà, facendo il servizio militare, è venuto in Italia e ha sposato mia madre [che era] delle Puglie, a Trani. E poi ha portato mia madre in Grecia, naturalmente, perché il lavoro era là. Mio papà lavorava nel cantiere navale sul porto. [I miei nonni erano] pugliesi emigrati in Grecia, per lavoro. Noi avevamo una colonia: la chiesa, i dati anagrafici. A Patrasso c'era un quartiere italiano, noi avevamo una comunità italiana, ancora dal tempo del re. Cioè il papà di Costantino, perché poi abbiam perso la guerra e ci hanno cacciato via. Questo, diciamo, è stata la nostra storia.
Luigi P.
Le mie origini...Mio nonno, prima del Novecento, abitava nel Lazio a Poli, un paese vicino Roma. [Un giorno] ha preso i cinque figli ed è andato in Grecia, lavorando sotto lo Stato. Lui faceva l'agricoltore - innesti e queste cose qui - e lavorava in campagna. Aveva cinque figli, ed erano tutti piccoli, più o meno. E poi noi siamo stati là, in Grecia: mio papà si è preso un appezzamento di terreno e abbiamo sempre vissuto là fino al '46. Siccome noi però; eravamo cittadini italiani, [perché] a Patrasso c'era una colonia di italiani fortissima, forse 10 o 15.000 italiani, perché tra Brindisi e Patrasso c'è poco, il tratto è breve. Noi andavamo lì a lavorare, ci han dato sta terra e nel '46 però; ci hanno espulso perché avevamo la cittadinanza italiana.
Luigi B.
Dunque, le spiego. Il mio bisnonno è nato a Trani, in provincia di Bari. Poi lui - allora non c'erano i motori - con la barca a vela - era pescatore e l'Italia non era ancora unita perché [era] prima del 1861 - partì e andò; a Malta. A Malta conobbe una ragazza e se la sposò;. Si chiamava Atonia K. E poi con lei venne a Patrasso: ha fatto famiglia a Patrasso, dove è nato mio nonno. Mio nonno è nato a Patrasso, si chiamava Luigi, come me. E poi [sempre a Patrasso] è nato mio padre, nel 1895 e poi io, che son nato nel 1923. Mia mamma, invece...Beh, non so tanto della famiglia di mia mamma. So che mio nonno materno ha preso la cittadinanza greca e rimase in Grecia. Invece a noi ci hanno mandati via. E, comunque, da tre generazioni siamo nati in Grecia. Mio papà era pescatore e a Patrasso aveva un motopeschereccio. Avevamo anche una pescheria all'ingrosso e al minuto. E in più avevamo due case: una in città e una in campagna, in un paese che si chiama San Giorgio Lagura. E c'è ancora [oggi] questa casa. [Di pugliesi a Patrasso] ce ne son tanti, un mucchio!
Luigi V.
[A Patrasso] c'era una comunità italiana. La maggior parte provenivano dalla Puglia, poi [qualcuno] arrivava dal Lazio, qualcuno da Napoli. Mio papà era d'origine d'Abruzzo. E a Patrasso c'era proprio un quartiere fatto di italiani. Poi una volta [finita] la guerra, ci hanno sbattuto proprio fuori i greci, perché ci volevano troppo bene!
Adriana D.
I miei nonni sono andati in Turchia a Smirne quando stavano facendo la ferrovia: [sono] partiti da Genova e sono andati là, i nonni e i bisnonni. Mio padre e mia madre sono nati a Smirne, poi c'è stata la guerra dei turchi e sono andati all'isola di Rodi. E mio padre ha fatto parecchia gavetta, ha fatto parecchi lavori prima di potersi inserire. Alla fine poi [ha trovato lavoro] al Circolo Italia, dove faceva il capocameriere. E quando poi c'è stata l'occupazione dei tedeschi, mio padre si è trovato ammalato e non ha più voluto andare a lavorare coi tedeschi, è rimasto a casa e non ha voluto andare coi tedeschi. Ed è rimasto [così] per due anni, fino a che poi a noi quando è finita la guerra ci hanno rimpatriati.Elena G.
[A Patrasso] la maggioranza era tutta delle Puglie. Erano quasi tutti di Bitonto, Bari, Molfetta, Trani. Mi diceva mio padre che nel suo paese in quegli anni lì [che la sua famiglia è partita], nel suo paese non ci stava bene neanche da morti. I pugliesi erano quasi tutti pescatori, anche perché i greci sono un po' levantini, cioè sono più commercianti.
Luigi B.
Mio papà era dell'Abruzzo, era abruzzese. Quando era piccolino, si sono trasferiti i genitori lì [in Grecia]. Lui non so, era piccolino, aveva un anno o due, non so. E' cresciuto praticamente in Grecia mio papà.
Adriana D.
[A Rodi] la maggior parte [degli italiani] erano sardi. Erano sardi che [vivevano] fuori, nelle periferie di Rodi, e coltivavano aranci e pesche. Erano cioè dei grandi coltivatori. Cioè nelle campagne la maggior parte erano sardi. Non so come mai erano arrivati là. Non erano però; a Rodi da tante generazioni, no. Diciamo che potevano essere lì dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. C'erano emigrati sardi [ e poi] pugliesi. Poi c'erano le tipografie, che quelle erano tutte degli italiani. Poi c'erano tanti alberghi coi camerieri e anche questi erano italiani. Però; [tra gli italiani] la maggior parte erano contadini [nelle zone fuori Rodi, mentre] in città c'erano camerieri, topografi e queste cose qui. Poi c'era la ditta dell'energia elettrica - che allora si chiamava SIR - e anche quelli erano italiani [cioè coloro che vi lavoravano]. Anche se in realtà tutti quelli che vivevano lì erano italiani, perché avevano la carta d'identità italiana. Sotto il possedimento italiano, erano tutti italiani.
Elena G.
[I rapporti coi greci erano] ottimi! Sul piano popolare i nostri - dico i nostri, cioè gli italiani di Patrasso - si erano amalgamati benissimo, perché - e questo lasciamelo dire!- con i greci non si può non andare d’accordo! E’ gente stupenda, brava, ci assomigliamo: stessa faccia e stessa razza, era questo il loro motto laggiù. Anche perché loro hanno delle usanze molto belle, ancora adesso le tradizioni le rispettano e allora, naturalmente noi ci siamo amalgamati, perché non è possibile non andare d’accordo. In Grecia in quel periodo c’erano due ceti: gli aristocratici, e cioè quelli che parlavano il greco antico, e quelli che parlavano la lingua popolare. Nelle scuole non era ammessa la lingua popolare, oppure erano ammesse le due lingue: alle elementari era ammessa la lingua popolare, e dopo le elementari bisognava sapere bene la kathareusa, che era il greco antico, il greco pulito. Dopo la guerra, che è venuto Papandreu e ha cambiato un po’ la democrazia, hanno messo per legge che la lingua greca è quella popolare. E allora noi, eravamo più amalgamati col popolo, col ceto popolare, mentre gli altri ci snobbavano, perché erano stimolati o provocati dagli inglesi, perché avevano molti legami con i reali inglesi e allora si sentivano un po’ signorotti. E allora questi qui ci snobbavano un po’.
Simone P.
A Patrasso c’era la Piccola Italy, cioè c’era il quartiere che erano tutti italiani, cioè tutti italiani tra virgolette, perché erano tutti pugliesi. Pugliesi di Molfetta e Barletta, pescatori. E insieme a questi pescatori, c’erano anche dei muratori che erano molto richiesti in quel periodo. C’è stata l’immigrazione molti anni fa, con mio nonno, per cui non sono solo nato io [in Grecia], ma anche mia madre e mio padre son nati in Grecia. Per cui va molto lontano [l’immigrazione]. Noi [eravamo] una comunità italiana sotto lo stato greco. C’era un quartiere che si chiamava via Gambetta. Era tutto un quartiere italiano, che là sentivi solo il pugliese! Però era bello, era carino. In quella parte lì erano tutti pescatori, mentre gli aristocratici - cioè, diciamo, i commercianti - erano un po’ fuori, con le loro case e le loro villette.
Simone P.
[Noi siamo] emigrati, dalla Puglia. Il mio bisnonno. Io son nato in Grecia, mio padre e mia madre son nati in Grecia e i padri che son venuti dalle Puglie hanno iniziato a fare i loro lavori, gli artigiani, a lavorare in proprio. [Si emigrava per] la solita storia: per lavoro. Si andava via per lavoro. E poi - questo è importante - si andava via anche perché a forza di sentire i pescatori...I pugliesi, che erano molto bravi come pescatori, sapevano che dalla parte là dello stretto di Corinto, era una pesca florida, era una pesca stupenda, non era sfruttato il mare. E allora lì sono venuti i nostri e hanno fatto [scuola]. Ad esempio, certi pesci i greci non li mangiavano, mentre noi li mangiavamo: ad esempio la pescatrice non la mangiavano, il nocciolino non lo mangiavano, e invece quando siamo arrivati noi hanno incominciato.
Simone P.
La gente, la maggior parte, sono tutti artigiani. Poi ci sono agricoltori e pescatori che erano tutti di origine italiana, perché allora i greci non sapevano dove erano le acque buone, e dovevano venire i molfettesi e i barlettani per mostrarci le acque buone. E anche per quanto riguarda l’agricoltura, specialmente gli ortolani - perché nella prima cintura [della città] erano tutti orti di frutta e verdura - anche lì tutti italiani pugliesi erano. [Gli italiani sono emigrati in Grecia] perché in Italia in quegli anni c’era [fame]. In Italia non c’era benessere... Il benessere, chiamiamolo così, è venuto dopo, e quindi sono emigrati. [Hanno scelto la Grecia] perché è più vicina: dalla Puglia in sei ore di barca [arrivi]. Italiani eravamo in 3.000, la maggioranza erano pugliesi, veneti saremo stati non so, una cinquantina di famiglie, tutti della provincia di Venezia. Venezia, Chioggia e dintorni, ma la maggior parte erano tutti meridionali. E perché c’erano? Perché , ti ho detto, i greci non sapevano far niente in quegli anni, e noi gli abbiamo mostrato come si coltiva la terra, come si produce. Mio padre, all’età di diciotto anni è andato in Egitto, ad Alessandria di Egitto, a insegnare agli arabi come si fanno le scarpe, perché a diciotto anni mio padre era maestro calzolaio. E noi avevamo la calzoleria. [Gli italiani non vivevano in quartieri particolari], quelli ce li avevano gli ebrei, avevano proprio il quartiere ebreo, il ghetto ebraico, ma gli italiani [stavano] chi di qua e chi di là, non è che eravamo concentrati. No, no, [si] viveva ognuno per conto suo. C’era la scuola italiana a Corfù, che si arrivava al diploma di ragioniere. La scuola, [cioè] i muri, erano di proprietà del Vaticano, e gli insegnanti erano i preti di Torino, quelli che arrivavano da Grugliasco. Io la lingua italiana l’ho imparata a scuola. E perché l’ho imparata a scuola? Perché la lingua del latte è sempre [quella] della madre, e mia madre era una greca, e [allora] io l’italiano l’ho imparato a scuola. [Noi italiani] eravamo gente normale, non c’era nessuna [situazione] di predominanza verso i greci. E siccome eravamo degli ottimi artigiani, insegnavamo i mestieri.
Achille C.
Espulsione
Inizialmente i rapporti coi greci erano buoni, per quello si, si andava d’accordo. Tutto andava benissimo. [Poi] succede che ci mandano via. Io non so perché i rapporti si guastano, dovrebbero chiederlo ai greci questo! Io ho sempre saputo che datosi che l’Italia ha perso [la guerra], i greci hanno detto a noi italiani che dovevamo venire nella nostra patria. Io ero di mamma greca, però. Solo mio papà era italiano. Avevamo la cittadinanza italiana noi, però, solo la cittadinanza italiano, quella greca no. Noi siamo italiani. [...] Siamo andati via nel ’45-’46. A me non è che mi han raccontato tanto, si diceva solo [che] siamo venuti in Italia perché i greci ci hanno voluto rimpatriare nella nostra patria. Noi abbiamo lasciato tutto: la casa, i mobili, abbiamo lasciato tutto, siam venuti senza niente.
Adriana D.
In Grecia han mandato via quelli che potevano lasciare qualcosa, non è che han mandato via tutti! Perché quelli che avevano due nazionalità, a quelli non gli hanno fatto niente. Gli italiani che avevano la doppia cittadinanza, son rimasti. Erano negozianti, commercianti, artigiani, quelli son rimasti tutti. Ma quelli che hanno voluto essere italiani a tutti i costi e, soprattutto, fascisti a tutti i costi, questi qui, appena sono andati via i tedeschi, li han messi su una nave... Nemmeno una settimana ci hanno messo: ci hanno chiamati e ci hanno preso. Ed è importante che tu sappia che c’è differenza tra espulsi e rimpatriati, perché se non ci espellevano, col cavolo che noi andavamo via, [perché ] mio padre aveva tutta la sua roba là, la sua attività e il resto. Voglio esagerare, [siamo stati espulsi] in due mesi, all’inizio del ’45. Hanno iniziato a fare la cernita: tu, tu, tu e han fatto non so quante spedizioni. Hanno preso delle corvette e han detto: prendete tutta la roba che vi serve, e domani partite per l’Italia e sarete portati a Bari. E non potevi far niente, era tardi per cambiare. Ti dicevano: preparatevi, perché domani verremo col camion a prendere la vostra roba, quello che ti lasciavano portare, e vi porteremo in Italia. Potevamo portare poco, un baule, la biancheria, e tutto il resto è rimasto. Tutto il resto è rimasto là. Abbiamo preso solo gli indumenti.
Simone P.
Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia, perché gli voleva spezzare le reni. La guerra l'abbiamo persa, ci hanno sequestrato il tutto e ci hanno imbarcati per l'Italia. Siamo stati espulsi perché italiani. Potevamo rimanere, diventando greci, ma mio papà diceva sempre: italiano sono nato e italiano morirò. Ci han portato via tutto, però mio papà è riuscito a collocare, a vendere qualcosa dai vicini, perché a noi non permettevano di portarci via niente, solo due valigie. Mi ricordo che mio papà era un appassionato di opera e aveva questi quadri dell'Otello e del Trovatore che gli aveva fatto un pittore greco, e lui aveva staccato le cornici e li aveva messi arrotolati nelle valigie ma ce li hanno sequestrati prima di salire sulla nave.
Elisabetta V.
Noi siamo stati gli ultimi, quasi, [a partire] con la speranza che poi finiva tutto questo. E difatti dopo tre mesi è finito tutto, chi è rimasto è rimasto. E’ rimasta mia sorella, mio cognato i miei nipoti, eccetera. La prima grossa massa è venuta via e anzi, quelli sono venuti via quasi volontari, nel 1943. Sono venuti via con la promessa fascista che gli dava qui e gli dava lì, e poi sono arrivati in Italia e han trovato la più fame delle fami! Sono stati traditi, praticamente. Mio papà, siccome che molti italiani avevano fatto qualcosa - e cioè proprietà, eccetera, eccetera - non c’aveva nessun interesse a rientrare in Italia, perché oramai la loro vita era lì, [avevano] tutto lì.
Andrea D.
Noi siamo stati gli ultimi, quasi, [a partire] con la speranza che poi finiva tutto questo. E difatti dopo tre mesi è finito tutto, chi è rimasto è rimasto. E’ rimasta mia sorella, mio cognato i miei nipoti, eccetera. La prima grossa massa è venuta via e anzi, quelli sono venuti via quasi volontari, nel 1943. Sono venuti via con la promessa fascista che gli dava qui e gli dava lì, e poi sono arrivati in Italia e han trovato la più fame delle fami! Sono stati traditi, praticamente. Mio papà, siccome che molti italiani avevano fatto qualcosa - e cioè proprietà, eccetera, eccetera - non c’aveva nessun interesse a rientrare in Italia, perché oramai la loro vita era lì, [avevano] tutto lì.
Andrea D.
[Sono partita] nel ’47. Perché poi i greci non li volevano più gli italiani: il governo di Atene, non riconosceva più gli italiani e noi siamo rimasti in minoranza. [E’ successo] che chi voleva essere rimpatriato è stato rimpatriato, l’Italia ha mandato le navi e ci hanno rimpatriato. Chi [invece] non ha voluto essere rimpatriato è rimasto, però come i greci avevano preso la cittadinanza italiana, gli italiani che son rimasti lì, hanno preso la cittadinanza greca. Tutta là la questione. [Mio padre] non ha voluto [prendere la cittadinanza greca], assolutamente no. Perché lui si sentiva italiano. Diceva: io non posso prendere la cittadinanza greca! [E’ stata una vicenda simile a quella di molti] greci, che quando c’era l’Italia si son detti che andavano a fare il campo di concentramento, piuttosto che cambiare la loro cittadinanza. Se uno si sente italiano, italiano è. Però la maggior parte [degli italiani] avevano i loro lavori, avevano sposato le greche - anche mio padre aveva sposato una greca - ma poi sa, quando uno è italiano è italiano, e quando uno è greco è greco, bisogna dire queste cose. E mio padre ha detto: no, io torno in Italia, vada come vada. Perché poi non era astio, ma era il governo: come quando c’era il governo italiano che aveva detto che i greci dovevano essere cittadini italiani, adesso dovevano diventare tutti cittadini greci. E se non ci state, ve ne andate!
Elena G.
E’ venuta la milizia greca, [e] sapendo che eravamo tutti italiani, hanno bussato [alle porte delle case] coi documenti in mano e hanno detto: se volete restare qui firmate questi documenti, se no prendete le vostre cose che c’è la nave lì. Era pronta, era una nave greca, un peschereccio, che ci ha portato da Patrasso a Brindisi.
Luigi P.
Dopo la guerra, nel ’45 - [in realtà] già nel ’44, quando sono entrati gli inglesi - hanno sequestrato il peschereccio di mio padre. Non ci lasciavano più lavorare.[Lo facevano] per obbligarci a firmare di partire, di venire in Italia. E mio padre ha detto no: io sono qua, sono nato qua, mi arrangerò, farò in modo che non manchi niente a casa mia. Perché mio padre per poter lavorare in Grecia, aveva un socio per poter lavorare. Il socio era greco, era responsabile di tutto e gli passava qualcosa. Ci hanno espulsi perché eravamo italiani. Dicono che l’Italia non aveva la possibilità di pagare i danni di guerra alla Grecia, hanno sequestrato tutti i nostri beni e li hanno messi all’asta. Difatti le due case che io ho a Patrasso - o meglio, che erano mie - son state messe all’asta e son state vendute, mi son spiegato? Il motopeschereccio anche, che poi è andato a finire male perché quando eravamo già in Italia, nel golfo di fronte a Cefalonia è saltato in aria su una mina galleggiante e sono morte otto persone che erano a bordo. Ci hanno espulsi. Hanno avvisato mio padre [dicendogli]: preparati, il giorno tale devi partire. E chiuso. Il mattino che dovevamo partire eravamo pronti: abbiamo messo le poche cianfrusaglie [che avevamo] su un carrello e lo abbiamo portato giù al porto. [Lì] c’era già la motonave - si chiamava Patra - una nave greca, Patrasso, e ci hanno caricati sopra. Non c’erano cabine, non c’era niente. [Siamo saliti] tutti sopra e via di seguito. Ci abbiamo messo tre giorni ad arrivare, perché [la nave] ha dovuto fare per [sfuggire] alle mine un passaggio che avevano fatto gli inglesi. E siamo sbarcati a Bari: siamo partiti il 17 novembre del 1945.
Luigi V.
Nel ’44, una bella mattina il governo greco ha deciso: degli italiani cosa ne facciamo qua? Via! Quando sono arrivati i partigiani e hanno liberato Corfù dai tedeschi, addirittura volevano mandarci subito via. [Invece] ci hanno raccolti tutti gli italiani e ci hanno messo nella fortezza greca, e volevano spedirci in Albania sui motovelieri. E’ intervenuto il parroco - cattolico - che era di cittadinanza inglese - era maltese lui - ed è andato dal comando inglese a parlare: è gente civile, non ha fatto niente, [se] li mandano in Albania muoiono tutti! Allora il comando inglese li ha fermati, ha fatto arrivare una nave - una nave svedese grandiosa, era un transatlantico svedese - ci hanno caricati lì [sopra] e ci hanno portato a Bari. [Ci hanno mandati via] per il fascio, perché noi siamo andati a rompergli i coglioni! Tutto lì, solo per quello: ci consideravano fascisti, ma anche perché eravamo italiani e gli italiani sono venuti a romperci le balle e a farci la guerra alla Grecia. Perché Mussolini voleva il passaggio, e il governo greco non ce l’ha dato il passaggio per andare in Jugoslavia, per andare a occupare la Jugoslavia, capisci? E allora hanno bombardato la Grecia, hanno bombardato Atene, fame, carestia...Sai quanti morti ad Atene di fame [ci sono stati]? C’era una camionetta alla mattina che raccoglieva i morti per le strade perché non c’era da mangiare. [Ci consideravano] nemici. Nemici perché italiani. Loro ci hanno detto: andate al vostro paese, basta mangiare il nostro pane! [Violenze non ne abbiamo subite, ci hanno] solo spediti via, violenze no. Ci hanno sequestrato quello che avevamo - la casa e tutto - tant’è vero che i danni di guerra dell’Italia gli han pagati gli italiani [di Grecia] perché le nostre proprietà le han prese tutte i greci. Con quello che avevi addosso sei andato via.
Achille C.
La sera, come è finita la guerra, ci hanno detto [i greci] di farci gli scatoloni e di prendere il primo merci che c’era e andare in Italia. E [il primo che c’era] andava a Brindisi e siamo andati lì. Ci hanno tolto tutto, ci hanno fatto andare via con quello che avevamo addosso! Né più e né meno, tutto lì. Qua almeno ai veneti [ai giuliano - dalmati] li hanno permesso di portare via un po’ di mobili, che poi li hanno messi in certi depositi, anche se poi è andata a finire [male]. A noi invece niente, dalla sera alla mattina: via! [Invece] a chi optava di diventare greco li lasciavano. Perché dopo la fine della guerra c’era la possibilità di optare, cambiare cognome, firmare o se no prendevi i tuoi stracci e te ne andavi via. Chi ha optato ha continuato a vivere lì: per esempio io ho avuto un paio di zie, la mia madrina - che poi sono andato a trovare dopo un po’ di anni - che loro hanno optato e sono rimasti lì.
Luigi P.
Io sono nata a Patrasso nel 1935. Mia mamma era greca - cioè era italiana ma era stata battezzata in greco, era ortodossa - e mio papà - che era delle Marche - è andato in Grecia che era giovane, con la famiglia, con mio nonno e mia nonna. E son vissuti là. I miei nonni sono andati in Grecia per lavorare. Mio papà lavorava in una fabbrica di uva passa, e mia mamma lo stesso, lavorava lì. E ricordo che mio papà e mia mamma raccontavano che [le autorità greche] erano venute a casa a dirgli: voi tale giorno dovete partire. Preparatevi ad andare che arrivano le navi. E mia mamma si è messa a piangere. Quando mio padre è tornato dall’ufficio che lo avevano chiamato per mandarci via, le diceva: sai, Cristina, dobbiamo andare via, dobbiamo andare in Italia perché qua non possiamo più stare, siamo in territorio greco, sa com’è. E mia mamma si è messa a piangere, perché dice: sono nati i bambini, e dove andiamo? E così abbiamo caricato quella poca roba - la biancheria intima, perché non si poteva portare tante roba - e ci han portati sulle navi. Ci hanno messi nelle navi e ci han portati via.
Elisabetta D.
Dopo la liberazione hanno fatto un governo provvisorio, e una corrente politica di destra cosa ha pensato? Mandiamo via gli italiani e i tedeschi, perché ci consideravano fascisti. Ma una parte, anche perché molti italiani non sapevano neanche cosa vuol dire [essere fascisti], non avevano fatto niente di male, non avevano collaborato materialmente, non avevano fatto niente. L’unica cosa che avevano fatto era gli interpreti, perché conoscevano la lingua, tutto lì. E allora cosa hanno fatto? Per non dire che li avrebbero espulsi, hanno incominciato a togliere il posto di lavoro: tu non hai più il diritto di lavorare da oggi. [Poi] ti toglievano qualsiasi reddito familiare: se avevi una barca o se avevi [qualcos’altro], te la portavano via. Mio papà aveva venticinque ettari di giardino - era ricco mio padre - e ci hanno tolto tutto...Mia madre - pensa - è andata sul quel terreno a tagliare due limoni e ha fatto due mesi di galera. Non potevi toccare niente! Sia all’inizio del ’40, sia alla fine del ’45. Tutti gli italiani che lavoravano nei vari posti, non potevano più andare a lavorare: se avevi capitali va ben, altrimenti morivi di fame. Noi siamo stati un anno in più perché ? Perché mio papà aveva un po’ di scorte di soldi e amici greci che alcune barche le aveva messe a nome di loro, e noi lavorando con loro potevamo andare avanti. Però arrivati a un certo punto anche quello era diventato vietato. E allora cosa hanno combinato? Hanno tolto tutto: non potevi avere diritto né di lavorare, né di esercitare, niente. O ce la facevi se avevi dei soldi o niente. Che poi se venivano a sapere che avevi dei soldi in banca, te li portavano via, proprio come glieli hanno portati via a mio papà nel ’40. Ecco, queste sono state le sofferenze. Hanno costretto gli italiani a firmare la famosa carta di rimpatrio: invece non era un rimpatrio, era per necessità! Era una minaccia, una violenza.
Andrea D.
In Grecia [noi di Patrasso] eravamo la comunità [italiana] più grossa. Eravamo migliaia a Patrasso, c’erano delle vie con nome italiano. E ci hanno espulsi perché eravamo tanti. [...] Ci han requisito la casa, e ci hanno messo dentro una famiglia greca, prima che andassimo via, ma [siamo stati con loro] poco tempo [perché poi siam partiti]. E allora mi ricordo che mia madre per prendere i mandarini e gli aranci chiedeva a questa donna il permesso, perché non era più padrona. Ma siamo stati in casa con loro poco tempo. E questa donna - brava - diceva a mia madre: signora, ma cosa mi chiede a me il permesso per prendere la sua roba? E’ una cosa ridicola! Però non eravamo più padroni. Però a noi dopo tanti anni ci han riconosciuto i danni di guerra. Ora, io non so quanto la nostra roba potesse valere, però ci han dato 1.050 Lire, che con quella cifra lì in quegli anni forse si comprava una camera!
Luigi B.
Non c’era più la possibilità [di rimanere], mio papà ha tentato. Ma non c’era più la possibilità. Si, anni prima potevi prendere la cittadinanza greca, ma prima. Però mio padre - non so per quale motivo - non ha voluto. Ma non solo mio padre, [anche] tanti altri, tutti quelli che siamo qua. Ha detto: siamo nati italiani, e italiani moriremo. C’era anche l’orgoglio patrio, come si dice. Anche se eravamo nati lì, non vuol dire niente quello: io sono nato italiano, e penso che italiano morirò. Non diventerò mai un greco. Voglio bene alla Grecia, per carità, però… Io sono cattolico, anche se non vado mai in chiesa!
Luigi V.
L’unica cosa che non potevamo portare via erano i soldi: quelli che avevamo dovevamo dichiararli. Ne potevamo portare un
tot, un massimo. Poi noi stabili da lasciare a loro non ne avevamo, e loro si sono confiscati le ville e queste cose qua. Mio padre quando aveva lavorato sotto gli inglesi, aveva parecchie sterline. E allora mia mamma cosa ha fatto? Le sterline non si potevano portare via, specialmente quelle d’oro. Quelle di carta le abbiamo cambiate, perché stavano nel tot del capitale, e invece [per] le sterline d’oro che erano fuori [dall’importo consentito], mia madre diceva adesso come faccio? Mia madre dice: ma questo è il sudore di mio marito, perché glielo devo dare a loro? Allora cosa ha fatto? Ha tagliato la fodera del cappotto -sotto- cioè il pezzo dell’orlo del cappotto, e si è fatta i bottoni di stoffa. E dentro ci ha messo le sterline con l’ovatta intorno. A ogni bottone ha messo le sterline [d’oro]. Quelle di carta [invece], ha fatto dei filoni di pane la penultima giornata prima che dovevamo imbarcarci. Allora, da una parte ha messo le sterline di carte avvolte nella carta e le ha impastata. Anzi, il fornaio le diceva Maria vai, che tanto io so quanti filoni hai portato, anche perché non solo mia madre ha fatto questo lavoro. Lei per paura che si bruciasse restava là, e le diceva: Emanuele, guarda che non si bruci il pane, perché poi per i bambini è duro. Perché lei aveva fatto i filoni per portarli sopra la nave: allora da una parte tagliava le fette e dall’altra aveva i soldi. Perché diceva: questi non li abbiamo rubati, son soldi nostri. Queste cose si, me le ricordo.
Elena G.
[Le partenze avvenivano] a scaglioni. Ci avvisavano, ci trovavamo giù al porto, ci caricavano sulla nave e via, una nave dietro l’altra. [La città] si è svuotata, completamente. Il quartiere italiano, ma poi anche in tutti i più bei posti di Patrasso. Veniva la polizia e ci avvisava: domani mattina dovete partire, portate poca roba con voi e niente. [E se qualcuno si rifiutava] lo prendevano di brutto e lo portavano sulla nave, scherziamo! Non li davano più la possibilità di lavorare, perché già tanti italiani non sapevano più cosa fare. In quanto italiani non li davano più la possibilità di lavorare.
Luigi V.
[Le autorità greche] vengono a casa e ci dicono: voi dovete andare via, dovete tornare al vostro paese. Ci chiamavano cani italiani. A noi ci hanno avvisato cinque o sei giorni, al massimo una settimana prima. [Con noi non abbiamo portato] niente. Io avevo un bauletto molto piccolo, dove dentro ci avevo messo gli effetti personali e basta. Non avevamo niente. Poi si, chi magari aveva dei soldi li nascondeva, però noi siamo venuti [via] con niente. [Siamo partiti] - mi sembra - nei primi del ’46, gennaio, quel periodo lì. Però le partenze son state scaglionate, perché erano navi da guerra. Ti portavano [al porto], cioè andavamo al porto di Patrasso, ti caricavano sulle navi e siamo andati via.
Luigi B.
La dogana mandava a dire: domani arriva [la nave]. Avevano la lista dei rimpatriati e dicevano: domani arriva la nave. E mi ricordo che la nostra nave si chiamava Toscana ed era del Vaticano. Perché sia il Vaticano mandava le navi, sia il governo italiano. E allora ti dicevano otto giorni prima che il tale giorno arrivava la nave e ti dovevi preparare. E noi qualche mobile e qualcosa ce lo siamo portati, perché sulla nave si poteva portare un tot di bagagli. E poi la mattina andavi alla dogana, passavi la dogana e partivi. C’erano i controlli. Perché mi ricordo uno che aveva fatto inghiottire le sterline d’oro al cagnolino e lo teneva in braccio. E quando eravamo poi sulla nave si scoprivano tutte queste cose! A mia madre avevano detto: signora, cosa deve fare con tutti questi filoni [di pane]? E lei gli aveva detto: io ho quattro ragazzi dietro, cosa gli do [da mangiare]? Otto giorni [di viaggio] ci abbiamo impiegato, prima di arrivare a Venezia. Ci abbiamo impiegato otto giorni, che adesso si va in otto ore! E gli dice: cosa gli do ai bambini da mangiare? Il pane! Perché qualcosa sulla nave ci davano, ma un panino e poco altro. E lei, subito, per paura che la scoprissero, aveva detto [al soldato]: ne volete una fetta?
Elena G.
Finita la guerra, nel ’45, i greci erano alleati con gli inglesi e i francesi, [...] e alla fine della guerra, ci hanno detto: giovedì voi dovete prendere la nave. E io l’unica volta che ho avuto paura è [stata] quando ci hanno imbarcato sulla nave da guerra, perché prendevamo dei colpi che dicevo: qui va a finire che andiamo tutti giù! Ci hanno espulso, son venute le autorità greche, [che rappresentavano] il Governo provvisorio di Atene, che aveva detto che dovevamo andare via. [Si doveva andare via] perché eravamo cittadini italiani, e gli italiani avevano attaccato la Grecia, erano diventati nemici. Perché mio padre ad esempio non si sognava mai più che sarebbe successa una cosa così, altrimenti nel ’36 [avrebbe forse agito diversamente]. Ad esempio io ho due zie che hanno sposato dei cittadini greci, e sono ancora là. Lui non si sognava mai più che potesse succedere [una cosa simile], ma chi se lo sognava? L’unica cosa che mi diceva mio padre - che lui è morto poi nel ’50 - [era questa]: non fate mai niente in casa degli altri! Ecco, perché la stessa fine l’han fatta anche gli italiani in Tunisia. Perché scusi eh, quando lei va in casa degli altri, può dominare con la forza, ma quando arriva il momento e gli altri si ribellano, ti buttano dalla finestra, eh! [Perché gli italiani in Grecia] hanno imposto certe regole: [prima] eravamo rispettati, nessuno ci aveva mai toccato niente, [mentre] a un certo punto eravamo mal visti. Praticamente eravamo tutti nemici, ed eravamo tutti fascisti. Ci dicevano fascista vai via! Anche perché poi, mi scusi, ma i fascisti se la sono presa con una pese povero, più povero di noi! E i tedeschi erano armatissimi, ma noi cosa avevamo? Niente!
Luigi B.
Guerra
Nel '41 morivano per strada. Noi eravamo in campagna, e magari un po' di grano e un po' di olive l'avevamo, ma in città morivano da matti. Invece i tedeschi quando facevano l'attentato [i partigiani], venivano in paese col lanciafiamme e lo rasavano. Pensi che da noi a Patrasso - dove c'era il coprifuoco alle sei - c'era un tedesco che girava con la moto e [guardava che non ci fosse] nessuno [che] girava [per le strade]. Guardi che i tedeschi sono una razza cattiva! [...] Ero piccolo... Dopo l'8 settembre han preso in mano loro il potere... Ma dopo l'8 settembre, tanti italiani i greci li nascondevano, capisce? Perché si erano comportati bene, poi quando siamo andati contro i tedeschi è cambiato.
Luigi B.
Della guerra mi raccontava mia madre che al tempo dei bombardamenti ci portavano in un posto che era chiamato Silalogna, dove c'erano dei rifugi. Perché lì lavoravano anche i miei fratelli più grandi, che in queste montagne facevano i vasi e avevano proprio dei magazzini, dove avevano queste pedane per far girare i vasi. Ecco, in queste gallerie si andava e quando finiva la sirena [dell'allarme aereo] si tornava a casa. Tutto lì quello che mi ricordo e mi hanno raccontato.
Luigi P.
[...] Nel '45 bombardavano, cioè arrivavano gli apparecchi [a sganciare le bombe]. Nel primo bombardamento che han fatto a Patrasso, hanno bombardato le scuole italiane. Io non so che mire avevano questa gente! Mia cugina - che adesso è in Toscana - e che all'epoca andava a scuola, era in vacanza quel giorno lì [altrimenti sarebbero morti].
Luigi B.
Borsa nera? No, [non c'era]! Ma lei [a Patrasso] neanche alla borsa gialla trovava da mangiare, non trovava niente! Lei pensi che c'era tanta uva, uva secca, uva passita, e tanti fichi secchi, che i greci li esportavano e non sapevano più come fare. Allora cosa facevano? Macinavano l'uva, macinavano anche i fichi da parte, poi coi fichi facevano una sfoglia, mettevano l'uva dentro e la chiudevano a forma di un
domadaki. E poi lo mettevano al forno e andavano a venderlo, e la gente mangiava quella roba là. Dopo tre o quattro giorni gonfiava [lo stomaco], perché non essendoci olio e non essendoci niente... Morivano per strada sa? C'era il carro che passava [per le strade] la mattina a caricare i morti che morivano di fame, sa com'è...
Luigi V.
Ogni famiglia di noi italiani di Patrasso ha la sua storia. Ad esempio la mia famiglia era socialista, è rimasta socialista, hanno combattuto contro i tedeschi. [Inoltre] voglio precisare che nel '40 c'è stata una grande fame, [ci sono state] grandi disgrazie: in Grecia e nelle città non c'era niente! Pensa che potevi dare un chilo d'oro per avere una pagnotta e non c'era: i tedeschi e i fascisti avevano requisito tutto. Le città si son vuotate, la gente girava per le campagne e qualsiasi erba che era masticabile la portavano via. C'è stata una grande fame: migliaia e migliaia di greci - e anche di noi italiani - morivano di fame. Poi hanno dato [agli italiani] dei piccoli sussidi, che li aveva ricavati il consolato, ma non soldi, solo roba. All'epoca c'era solo di apprezzabile la roba: un chilo di pane ero oro! Poi la Grecia è stata conquistata dagli italiani e dai tedeschi, e nel settembre 1943 è venuto l'armistizio. Mi ricordo che lì vicino a me, c'era una caserma di una compagnia di Alpini - artiglieria di montagna coi muli - e io li frequentavo, perché andavano sempre a pescare al mare, [...] ed eravamo diventati amici. Bene, è venuto l'armistizio e molte compagnie italiane hanno scelto di andare coi partigiani. Quelli che volevano andare coi partigiani se li prendevano li fucilavano, [mentre] ad altri i fascisti e i tedeschi avevano detto: venite con noi, vi mandiamo a lavorare in Germania e siete liberi, e invece hanno pagato con la vita molti soldati italiani. E allora è nato il movimento partigiano, che in realtà già c'era il movimento partigiano greco, ma dopo il '43 si è allargato: molti soldati italiani e molti borghesi come me e i miei fratelli, hanno scelto la libertà, hanno scelto di collaborare coi partigiani per la libertà della Grecia, come tutto il mondo.
Andrea D.
Quando sono arrivati gli italiani in tempo di guerra, che lì c'è un mucchio di fossi, gli italiani mangiavano le rane. E i greci - ma anche noi - [dicevamo]: ma come, questi qua sono quelli che ci vogliono insegnare a vivere!? Questi che mangiano le rane! Perché lì le rane guai a toccarle... Carne di cavallo non ne parliamo: lei se vuole fallire non deve che aprire un negozio di carne di cavallo! Non la toccano neanche. Il cavallo è l'animale sacro. A noi, siccome mio papà [li conosceva], venivano due soldati italiani e ci portavano qualche volta dei pezzi di carne di cavallo: io la mangiavo, facevamo lo stufato, perché nel '41 [le persone] morivano per strada, però; i greci la carne di cavallo non la toccano.
Luigi B.
[Della guerra mi ricordo] i bombardamenti, il rifugio. Andare a dormire con le scarpe, vestiti, e non andare sul letto di sera, cioè buttarti vestita così sul letto per poter scappare. Questo è il mio ricordo dei bombardamenti. [Ricordo] anche gli
stukas, [e cioè] quegli apparecchi che scendevano bassi bassi con le mitraglie. [Poi ricordo] la fame. Ah la fame, si! Io vedevo gente che moriva gonfia fuori nelle strade, e anche se sei piccola, queste cose non le dimentichi. Si gonfiavano dalla fame. Mi ricordo parecchia gente che li vedevi gonfi che morivano. E dicevano che dalla fame morivano, perché non c'era niente e forse bevevano solo acqua, non lo so. Queste cose [però;] me le ricordo.
Elena G.
Mi ricordo che il primo bombardamento è stato sulla scuola italiana. Ma non ci son stati tanti bombardamenti, perché Patrasso era una città che non c'era quasi niente, perché d'industria lei sa benissimo che in Grecia c'è quasi niente. Io so che c'era una specie di avvallamento di dieci metri - scavato dai greci - per fermare i carri armati quando sarebbero arrivati. Allora minavano i ponti e i porti, e i greci andavano a prendere le mine per buttarle nel mare e prendere i pesci, e ogni tanto dicevano: ah, è saltato uno! E allora andavano in giro coi ceti a raccogliere qualche pezzo. [Minavano] i tedeschi. Loro prendevano le mine per adoperarle, però; poi magari muovendole, qualcosa saltava. Io della guerra mi ricordo poco perché avevo dieci anni, ma se ci penso ricordo anche che noi avevamo un tedesco che era nostro amico, e che c'erano [anche] due [soldati] italiani che venivano a casa nostra. E una volta mio padre - che quel tedesco doveva essere di licenza - è andato per aprire i fossi, perché dentro avevamo un po' di roba da mangiare. Ma si vede arrivare un altro tedesco - al posto dell'altro - e quasi, quasi lo ammazza. Poi dopo l'8 settembre, quando son venuti giù i partigiani - che sono arrivati con delle barbe!- mia mamma si è messa per terra, perché son venuti e ci han messo in fila che volevano fucilarci tutti. I partigiani greci questo, quando son venuti giù. [Volevano fucilarci] perché eravamo italiani! Dopo l'8 settembre c'è stata la rottura, dopo che i tedeschi han cominciato a scappare, sono arrivati questi partigiani. Ci han messo in fila, ci han detto: siete italiani! E
bum,
bum volevano [fucilarci], ma noi non avevamo fatto niente di male. Diciamo che sono stati rovinati i rapporti col fascismo, perché le ho detto, dicono [italiani e greci] una faccia una razza!
Luigi B.
[Patrasso] si, è stata bombardata. Poi i greci, giustamente, quando andavamo nei rifugi ci mandavano via, dicevano andate [via]. C'erano quelli che non lo facevano, erano nostri amici - ancora adesso ho degli amici meravigliosi - [ma] c'era [anche] quello che non capiva e diceva: vai fuori, tanto Mussolini non ti bombarda a te, perché sei italiano. Capisci? Ma quella era la gente ignorante, erano quelli che non capivano. Ma la gente che capiva, diceva: ma cosa ne possono [loro]? Poi vennero gli italiani e lì [allora] venivano gli inglesi a bombardare. Stavamo sotto i bombardamenti e via di seguito. Il primo giorno di bombardamento - il 28 ottobre 1940, e lo può; sottolineare -, la prima bomba che è caduta a Patrasso è caduta sulla scuola italiana. Però; noi non eravamo a scuola, perché il 28 ottobre 1940 era [l'anniversario] della marcia su Roma.
Luigi V.
A Cefalonia il generale era antifascista, era un repubblicano che non accettava e non era d'accordo con la guerra che era stata sviluppata. E quando [c'] è stato l'armistizio non ha accettato di andare coi tedeschi. Che poi i tedeschi dicevano: i soldati che si arrendono vengono con noi, andranno a lavorare in Germania, nessuno li tocca, eccetera, eccetera. La propaganda inglese, e un movimento greco di sinistra, avevano buttato dei volantini [che dicevano] resistete italiani e noi vi porteremo armi, vi butteremo le armi! C'erano 10.000 italiani lì. Gli italiani hanno combattuto contro i tedeschi, e se avevano le armi, i tedeschi buttavano a mare gli italiani. Ma avevano finito le armi, non avevano più un proiettile... Che poi ci avevano promesso che dalla parte della Cefalonia Nord li aspettavano con le barche a portarli via dall'altra parte dove c'era il movimento partigiano. E invece tutto questo [non è successo] e li hanno traditi. E lì sono morti tantissimi italiani così. [Loro] sono stati traditi dalla propaganda inglese e da un movimento di sinistra greco, ma non era neanche di sinistra, era monarchico, ed è poi lì che si sono scoperti tutti gli intrallazzi. Perché da questa parte c'era il generale Marcos che comandava tutto il movimento partigiano greco... Diciamo che, praticamente, c'è stata molta confusione.
Andrea D.
[Del periodo della guerra], ricordo quando suonava l'allarme e venivano gli aerei a bombardare. [Ricordo] la fame, e poi anche quando c'erano gli italiani. Quando c'era l'occupazione italiana, abbiam fatto la fame anche noi, non creda mica, eh! Non c'era da mangiare, non c'era niente, non si trovava il pane. I greci morivano completamente, mentre a noi ci davano a scuola un pezzettino di pane così, [piccolo come il palmo della mano]. Ce lo davano alla scuola italiana che andavamo. E io mangiavo un pezzettino così, mentre il resto lo portavo a casa da mia mamma, se no mia mamma moriva di fame anche lei, poveretta! C'è stata tanta fame! Io le dico solo una cosa: ancora adesso, quando finisco di mangiare e rimane un pezzettino di pane, non lo butto via, lo metto da parte in un sacchetto. Perché ho avuto troppa fame nella mia vita, troppa.
Luigi V.
[Quando sono arrivati i tedeschi], ricordo che alla sera c'era il coprifuoco, che passavano le ronde tutti i momenti. Mi ricordo anche che se trovavano qualcuno lo portavano in carcere. Un po' poi sono scappati o si erano nascosti durante la guerra. E quando sono venuti i tedeschi c'era chi scappava, come ad esempio i turchi. Gli ebrei no, li hanno portati via immediatamente. Li mettevano nelle navi e li portavano fuori come schiavi, quello me lo ricordo. Lo ricordo perché nella nostra via c'erano parecchi ebrei, che avevano i negozi - molti erano orefici - ed erano gente molto ricca. Ebrei molto ricchi. E i tedeschi venivano a prenderli, li portavano via legati e poi li mettevano sopra le navi. Certe navi poi le bombardavano, perchè dicevano che erano le navi dei tedeschi. Dicevano che le bombardavano, ma era vero, perché io mi ricordo che quando c'erano i tedeschi, ho visto dei cadaveri al mare.
Elena G.
Il rapporto con i greci era buonissimo, solo che poi quando scoppiò; la guerra, sa com'è, i greci, giustamente... Quando scoppiò; la guerra, hanno preso mio padre e tutti i miei fratelli dopo i sedici anni e li hanno portati in campo di concentramento. Chi li hanno portati ad Atene, chi a Cochignà. Li hanno portati ad Argos... Li hanno portati, insomma, in tanti paesi. [Lo hanno fatto] perché eravamo italiani. Eravamo prigionieri, prigionieri di guerra. [Gli italiani] erano considerati nemici. C'era, magari, quel greco che capiva, [che diceva] che se Mussolini aveva dichiarato guerra alla Grecia noi cosa c'entravamo? [...] Mio padre, [ad esempio], l'hanno preso e l'hanno portato a Cochignà, ad Atene. Un campo di concentramento nei dintorni di Atene. Ed è stato sei mesi, finché non sono entrati poi gli italiani. E noi a Patrasso, a quei tempi là, mia mamma è rimasta con sei figli, eh!
Luigi V.
Il viaggio
[Il viaggio] si, me lo ricordo. Era un lunedì pomeriggio, una bella giornata di sole, e mio fratello e gli altri suonavano e cantavano con le chitarre, anche perché sa, un giovane non può capire queste cose. Io quello che ricordo benissimo è che vedevo le lacrime e la disperazione dei miei [genitori], perché dopo trenta o quaranta anni di sacrifici, [riuscire a] prendersi un pezzo di terra e una casa [per poi] doverli abbandonare. Che poi tanti sono morti anche di disperazione, perché non si può vivere trenta o quaranta anni in posto, farsi una famiglia [e poi] trovarsi su una nave e non sapere dove si va a finire e che vita si farà. La disperazione è stata forte, questo me lo ricordo anche se avevo dieci anni. I visi disperati me li ricordo. Tante volte mia madre se piangeva, piangeva di nascosto, per non farsi vedere da noi figli. E ricordo sempre le parole di mio papà: non fate mai niente in casa degli altri! E lui purtroppo nel ’36 non ha voluto [prendere la cittadinanza greca], perché mia cugina mi han detto che glielo avevano chiesto, ma lui non ha voluto. E quando siamo andati via era invece tardi, non c’era più il diritto di cambiare nazionalità, capisce? [Comunque durante il viaggio] c’era il mare mosso, poi di notte, c’era paura che la nave andava a fondo, perché era una nave disastrata, erano navi di guerra per portare via i profughi. Era una nave italiana. Ci abbiamo messo un giorno, un giorno e mezzo per arrivare a Bari. E la prima cosa che ci han detto in italiano è stata: state attenti che qui rubano!
Luigi B.
[Partiamo] da Patrasso il 17 novembre [1945]. C’era la Croce Rossa che ci ha dato un pacco dono per ognuno. [Dentro] c’era latte condensato, c’erano biscotti, c’era del prosciutto convenzionato. Sai, tutte quelle cosa che danno con la Croce Rossa Internazionale, giù a Patrasso. Poi, dopo due giorni - adesso non ricordo precisamente -, due o tre giorni di viaggio, ci fu una mareggiata che non le dico! [Ricordo] tutte le donne che rimettevano sulla nave... Dopo due o tre giorni di viaggio, siamo arrivati a Bari e ci hanno messo in questo garage.
Luigi V.
[Del viaggio] ricordo che abbiamo trovato una tempesta, che tre o quattro sono morti, e poi ricordo vomiti, eccetera. Che quando ci hanno sbarcati più di cento persone le hanno portate all’ospedale e alcuni erano morti, per cui abbiamo passato un momento difficile. Quasi andavamo a fondo. Eravamo cinquecento o seicento famiglie, le ultime ad andare via. Il primo scaglione son venuti [via] quasi per le promesse, di volontà. Che sono stati ingannati dalla propaganda fascista. Loro son venuti nel ’44, c’era ancora la guerra. Ma la differenza c’è poca, ma noi siamo stati l’ultimo scaglione: ci han sequestrato tutto, tutto. Come dire: sei lì, se c’hai soldi in tasca vivi, se no crepi! Nessun diritto! Guai se un greco prendeva un italiano a lavorare, guai! Finiva peggio che l’italiano.
Andrea D.
Ci hanno detto che a tale ora erano andati dal consolato italiano, e son stati obbligati a dire che a tale ora voi sarete qua, e poi ci hanno dichiarato la partenza. Avevamo portato il necessario e più di quello non potevi portare, perché di più era proibito, e ci siamo trovati coi militari e la polizia a imbarcarci sulla nave. Una nave greca, di quelle navi da cinque o sei mila tonnellate che le facevano in America Latina. Era una nave da carico, non da passeggeri. La gente si è buttata sotto le stive e molti sono morti anche in viaggio, che abbiamo trovato mare brutto, e ci hanno sbarcati al porto di Bari, nel 1945. Novembre del 1945.
Andrea D.
[Del viaggio, mi ricordo] solo che son stato male! Un mal di mare! Perché stavamo nelle stive, non è che c’erano cabine. Stavamo dove mettevano le auto e i camion, tutti per terra su delle coperte e stop. Questo è stato il passaggio da Patrasso a Brindisi.
Luigi P.
[Da Rodi] tanta gente è andata via, perché alla fine lì noi italiani eravamo la maggioranza. [Siamo partiti] a scaglioni, una volta al mese arrivava una nave. [Noi siamo andati via] alla fine di aprile del ’47 e siamo arrivati a Tortona a maggio. [Il viaggio è stato] brutto! Ogni tanto ci fermavamo e ci dicevano: mettetevi i salvagente! [Lo dicevano] perché c’erano ancora le mine: ecco perché ci abbiamo messo otto giorni ad arrivare fino a Venezia, nell’Adriatico. Perché c’erano le mine, e questo me lo ricordo, tantissimo. Dalle cuccette, ogni notte, sempre ci dicevano scendete e mettete i salvagente. La nave si chiamava Toscana e avevano detto che era del Vaticano, cioè che era mandata dal Vaticano. [Sulla nave] c’era l’assistenza: c’era il medico, c’erano le infermiere, c’era tutto. Però c’era poco da mangiare! Era appena finita la guerra... Ci davano un piatto cotto e ai bambini alla mattina davano il latte. No, no, su quella nave l’assistenza c’era, poi [sulle] altre non lo so.
Elena G.
Lì c’è stata proprio una violenza, perché tutto quello che avevamo a casa ce lo hanno portato via, lo hanno sequestrato tutto. Ci hanno imbarcato il 25 novembre del ’45 con una coperta, solo la fede e nient’altro. Mio papà, fortunatamente, aveva degli amici greci e uno di questi ci aveva fatto una cassetta, un baule [di legno] e dentro aveva scavato [un buco] dove ci aveva messo sterline d’oro che aveva mio papà. E le aveva messe dentro con quelle poche coperte che hanno lasciato, l’ha legato con una corda e quel baule è stata l’unica cosa che ha potuto passare. [Solo quello] e nient’altro. Mia mamma aveva una bella collana, ce l’hanno strappata! Ci hanno imbarcato in una nave - una nave che non ti dico - e quando siamo entrati nel mediterraneo quasi andavamo a fondo. Il 28 novembre del 1945, ci hanno sbarcati al porto di Bari. A Bari vecchia ci han mandato, dove c’era un vecchio genio.
Andrea D.
Siamo partiti nel mese di ottobre del 1945, con tutta la famiglia. Io avevo otto anni quella volta, però mi ricordo che stavo tanto male. Abbiamo viaggiato in nave da Patrasso a Bari. Poi da Bari ci hanno trasferito con la tradotta a Bologna, in un padiglione che io mi ricordo che avevo tanto freddo, perché era pieno inverno, novembre o dicembre era, ed ero senza niente. Poi il destino o il signore non so, ha fatto scoppiare un caso di morbillo e allora noi eravamo infettivi e ci hanno messo in quarantena in una casa littoria. Lì ci hanno dato dei materassi e delle coperte e, devo dire la verità, stavamo bene. Ci chiamavano con il megafono alla mattina di svegliarci che la colazione era pronta e te la portavano su e ci lasciavano i vassoi per la paura di attaccarsi il morbillo. E lì abbiamo fatto un bellissimo Natale, pieno di regali, perché eravamo tutti di noi, tutti dalla Grecia. Poi di lì ci trasferiscono subito dopo Natale e ci mandano a Novara.
Elisabetta V.
[Il viaggio...] Guarda, era una corvetta. Che ci hanno caricato là ed eravamo non so quante famiglie: la corvetta era aperta, ed era il periodo invernale. Se mi ricordo eravamo vicini a Natale, era un mese prima di Natale, era novembre, fine ottobre-primi di novembre. E noi abbiamo fatto una traversata che, porca miseria... Abbiam trovato il mare [grosso] e alcuni bauli sono caduti, perché non erano protetti, ognuno trovava il posto dove poteva. La corvetta - non so se hai presente - non aveva cabine, non aveva interni. Ed è stata una traversata tremenda! Siamo arrivati al porto di Bari, e abbiamo trovato un altro macello lì: c’è stato un bombardamento che ha affondato tutte le navi, e per entrare poi al porto, abbiamo dovuto fare [una fatica]... Perché là, un mese prima, era successo il finimondo: era scoppiata una nave piena di munizioni e ha fatto una deflagrazione [che] ha spaccato tutto, anche le navi che erano vicine a lei.
Simone P.
Ci hanno mandati via: basta mangiare pane greco, ci han detto! Ci hanno messi nella fortezza militare di Corfù, perché a Corfù c’è un castro, una fortezza militare, che lì era caserma dei greci, è sempre stata caserma. Ci hanno messi là dentro, [anche] perché dove vuoi che ci mettano? Eravamo quasi 3.000 cittadini eh! Quasi 3.000 italiani, non eravamo pochi. [Poi] è venuta la nave svedese, ci ha caricati e ci hanno portato a Bari. Era l’ottobre 1944. Il viaggio son sei ore, neanche sei ore di viaggio. Il viaggio niente, eravamo buttati lì [sul ponte] a dormire, ma non facevi in tempo [ad addormentarti] che eri già a Bari. Siam venuti con niente. I soldi niente, che soldi che non c’erano soldi quella volta! E’ tutto rimasto lì. Non è come l’esodo dei polesani. Noi niente, via, a calci in culo! [C’era] tristezza, perché dopo tutta una vita intera, dopo tre o quattro generazioni che eravamo lì, di colpo ci troviamo via, levati dal paese nativo. Sai, vuol dire eh! Via, via, ci hanno mandati via. Siete venuti a occuparci, ci avete fatto la guerra, andate nel vostro paese, andate a mangiare il vostro pane! Il nostro pane l’avete mangiato per tanti anni, capito?
Achille C.
Propaganda fascista
Mussolini una volta al mese a noi cittadini italiani ci dava un pacco [contenente] lo zucchero e la pasta. Ci dava gli spaghetti! Noi eravamo in otto in famiglia e i miei fratelli - questo mi è rimasto - quando c'erano gli spaghetti, per mangiarne meno io, mi dicevano che erano dei serpenti! No, comunque noi eravamo visti bene dai greci: dopo l'8 settembre, perché i tedeschi erano tremendi. Mi ricordo che avevano dei convogli dei treni, che davanti al treno c'era un vagone aperto, tutto col filo spinato intorno e la gente - i prigionieri - dentro, così se saltava qualche ferrovia [morivano anche i prigionieri]. Perché loro ferrovie ne avevano poco o niente, non era sviluppata la ferrovia greca. Erano buonissimi i rapporti, che si sono guastati quando l'Italia ha dichiarato guerra alla Grecia, se no noi eravamo ben visti. Poi dopo la faccenda della guerra a noi i greci ci chiamavano cani italiani, ma noi non avevamo fatto male a nessuno. E dopo la guerra ci hanno proprio espulso!
Luigi B.
Noi eravamo in Grecia come cittadini italiani: c'erano le scuole italiane, e i miei fratelli - che erano più grandi - le hanno frequentate. Mussolini li mandava anche a fare le vacanze a Rimini e a Riccione. Invece io a scuola sono andato qui in Italia, perché - logicamente - nel '45 bombardavano.
Luigi B.
Eh, la miseria, [noi coi greci] eravamo d'accordissimo! Perché poi anche i miei due fratelli più vecchi, diciamo, uno del '20 e l'altro del '22, avevano le fidanzate, andavano a ballare, andavano con le ragazze in tutti i paesi dei dintorni di Patrasso. Eravamo ben voluti, ma bene. Solo che poi dopo, per quello che è successo... Perché poi dopo il fascismo hanno bastonato un po' i greci nel periodo della guerra. Hanno combinate di brutte cose. Come ne hanno combinato i tedeschi a noi e così via. E allora c'è stato un odio verso gli italiani, però;, attenzione, poi andavano a cercare chi li ha fatto del male. Se io ti faccio del male a te, poi dopo tu ti rifai, eh! Anzi, dirò; di più, i miei due fratelli che nel periodo della guerra erano in servizio militare, li hanno salvati, perché altrimenti ti buttavano nel Canale di Corinto. Il Canale di Corinto era pieno di italiani. Un po' come nel Veneto che c'erano le foibe, in Grecia li buttavano nel Canale di Corinto. Pieno era. Questo raccontato dai miei fratelli, che lo hanno visto. [...] C'era l'italiano fascista, andavano a caccia dei fascisti!
Luigi P.
I greci ci sopportavano, diciamo così. Ci sopportavano perché noi eravamo... Ma non eravamo tutti fascisti, intendiamoci, lo facevamo per interesse. [Lo facevamo] perché c'erano le scuole gratis, c'era la mensa scolastica e non pagavamo niente, quaderni, libri...Tutto arrivava dall'Italia, persino i grembiuli. Arrivava tutto dall'Italia, capisci? [...]. Noi ci sentivamo italiani. Mio padre - [ad esempio] - non ha mai voluto prendere la cittadinanza greca, non so per quale motivo, comunque [non l'ha mai presa]. Diceva: a me io son qui in Grecia e nessuno mi tocca, tutti mi vogliono bene, anche i greci, e perché devo cambiare cittadinanza? Perché devo diventare greco se sono italiano? Perché poi c'entrava anche la religione: i greci sono ortodossi, noi eravamo cattolici. Ma non puoi cambiare religione: se sei nato cattolico, finisci cattolico. Io almeno la penso così. Senza nulla togliere ai greci, per carità.
Luigi V.
Gli italiani in quel periodo, [specialmente] i giovani, erano un po' fanatici. Cioè, c'era un po' quel fanatismo tra i giovani. Ad esempio mi ricordo che anche noi piccoli... Noi eravamo sempre vestiti da balilla e tutte quelle cose lì. Cioè, a scuola si andava sempre con la divisa e man mano che si saliva fino agli avanguardisti. Perché là poi c'era il governatore, lì [a Rodi] comandava l'Italia e basta. E quando c'era il fascismo - ma era un periodo minimo - allora c'era un po' di fanatismo. [Il fascismo] non ha proibito niente. L'unica proibizione era la scuola.
Elena G.
[Patrasso] era una cittadina della Grecia sul mare, ed era al massimo amica con l'Italia. Perché in Grecia sa cosa dicono? Italiani e greci, una faccia, una razza! C'erano buoni rapporti tra noi. Mio papà non ha mai avuto nessun fastidio. Solo che in tempo di guerra - cosa vuole - li han presi e li han messi in un'isola, cioè li hanno internati per paura. Il governo greco, essendo che l'Italia ha attaccato la Grecia ha internato gli italiani per paura che facessero qualche atto di sabotaggio, perché erano cittadini italiani. Nel 1936 a mio papà ci avevano proposto di diventare cittadino greco, ma lui non ha voluto, cosa vuole che le dica io! Patrasso era una città della Grecia e l'Italia forse voleva fare vedere ai tedeschi che era forte, e allora cosa ha fatto? Se l'è presa con gli albanesi e coi greci, però; se non arrivavano i tedeschi, gli italiani erano ancora in Albania, perché strade non c'erano e si impantanavano, capisce? Sono entrati dentro in Grecia, portati dai tedeschi perché da soli [non ci sarebbero riusciti]. Perché sa, Mussolini faceva vedere lucciole per lanterne, eh! L'Italia ha attaccato la Grecia, come a far vedere che anche noi eravamo forti.
Luigi B.
Mio nonno emigrò; in Grecia: è partito dal comune di Trani con una figlia, dopo sposato, [mentre] tutto il resto [dei suoi] figli, sono nati a Patrasso. Mio papà è nato a Patrasso, la prima [delle sue sorelle] anche, tutto il resto dei fratelli e delle sorelle di mio padre sono nati tutti là. [...]Si viveva fraternamente bene tutti quanti. Insomma, si viveva come fratelli. [Poi] è venuta la guerra, ed è venuto un odio, in una maniera che non so nemmeno dirti... Nel 1940 è venuta la guerra, ed è stato come se il diavolo mettesse la coda, [perché] è venuto un odio tra noi italiani e i greci [che è stata] una cosa spaventosa. Io andavo a scuola greca con i miei coetanei greci [che si chiamavano] Cristo, Vassilij e cioè avevano tutti nomi greci, con i quali non c'era nessuna differenza. Anche nella scuola, si, sapevano che ero di origine italiana, ma non facevano nessuna domanda... In quello stesso momento, [i greci] hanno preso mio papà e i miei fratelli più vecchi, e li hanno messi in campo di concentramento insieme a tutti gli italiani che avevano una certa età, dai quindici anni fino ai settanta. Quest'odio è venuto perché l'Italia ha dichiarato guerra alla Grecia, ecco. Perché poi è venuto il fascismo anche in Grecia e il primo ministro si chiamava Metaxas, che poi s'erano anche collegati [con Mussolini], perché poi in Grecia è nato anche un movimento fascista. Che poi gli italiani all'estero non erano neanche fascisti, c'era la propaganda dell'epoca che molte famiglie italiane nel 1941-42 sono arrivate in Italia e hanno trovato più fame di prima. Ma la mia famiglia e tantissime famiglie stavano bene, avevano realizzato fortuna. E da lì è partita la storia.
Andrea D.
Io per esempio, nel 1938 avevo nove anni. Io e mia sorella, ogni quindici giorni veniva a Patrasso la nave Saturnia o il Vulcania: erano due transatlantici che facevano Trieste-Patrasso, Patrasso-Napoli, Napoli-Palermo e da Palermo andavano a New York queste navi qua. E io e mia sorella siamo venuti nel '38 e nel '39 per due anni consecutivi sia con la Saturnia che con la Vulcania a Palermo, a Mondello. Alla Colonia di Mondello, che c'era la colonia per i figli di italiani all'estero quando c'era Mussolini. Poi nel 1940 venni anche in Italia con la nave - mi sembra - Toscana, la motonave Toscana, e ci hanno portati ad Albavilla, a Riccione, a Cattolica, sempre in colonia. E poi, invece di tornare in Grecia via nave da Brindisi a Patrasso, ci hanno fatto fare il giro della Jugoslavia, perché - era il mese di luglio-agosto - si parlava già di 1940, che poi a ottobre è scoppiata la guerra contro la Grecia, il 28 ottobre. Eravamo la nostra colonia italiana, c'erano i fratelli delle scuole cristiane San Giovanni Battista de La Salle, a Patrasso. E poi eravamo molto affiatati: c'era il saggio ginnico tutti gli anni, c'era la befana fascista, ci davano i regali. [Anche perché] eravamo povera gente, non creda mica che eravamo chissà quanto ricchi eh! Pescatori, contadini...Eh, allora i tempi erano tempi anche duri, sa?
Luigi V.
Noi profughi - e questa è una mia valutazione - siamo stati vittime di una guerra che non abbiamo voluto. Questo, per inciso. E’ molto importante, l’hanno voluta altri e l’abbiamo pagata cara noi. La [nostra] odissea è iniziata quando è iniziata la guerra, la seconda guerra mondiale. E’ stato un periodo difficile, difficilissimo. Questo è stato un periodo molto nero.
Simone P.
[Corfù] era Grecia. Italia l’ha fatta Mussolini per un anno, quando ha fatto l’occupazione della Grecia e quell’occupazione l’abbiam pagata noi, perché come è finita la guerra i primi ad andare a calci in culo via [siamo stati noi]. Perché noi siamo [stati] espulsi perché Mussolini ha fatto questo. Ecco perché noi ci troviamo espulsi! Ci hanno mandato via nel ’43, perché la guerra è finita nel ’43.
Achille C.
[Quando Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia] ti confesso che [gli italiani di Grecia] erano contenti! Non ti dico niente di nuovo, perché tutti i nostri che si erano formati con la nazionalità italiana, erano certamente imbavagliati da Mussolini e dalla propaganda fascista. Erano imbavagliati, proprio. La propaganda consisteva [in questo]: per esempio, durante l’anno scolastico, parate all’interno della scuola con vestiti e divisa, però [eravamo] obbligati, eh! Poi figli della lupa, balilla, moschettieri, tutto così, no... E poi facevamo parate, saggi... E Mussolini lì - non Mussolini, ma l’apparato di Mussolini - aveva mandato uomini fidati del fascismo per controllare la situazione. Altri, che secondo me son stati più intelligenti, avevano fatto un’altra scelta: quella di non indossare la camicia nera, e di stare attenti e coerenti con lo stato greco. Naturalmente, dopo, quando son venuti gli italiani e i tedeschi, questi qui, hanno avuto dei vantaggi, come ad esempio [quello] che mangiavano meglio. [Questi erano quelli] che avevano messo la camicia nera. [E questi] erano visti molto male [dai greci]. Eravamo diventati i loro nemici. Cioè, l’avevano contro gli italiani, perché nella dichiarazione di guerra Mussolini [aveva detto] spezzeremo qua e spezzeremo là, e questo i giornali [lo] scrivevano, eh... Hanno scritto di tutto, dopo di che la propaganda ha lavorato bene. Anche perché ti dirò una cosa: i greci della guerra non sapevano niente, come anche i nostri. Il nostro era solo fanatismo, perché se avessero pensato che cosa è una guerra, a cosa vai incontro [quando fai] una guerra, non l’avrebbero [fatta]. Era solo fanatismo creato ad arte, e naturalmente si sono basati sull’ignoranza della gente. Il vero dramma incomincia dopo l’armistizio. Dopo [l’armistizio] sono incominciate delle discriminazioni perché , naturalmente, quando c’è stato l’armistizio, che i tedeschi hanno rotto coi fascisti, là è incominciato il dramma, perché si è capito che oramai il fascismo andava a rotoli e chi si era aggregato con i tedeschi era diventato non più un soldato, ma delle belve: ammazzavano, come successo in Italia, erano delle belve.
Simone P.
Venivamo in colonia, tutti gli anni portavamo i figli in colonia. Io venivo tutti gli anni, da [quando avevo] sei anni ho cominciato a venire in colonia, prima coi balilla poi con gli avanguardisti a Cattolica, Rimini, Riccione, poi a Roma. A quindici anni, quando eravamo avanguardisti [siamo andati] al campo Dux a Montesacro... Sai a Roma i colli? Ecco, Montesacro era un colle di Roma che c’era un accampamento e noi facevamo vita da accampamento. Ci stavamo un mese o due. In colonia ci andavamo perché eravamo cittadini italiani, andavamo a scuola italiana e d’estate ci mandavano in colonia. C’era il consolato [a Corfù], c’era il console, c’erano le autorità italiane, eh! Il fascismo non c’entrava, non c’entrava niente. C’entrava solo tra italiani il fascismo e basta. Col resto della Grecia non c’entrava niente il fascismo, anzi! Capito?
Achille C.
• Archivio di Stato di Novara (ASN), fondo Prefettura, Affari Generali, Busta 358, fascicolo 37, CRP Statistiche 1947-1953
• G. Gatti, Partire da lontano, in A. Anetra, B. Boniciolli, F. Calamia, G. Gatti, Corso Alessandria 62. La storia e le immagini del Campo profughi di Tortona, Microart's Edizioni, Tortona, 1996.
• G. Esposito, Profughi e rimpatriati in terra di Bari, in G. Esposito, V.A. Leuzzi (a cura di), Terra di Frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. 1943-1954, Progedit, Bari, 1998.
• G. Esposito,Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in G. Esposito, V. A. Leuzzi (a cura di), La Puglia dell'accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari, 2005.
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1949, Città di Torino, Torino, 1949
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1950, Città di Torino, Torino, 1950
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1951, Città di Torino, Torino, 1951
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1952, Città di Torino, Torino, 1952
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1953, Città di Torino, Torino, 1953
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1954, Città di Torino, Torino, 1954
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1955, Città di Torino, Torino, 1955
• Città di Torino, Divisione Lavoro e Statistica, Annuario Statistico 1956, Città di Torino, Torino, 1956