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Villaggio di Santa Caterina, via Pirano - via Parenzo, Torino

Il 5 ottobre del 1953 il Consiglio Comunale di Torino approva la donazione allo Stato di un'area nel periferico quartiere di Lucento, sulla quale sorgeranno, grazie al finanziamento del Ministero dell'Interno, nuovi alloggi di edilizia popolare adibiti ad accogliere i profughi alloggiati nel Centro Raccolta Profughi delle Casermette di Borgo San Paolo, la cui costruzione, e successiva gestione, è affidata all'Istituto Autonomo per le Case Popolari.

L'anno successivo hanno inizio i lavori per la costruzione del lotto SP1, la cui superficie di 44.900 metri quadrati, è destinata ad accogliere nove fabbricati per un totale di 516 alloggi e 1.612 vani così ripartiti: 453 da due vani più servizi; 5 da quattro vani più servizi e 58 da tre vani più servizi.

Nel 1955 termina l'edificazione della prima parte del lotto SP1, e tra il mese di agosto e quello di novembre 253 nuclei familiari, composti esclusivamente da individui che si trovano ad essere nella condizione di profugo, requisito necessario per ottenere l'assegnazione di un'abitazione, si trasferiscono a Lucento. Un territorio posto ai margini della città, e caratterizzato da isolamento urbanistico, debole densità demografica e mancanza pressoché totale di servizi, ancora dominato da un paesaggio rurale caratterizzato da campi e cascine, qualche strada e poche case.

Nel 1956 si assiste al trasferimento di altre 100 famiglie di profughi provenienti dalle Casermette di Borgo San Paolo, che a partire dal mese di ottobre si insediano nei nuovi 300 alloggi ultimati il 27 aprile dello stesso anno.

Nel 1959 il lotto SP1 è al centro di un progetto di ampliamento che prevede la realizzazione di altri due fabbricati, facendo così raggiungere al complesso le attuali dimensioni di undici fabbricati divisi in due lotti.

Il villaggio, il cui nucleo storico si presenta pressoché immutato, ha risentito delle trasformazioni che hanno investito Torino nel corso degli anni ed oggi non si presenta più come un corpo estraneo alla città, ma appare completamente assorbito e integrato nel tessuto urbano e sociale.

Testimonianze

Il quartiere era diverso da adesso. Io mi ricordo, i primi tempi, che non c’era ancora via ... [Leggi tutto]
Il quartiere era diverso da adesso. Io mi ricordo, i primi tempi, che non c’era ancora via Sansovino, c’era solo una piccola stradina. Mi ricordo che corso Toscana non era così e che qua intorno era tutto campi.
Aldo S.
Noi dopo il campo, nelle case arriviamo il 2 gennaio del 1956. Il giorno dopo capodanno, ci hanno ... [Leggi tutto]
Noi dopo il campo, nelle case arriviamo il 2 gennaio del 1956. Il giorno dopo capodanno, ci hanno caricato tutte le masserizie su un camion, e ci hanno portato qua. Un episodio ti devo raccontare... Che io non volevo venire in queste case, perché io ero già venuto a ispezionare queste case quando ci avevano destinato. Qui non c’eran strade, non c’era luce, [c’era] nebbia quella volta lì, e con mia madre siam venuti a vedere. E io ho detto: ma io non vengo ad abitare qua fuori, in campagna. Non c’è un mezzo, perché bisognava andare fin giù dove c’era la chiesa al capolinea del 13, e le ho detto: ma cosa andiamo lì in mezzo alla campagna a vivere? Non ci sono strade, non c’è riscaldamento... Va beh, anche lì al campo profughi non avevamo riscaldamento, però... E allora non volevo venire, ho detto a mia madre: andate voi, io resto qui in campo. Poi ero l’unico che lavorava - lavoravo in fabbrica-  e siamo andati avanti per tre mesi così, abbiamo ritardato per tre mesi. Dovevamo già venire o a settembre o a ottobre del ’55, e tutti i giorni mia madre veniva chiamata in direzione, [le dicevano] dovete andare, dovete andare, e lei rispondeva che suo figlio non voleva andare. Mi hanno chiamato a me, e io gli ho detto: io non vado là, non avete fatto le strade, non avete fatto le luci, niente. Poi dopo mia madre, tutti i giorni, piangeva, piangeva e allora ho accettato e siamo venuti qua.
Antonio V.
Che effetto mi ha fatto avere una casa? Eh, ero solo più lì che toglievo la polvere da non so cosa! ... [Leggi tutto]
Che effetto mi ha fatto avere una casa? Eh, ero solo più lì che toglievo la polvere da non so cosa! La casa, la casa... Però abbiamo incominciato poi...Cioè, c’è stata la contentezza della casa, che poi dopo piano piano si è comprato i mobili, si è messa a posto e tutte queste cose lì. Poi sa, la casa per conto tuo! La casa era la casa! Però poi tutta l’amicizia, tutto il cameratismo che c’era alle Casermette ha incominciato a sciamare un po’. Si, sempre amici, ci si incontrava per strada, si andava alla messa, però non c’era più quella vita comunitaria, sembrava che si fosse lacerato qualcosa. Perché io il periodo più bello della mia vita l’ho passato alle Casermette, quanto mi sono divertita nella nostra povertà!
Argia B.
Nel 1956 dalle Casermette vado a Lucento, e lì è stato un po’ brutto. No, brutto no. Pensando a ... [Leggi tutto]
Nel 1956 dalle Casermette vado a Lucento, e lì è stato un po’ brutto. No, brutto no. Pensando a quando ce l’hanno data eravamo felici e contenti. Non c’era strade, noi eravamo i primi, siamo andati via i primi, nel ’56, era a gennaio-febbraio, col freddo. E, diamine, avere una stanza, il bagno, la doccia, la tua vasca da bagno che lì andavamo nell’altro campo a fare il bagno. Ed eravamo contente con le amiche: andiamo a fare la doccia oggi? Andiamo! E poi c’era la stireria: andiamo a stirare? Si, andiamo a stirare. Era come un gioco dai, non era pesante. E poi in casa invece eravamo contenti, diamine, avevi una casa tua! E poi il parlare: sempre shhh! Perché dovevi sempre parlare piano, perché alle Casermette si sentiva tutto, per forza! Si, si sentiva perché la stanza era divisa da un compensato duro, però si sentiva tutto. Ecco, eravamo abituati a quei rumori lì, perciò in casa era meglio. Avere una camera, una cucina grande - perché noi eravamo in sette- era... L’alloggio era grande - o meglio ci accontentiamo -, anche se non era una piazza d’armi, ma eravamo contenti. Avevamo la cameretta, il bagno, i servizi. Io e mia sorella dormivamo in cucina, ma hanno fatto delle cose... Va bene che era casa nostra, chiudevi la porta e nessuno ti sentiva, quello lì si, ma pensare come ci hanno sistemati! Perché a me è andata bene, ma quelli che erano in quattro [sistemati] in camera e cucina! Perché dopo poi forse l’avrà saputo, che hanno dovuto fare di tre alloggi, farne due. Siccome che erano abituati che eravamo appiccicati con due coperte e una brandina, devono aver calcolato quello! Perché pensi, anche lì: mia madre aveva la stanza bella stava una piazza e mezza e una brandina per i miei fratelli, appiccicati. E loro dormivano lì, mentre io e mia sorella in cucina con il divano letto. Ma eravamo contenti lo stesso, perché - diamine - casa tua, chiudi la porta, parli, dici quello che vuoi, però per il fatto che eravamo troppo appiccicati. Ecco, per quello è stato un po’ brutto.
Maria Mn.
Io dopo sposato sono andato in case in affitto, però con i miei genitori sono entrato nell’altro ... [Leggi tutto]
Io dopo sposato sono andato in case in affitto, però con i miei genitori sono entrato nell’altro villaggio, quello lì dei baraccati, quando hanno buttato giù corso Polonia e hanno spostato tutta la massa in quel villaggio lì. Quindi, da piccolo, noi usciamo da corso Polonia ed entriamo nel villaggio chiamato dei baraccati, qui vicino, che son case come queste. Ed è stata una cosa meravigliosa! Penso che il gusto più grande, pur essendo piccola, di mia madre sia stato quello. Neanche tanto mio padre, che lui ha sempre lavorato e quando non ha lavorato stava con gli amici, con il coro o con altre cose, però la casa per mia madre... Penso che venendo qua ai baraccati sia stato il suo momento più alto. Nel quartiere c’erano solo queste case in mezzo ai campi. Non c’erano le Vallette, c’erano qualche cascina qua e là. Il primo contatto era il 13 che arrivava  in piazzetta a Lucento, e quindi da questo villaggio si partiva per sentieri battuti camminando e si arrivava lì al 13. Poi chi andava a Mirafiori cambiava coi pullman, o chi andava da un’altra parte. Però, era così.
Mario B.
Noi siamo andati in via Sansovino 90/39. Noi abbiamo ricevuto due camere e cucina perché eravamo ... [Leggi tutto]
Noi siamo andati in via Sansovino 90/39. Noi abbiamo ricevuto due camere e cucina perché eravamo sette persone, anzi otto con la zia. E le dirò, quando siamo venuti ad abitare nelle case popolari, dai negozianti - tra cui c’era anche mio marito, ma parlo di sua madre- eravamo molto mal visti, però portavamo denaro, perché c’era un grande afflusso di case popolari e, bene o male, o segnando o [in contanti] i soldi li avrebbero presi. Eravamo ben visti perché c’era un accumulo di gente, però c’erano i baraccati, i greci, i giuliani e dalmati, insomma. Lucento è stato creato del 1953, noi siamo andati dopo, nel 1955 o nel 1956, tra gli ultimi, però la casa era bella, era in via Sansovino, tra le ultime che hanno fatto. Due camere e cucina, eravamo in otto con la zia, perché poi è venuta anche la zia in Italia. Però fatte le case, hanno fatto null’altro: né strade, né viali, né giardini, né negozi. C’erano i negozianti che sapevano che arrivava un cumulo di gente che, bene o male, lavoravano alla Fiat, lavoravano alla Ceat, lavoravano [altrove] e perciò spendevano. Mangiare dovevano mangiare, quindi...Perché noi dobbiamo anche dire una cosa: noi giuliani parliamo a volte - io non ne parlerò mai male - che siamo stati accettati male. Però nelle case popolari non siamo stati accettati male, perché subito siamo stati messi in una baraonda, però poi è stato messo un ordine: han cominciato a fare le scuole, han cominciato a mettere i termosifoni...Certo, è stato un progresso lento, ma c’è stato. Perché innanzitutto eravamo di tante etnie: c’era il cattolico, c’era il protestante, c’era l’ateo, c’era l’ebreo, ed eravamo messi tutti insieme. Seconda cosa: c’era l’intellettuale, il disgraziato, il nullatenente e il lavoratore, eravamo messi tutti assieme.
Nirvana D.
Quando eravamo al villaggio la vita era tutta lì. Io sono arrivato al Villaggio abbastanza presto - ... [Leggi tutto]
Quando eravamo al villaggio la vita era tutta lì. Io sono arrivato al Villaggio abbastanza presto - adesso l’anno non me lo ricordo -, però si, abbastanza presto, perché abitando nelle case vicine alla chiesa - io abitavo lì - son quelle che hanno fatto prima. Avere una casa ed avere i termosifoni - la casa piccola - era una cosa incredibile! Perché intanto, per la prima volta, vivevo io con la mia famiglia: mio padre, mia madre ed io in una piccola casa. Avevamo un cucinino piccolissimo, ma c’era, avevamo la camera dei miei, piccola ma c’era, il bagno e il soggiorno c’era, quaranta metri quadri. Però era la prima volta che si viveva da soli; poi avevo vicino anche lì gli altri miei zii, mia nonna e tutti gli altri, per cui diciamo che c’erano dal mio punto di vista i vantaggi di vivere in modo collettivo perché poi alla fine eravamo tutti anche altri, lì abbiamo incominciato a mescolarci, greci, e così... E dall’altro il fatto di avere una casa sembrava una cosa: io camere non ne avevo mai viste, per cui il fatto di poter vivere in una casa, sicuramente è stata una cosa bella.  Io l’impressione di allora non me la ricordo, però la casa, con i miei, quando si parlava, insomma, era il sogno che uno per tanti anni aveva avuto, aspettava che gli dessero una piccola casa in cui vivere. Il quartiere era un quartiere isolato. Anche lì, hanno ripetuto il ghetto in modo più civile, perché era un posto isolato, attorno non c’era nulla, le Vallette non esistevano, Venaria non esisteva se non qualche casetta al fondo con Torino, tanto per darle un’idea. Poi mia nonna che per qualche anno andava a La Spezia a lavorare e poi stava lì e veniva solo il sabato e la domenica giù - ed è quella che per prima aveva lavorato- poi l’hanno messa a lavorare all’Ospedale militare di Torino. Allora lei, tutti i giorni, partiva a piedi in mezzo ai campi - perché non c’era niente - e arrivava all’Ospedale militare. Non c’era niente, quindi quella era la Torino di allora, dell’epoca. Per andare a riunirci a Torino dovevamo andare dove c’era il capolinea del 13, il Bonafous, che c’era qualcosina, per cui per noi piccoli giovani di là non andavamo mai; per cui uno stava lì, c’era il solito oratorio, le solite cose e si viveva lì, avendo una casa. Si continuava a vivere una vita abbastanza allegra: anche allora - che mi ricordo io - stavamo bene, perché si giocava, si correva, si andava a scuola che eravamo tutti quanti di noi - e anche lì andavamo a piedi a scuola, facevamo le nostre camminate -, si aveva una vita più decente ma senza mai mescolarci agli altri. Solo poi quando uno cominciava ad andare a scuola - io sono andato all’Avogadro - e allora lì parti e vai e incominci a scoprire che non c’è soltanto il villaggio. Ed è stato difficile, perché uno penso che non era abituato a vivere così e ad incontrare persone nuove, ma aveva sempre vissuto con quella che era la sua gente. Dopo di che aveva sempre vissuto come noi, cioè conoscevi i greci e i baraccati, anche lì con contrasti notevoli, e prima di integrarsi non è stato facile. Forse non si sono mai integrati veramente nell’ambito del Villaggio, quelli che erano i torinesi, i baraccati e i greci.
Sergio M.
Io ero militare, e mi son trovato che erano già stati trasferiti [a Lucento] la mia mamma e i miei ... [Leggi tutto]
Io ero militare, e mi son trovato che erano già stati trasferiti [a Lucento] la mia mamma e i miei fratelli. Si, il primo momento è stato abbastanza convincente: passare da un casermone a una casa in cui c’erano tutti i servizi interni, insomma è come passare da una baraccopoli a una casa, e naturalmente c’era qualche cosa di diverso, c’era entusiasmo. Poi man mano che è passato il tempo ci siamo magari un po’ ricreduti, perché si pensava che potevano dare qualche cosa di più, di un po’ più grande a seconda del numero di persone che eravamo. Per esempio dato che eravamo in cinque, ci avevano dato una camera e una cucina. Però era poco, e allora gli avevano tolto una camera dall’altra parte e ci hanno dato due camere e una cucina a noi, e l’altra aveva due cucine... Insomma, erano delle spartizioni incredibili! Però il primo impatto è stato positivo, e poi si viveva tra di noi, perché anche lì eravamo tutti di noi. Il dialetto era sempre quello, la gente era quella. Quando sono arrivato lì, c’erano ste case sparse ancora con questi prati fangosi. Poi pian pianino li hanno sistemati e han fatto quello che hanno fatto. [Però] eravamo anche lì lontani. Lì era deserto. C’era una cascina, c’erano gli orti; io non sono tanto ortolano, pertanto non è che [me ne importi], ma qualcheduno faceva l’orto. C’erano degli orti e pertanto eravamo staccati. E certo che non è che tutti quanti ci abbiano accolto con le braccia aperte. Anche perché poi vicino han fatto la casa dei baraccati, l’altro gruppo di casa e non è che tutti quanti ci abbiano proprio accolto con le braccia aperte, nel senso che tanti... I pregiudizi ci sono, in qualsiasi campo e in qualsiasi cosa, e allora qualcheduno ce l’aveva [con noi], perché qualcheduno era sempre convinto che fossimo della gente un pochettino diversa da quelli che realmente eravamo. Invece eravamo della gente che, grazie a Dio, l’educazione, il buon senso e la voglia di lavorare non ci mancava a nessuno. Però già riuscire a prendere un alloggio lì era da leccarsi le mani. Perché quando mi son sposato io, per prendere un all’oggetto lì, che son riuscito con insistenza a cercare -che mi hanno poi anche aiutato-, ma quando me l’hanno dato, anche se era piccolino, mi sembrava una reggia. Una reggia. Era piccolino, però c’era tutto: il bagno, il corridoio piccolino d’entrata, il cucinino, la camera... Rispetto a quello che abbiamo passato, faceva effetto, c’era differenza tra i vari campi ed entrare in una casa. La differenza era quella lì.
Mario M.
Dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania, non sono arrivati in pochi, sono arrivati subito ... [Leggi tutto]
Dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania, non sono arrivati in pochi, sono arrivati subito con noi. E ti devo dire anche un’altra cosa, che noi con i meridionali abbiamo legato molto: le Vallette, le prime Vallette, di Italia ‘61, sono arrivati quasi tutti meridionali e istriani nostri. Giovani, che non c’erano più case qua e sono andati là ad abitare: meridionali e istriani più giovani, tra virgolette. Mio fratello e quelli della loro età, che avevano già i bambini e che erano sposati. Tu non hai mai letto che ci siano stati conflitti e che ci siano state cose, perché si partiva da una base comune che era il nulla: costruiamo. Mentre costruivi, rimanevano fuori le scorie: il delinquentello, la prostituta o quello che aveva scelto di fare un’altra vita, mentre il resto cresceva. Le Vallette oggi sono affrancate, oggi alle Vallette ci si può andare anche di notte, mentre una volta alla Vallette, nei primi dieci anni, c’era proprio una forma di delinquenti di cui avevamo paura anche noi, anche se molti li conoscevamo.
Fulvio A.
Io abitavo a Torino, a Regio Parco, che mia mamma aveva le case della Ceat, perché mia mamma ... [Leggi tutto]
Io abitavo a Torino, a Regio Parco, che mia mamma aveva le case della Ceat, perché mia mamma lavorava alla Ceat, non come impiegata ma come operaia, perché doveva per forza mantenermi. Siamo andati ad abitare lì nel ’51, eh beh, dai, ero contenta! Avevo il mio bagno, avevo la mia camera, avevo tutto avevo! Ero contenta: avevo la mia stanza, avevo il balcone, avevo il cortile, ho respirato. Anche se mi ero abituata lì alle Casermette; però non ci si può abituare, sembrava che stessimo tutti assieme, non avevi la tua intimità.
Fernanda C.
Io dalle Casermette di Altessano vado ad abitare in via Verolengo 119, largo Toscana. Sono Ina-Casa ... [Leggi tutto]
Io dalle Casermette di Altessano vado ad abitare in via Verolengo 119, largo Toscana. Sono Ina-Casa più che case Fiat. Io arrivo lì a dieci anni, nel ’58-59, più o meno e ricordo che lì - davanti casa - c’era ancora la cascina. C’era la cascina con un bel prato, c’erano le mucche, eccetera, e noi si viveva dentro il cortile, perché andare fuori dal cortile della casa che era recintato era un’avventura, nel senso che si doveva andare solo con i genitori, non andavamo fuori da soli. E quindi sapevo che c’era questa cascina e qualche volta con i nonni andavamo a fare la passeggiata fino a là. Però per noi era già andare a vedere chissà quale spettacolo. Si viveva, si andava a scuola e si viveva all’interno del cortile con i bambini che stavano lì.
Ginevra B.
Quando ci han dato la casa a Lucento, cominciava a cambiare un po’ la vita: come si dice, dalla ... [Leggi tutto]
Quando ci han dato la casa a Lucento, cominciava a cambiare un po’ la vita: come si dice, dalla merda al risotto! Per noi, quando ci han dato la casa che abbiamo aperto la porta, siamo entrati, abbiamo chiuso e ci siam trovati tutti e quattro dentro, sembrava un castello, sembravamo di essere in paradiso! Il paradiso che eravamo nelle quattro mura, eravamo chiusi e potevamo scoreggiare tra di noi senza che si sentisse niente! Noi ci han dato camera, cucina e ingresso, quattro vani: mio fratello dormiva con mio papà e mia mamma, e io nel lettino, e anche i miei genitori c’avevano sempre qualcuno in mezzo, non potevano neanche chiavare dio santo! Era sempre con loro, perché mio fratello dormiva ai piedi del letto e io avevo sta brandina lì così.
Franco S.
[Avere una casa] è stato per me un effetto grande, però ero anche delusa, perché era piccola! Era ... [Leggi tutto]
[Avere una casa] è stato per me un effetto grande, però ero anche delusa, perché era piccola! Era un pochetto meglio che in campo profughi, però... Cioè, diciamolo chiaro e tondo, non è che ci si stava per persona. Io, mai ho avuto una camera mia, eh, mai! La casa aveva sto ingressino, poi il tinello con un cucinino e una camera che andavi, cioè dalla cucina andavi in camera. Mi piaceva finalmente avere un indirizzo che non fosse Casermette San Paolo, ecco, quello si, dico la verità. Però, insomma, ero delusa perché era veramente piccola, si, si. E poi [le case] erano isolatissime. Il tram più vicino era il capolinea del 13 a Lucento, proprio dove c’è la chiesa. Ecco, lì c’era il capolinea del 13 oppure il pullman di Venaria, che passava ad Altessano. Io andavo a fare i corsi di stenografia e dattilografia e dovevo andare a prendere il 13, ma quando c’era il fango mi portavo le scarpe pulite dietro, perché non c’era né marciapiede né niente su quella strada, c’era il fango. Corso Toscana era fango, non era [mica] asfaltato. Anche noi lì, le case, non avevano il marciapiede, niente. E poi [le case] erano senza riscaldamento! Non avevano neanche il riscaldamento.
Anna Maria P.
Arrivo a Lucento nel ’57. Non c’era niente. Andavamo a scuola a piedi, fino al capolinea del 13 che ... [Leggi tutto]
Arrivo a Lucento nel ’57. Non c’era niente. Andavamo a scuola a piedi, fino al capolinea del 13 che era dove c’è la chiesa di Lucento, in via Pianezza, andavamo a piedi andata e ritorno. Fango, non c’era negozi, finalmente poi hanno costruito dei palazzi di fronte, in corso Toscana e allora hanno poi messo il bar e la panetteria, altrimenti all’inizio c’era niente. Non avevamo neanche il riscaldamento: io mi sono anche ammalata lì in quelle case, sono andata a finire all’ospedale per i polmoni, eh! E’ stato piacevole, senz’altro, entrare in una casa, però nello stesso tempo era anche molto piccola. Perché era data, questa casa, con due camere - camera, cucina e cucinino - fino a quattro persone, e si immagini lei, era piccolina! Cioè a Trieste le hanno costruite meglio, in altre città le hanno fatte molto, molto meglio! Qui non si sa cosa pensare, probabilmente si saran mangiati i nostri soldi, non lo so! Perché , come sempre, ci sarà stato lo zampino di chi ne avrà abusato, perché sono scatole eh queste case! Noi eravamo già fortunati ad essere in sei e ad avere due camere da letto, perché io ho dormito sempre in cucina, e anche un fratello, perché avevamo la nonna.... Io e la nonna in cucina, i fratelli da una parte e i genitori dall’altra. E poi, le dico, senza riscaldamento... E non credo quindi che sia stata anche lì molto facile. Poi don Macario aveva insistito per fare il riscaldamento, ma sa, il riscaldamento fatto dopo non so se tenga lo stesso caldo di quello iniziato mentre si costruisce, perché erano tutti tubi esterni, han dovuto coprirlo ed è poi diventato un pasticcio.
Assunta Z.
Intorno non c’era niente, c’era solo [le case] quelle cosiddette dei torinesi, erano di fronte. Mi ... [Leggi tutto]
Intorno non c’era niente, c’era solo [le case] quelle cosiddette dei torinesi, erano di fronte. Mi ricordo sempre le discussioni tra i miei e gli altri. [Per costruire quelle case] avevano stanziato una somma enorme, e poi le case, in effetti... Si, si, adesso sono delle buone case, però per allora era tutto abbastanza brutto, e dicevano: ma chi ha mangiato questi soldi? Dove son finiti tutti i soldi che gli americani avevano stanziato? E poi gli alloggi! Eravamo tutte famiglie grosse - anche noi nel ’55 eravamo in sei - e lì avevano costruito tutto camera e cucina. E allora, a quel punto lì, qualcuno ha accettato due alloggi, due alloggi da camera e cucina. Invece i miei hanno preferito prendere l’alloggio con due stanze e cucina. E c’era anche chi aveva due cucine, perché un alloggio l’ha diviso in due: un alloggio di due stanze. E allora, chi aveva due alloggi, aveva due ingressi, due bagni - i doppi servizi - e due cucine, per esempio. Due cucine e una camera da letto. L’altro aveva l’altra camera da letto dell’altro alloggio, aveva il contrario. E dico: ma non sapevano quanti eravamo prima di fare queste cose qui? Ma per il resto poi le hanno sistemate, negli anni Sessanta, anche i tetti... E adesso sono discrete.
Adriana S.
Poi noi ci siamo integrati... A Lucento succedeva [anche] questo: uno dei primi negozi era una ... [Leggi tutto]
Poi noi ci siamo integrati... A Lucento succedeva [anche] questo: uno dei primi negozi era una latteria e vicino c’era anche quello che vendeva la legna, per fortuna, perché eravamo senza riscaldamento. Era a metà strada tra l’incrocio di corso Toscana verso strada Altessano: ecco, lì c’era un gabbiotto, e adesso c’è una scuola, l’Istituto Pastore. Ecco, quello era il primo negozio da lattaio. Poi dopo più in qua, più vicino, è venuto fuori Renzo, che ha aperto una salumeria. E lui ha incominciato a vendere capuzzi garbi [crauti]. Lui non scriveva crauti, scriveva capuzzi garbi [in vetrina]: aveva le mastelle della Zuccato, se le faceva arrivare. Poi più avanti ha incominciato a vendere il baccalà che lo faceva come lo facevamo noi. Poi c’era il forno del pane e mia madre, a Pasqua, andava a portare a cuocere le pinze. Per cui anche il contatto con la gente, cioè questi piemontesi che ci avevano conosciuti, erano felicissimi di stare con noi. Quando poi hanno aperto l’osteria, dove c’era il pane, che ancora adesso c’è un bar, era dove andavamo a vedere il Musichiere. E lì c’era uno di Dignano, che di soprannome si chiamava Penel - perché era un artista - che aveva dipinto sul muro tutta la collina di Costigliole d’Asti. Era bellissimo! E quando stavano alle Casermette, sai dove andavano a comprarli i capuzzi garbi? Andavano a comprarli in piazza Sabotino. In piazza Sabotino angolo via Di Nanni, dove adesso ci sono i taxi. Da una parte c’è Viecca, un negozio di abbigliamento, e dall’altra c’era una salumeria che vendeva i capuzzi garbi, probabilmente per noi. Perché il pullman B, che si chiamava B la navetta che faceva dalle Casermette in via Veglia 44 fino a Viecca, faceva il capolinea B. E poi Viecca ci conosceva bene, perché andavano a comprarsi le stoffe: tutte le mie sorelle si son comprate le stoffe lì per farsi i vestiti da sposa o i vestiti eleganti, e c’è il figlio che adesso è già anziano anche lui, che io ho trovato una volta e non so come gli ho detto che i miei genitori andavano sempre da Viecca a comprarsi il cappotto. E lui mi ha detto: perché ? Eh, perché abitavamo alle Casermette. Uh, ma che brava gente che eravate! Ne parlano tutti bene di noi, eh!
Anna Maria P.
[Sono arrivata a Lucento] nel ’56. Non c’era niente, non c’era niente! Io mi ricordo che son venuta ... [Leggi tutto]
[Sono arrivata a Lucento] nel ’56. Non c’era niente, non c’era niente! Io mi ricordo che son venuta da Tortona e sono andata a Venaria-Altessano da mia cugina, che abitava anche lei alle Casermette e non c’era niente, niente. Era prati, prati e prati! E allora si vedeva che costruivano queste case, ma era tutto prati: in corso Cincinnato davanti alla casa che c’è il giardino, che poi dopo più avanti c’è il mercato, c’era una cascina con le mucche! Poi era tutto prati, la chiesa non c’era e andavamo in una baracchetta lì così. Quando ci hanno dato la casa che siamo andati a Lucento, ci hanno dato sempre una camera e cucina: mio fratello dormiva in tinello in un altro letto, io e mia mamma nel letto matrimoniale e di piedi avevo un altro mio fratello. E io allora ho battuto tanto all’Istituto [delle case popolari] dicendo che fino ad adesso abbiamo vissuto come bestie, e loro dovevano darci qualche cosa. Gli dissi: io pretendo... Insomma, prima ero più giovane, adesso sono una donna, non posso spogliarmi davanti a mio fratello, perché dorme ai miei piedi. E allora ho battuto, ho battuto finché ci hanno cambiato e [ci hanno] dato un’altra casa che c’era due camere - in una camera dormivamo io e mia mamma in un’altra i miei fratelli - un tinello, un cucinino e il bagno. Poi io dopo due anni mi son sposata, e lì ha vissuto mia mamma coi miei fratelli per trentacinque anni.
Olivia M.
Nel ’56 vengono costruite a Lucento queste case. Lucento era un complesso residenziale, che ... [Leggi tutto]
Nel ’56 vengono costruite a Lucento queste case. Lucento era un complesso residenziale, che sembrava meraviglioso all’epoca. Io ero ragazzino e dicevo: finalmente ci hanno dato la casa. [Nel quartiere] non c’era niente allora: mi ricordo, infatti, che c’era cento metri e poi c’erano prati, campi e boschi tutto intorno. La vita avveniva tutta all’interno [del quartiere]. Cioè non era circondato da mura, era tutto aperto, però si viveva lì. C’era l’oratorio come riferimento, c’era un bar per gli adulti, c’erano campi di calcio... Le scuole non erano all’interno del villaggio, bisognava andare un po’ più in là, però noi vivevamo lì dentro senza avere nessun interesse per andare da un’altra parte, perché tanto soldi non c’è n’erano, quindi non c’era neanche la possibilità di fare chissà che. Come dire, come faccio io a trovare un collegamento in una città che non conosco, quali sono le strade che posso percorrere, mi devo inserire dove? In un circolo, in un’associazione sportiva, in un’associazione politica? Non c’era niente di tutto questo, non c’erano queste possibilità e si restava là. A un certo punto c’era una baracca dove c’era il Partito Socialista di Unità Proletaria che aveva la sua sede, c’era l’Associazione dei profughi, c’era la squadra di calcio, c’era l’oratorio, ma [era] tutto più o meno lì. Eravamo consapevoli di essere tutti tra di noi, si parlava tutti in dialetto, però le amicizie nascevano all’interno di questa comunità, sapevamo di essere tutti tra di noi. Preferivamo essere così che non staccarci dal nostro contesto e cercare chissà cosa. Questo è avvenuto poi più in là, quando uno si trova a fare scelte di lavoro.
Giuseppe M.
[Siamo arrivati] nel 1960, con le domande alla prefettura. Si facevano domande alla prefettura, ... [Leggi tutto]
[Siamo arrivati] nel 1960, con le domande alla prefettura. Si facevano domande alla prefettura, all’[Istituto Autonomo per le] case popolari e poi avevi un punteggio. E qua certamente che il punteggio ce l’avevi, stavi nei cartoni, non c’era il gabinetto e non c’era niente e la prima casa che ci hanno dato l’abbiamo presa. Quando siamo arrivati non pensavamo di avere una casa piccola così, pensavamo di avere una casa meravigliosa trovandoci con il gabinetto, con l’acqua, con la luce e con tutto. Ero contenta, per forza! Il quartiere era uguale, come adesso, non hanno fatto più niente. C’erano campi, tutti campi, le case non c’erano; c’era la latteria, la stalla dove andavamo a prendere il latte. La scuola non c’era, non c’era niente quando siamo venuti noi, han fatto tutto dopo! Era tutto campi, non c’era niente, c’era solo questo grande villaggio con la chiesetta piccola - non c’era neanche la chiesa grande - e tutto campagna era, tutta, tutta.
Aldina P.
Era tutte cascine qua, c’era campagna. Per andare a prendere il tram dovevi andare al capolinea del ... [Leggi tutto]
Era tutte cascine qua, c’era campagna. Per andare a prendere il tram dovevi andare al capolinea del 13. [Appena siamo arrivati mi ricordo che] la sezione del Partito Comunista di Lucento, voleva recintare qua. Ci volevano recintare, vi chiudiamo dentro col reticolato, perché dicevano che eravamo tutti fascisti!
Giorgio B.
Quando siamo arrivati qua [al Villaggio], avevamo già dieci anni di campo profughi, eri già maturo. ... [Leggi tutto]
Quando siamo arrivati qua [al Villaggio], avevamo già dieci anni di campo profughi, eri già maturo. Ed io quando son venuto via dai campi, mi spiaceva anche! Stavo meglio lì alle Casermette, perché eravamo una famiglia, non eravamo come qua. Là se avevi 100 Lire, non vedevi l’ora che arrivassero tutti e andavi a spenderli tutti assieme. Non l’ho sentita io quella smania di avere casa. Quando mi han dato la casa avevo diciotto anni, andavo a casa solo a dormire! Sono arrivato, nel ’55 e qui c’era un fango! Al capolinea del 13 dovevi andare a piedi. La strada...Corso Toscana non c’era, dovevi fare tutto il giro...
Gigi B.
[Ho vissuto alle Casermette] fino a che non mi han dato l’alloggio. Quando poi abbiam saputo che ... [Leggi tutto]
[Ho vissuto alle Casermette] fino a che non mi han dato l’alloggio. Quando poi abbiam saputo che facevano le case... Anche perché per le case dei profughi qui a Lucento noi non avevamo diritto perché avevamo preso la liquidazione. Allora siamo andati in una comitiva dal sindaco, gli abbiamo detto: noi siamo in campo profughi, abbiamo dei bambini, possiamo mica stare a vivere così? E allora lui ci ha dato una lettera, [e ci ha detto]: con questa lettera andate alle case popolari [all’Istituto Autonomo per le Case Popolari] e vedrete che [risolverete il problema]. Siamo andati in quattro e abbiamo chiesto otto alloggi. Ci han dato sei alloggi: abbiamo chiesto otto alloggi ma eravamo in sei famiglie, in quattro li abbiamo presi, [mentre] gli altri due hanno cambiato idea perché dovevano pagare l’affitto e sono rimasti là dentro [alle Casermette]. Per dirti che io questo alloggio l’ho preso così, ufficialmente. [Io arrivo a Lucento] nel ’56, novembre 1956. Le strade erano di terra battuta, c’era fango dappertutto. Per arrivare davanti al portone di casa mia dovevi camminare sul fango, e poi col tempo, sai, è diventato tutto rose e fiori. Non c’era niente nel quartiere. Se non altro avevamo il lavoro, la tranquillità era quella, il lavoro. Che non mancava.
Achille C.
A Lucento siamo stati i primi che siamo arrivati: siamo arrivati nel ’55. [Su come fosse all’epoca ... [Leggi tutto]
A Lucento siamo stati i primi che siamo arrivati: siamo arrivati nel ’55. [Su come fosse all’epoca Lucento] c’è da scrivere tutto un altro libro! Ecco perché io non potevo essere visto bene dai preti... Questo villaggio io l’ho contestato subito, l’ho contestato coi miei, col Comitato profughi rimpatriati, col Comitato profughi espulsi, ho bisticciato con tutti! Perché queste case, quando hanno incominciato a parlarne qualche giornale, il mio giornale [l’Unità] aveva detto: le colombaie di Lucento sono pronte per ospitare i profughi delle Casermette. C’era scritto questo, perché di questo si trattava! Allora non c’era né riscaldamento né niente, non c’erano strade, non c’era niente. Per collegarci dovevamo andare [al capolinea del 13]: dovevamo metterci i sacchetti nei piedi per poter andare al capolinea del 13 a Lucento. Non c’era niente. Per cui è stata fatta una cosa molto, molto vergognosa e l’artefice di questo - non mi nascondo di dirlo - è stato don Giuseppe. Allora io mi sono bisticciato, ma mi sono bisticciato fino all’inverosimile. Non sono case! Tanto è vero che hanno sbagliato tutto, hanno sbagliato tante di quelle cose! [Infatti] per soddisfare le famiglie, quelle più numerose, hanno dovuto prendere tre alloggi per farne uno: c’è chi aveva due gabinetti o chi aveva due entrate, un macello! Dopo di che poi negli anni, quando abbiamo formato il Comitato inquilini, abbiamo incominciato a discutere e a impegnarci per dare un’impronta più civile a queste case: non c’era il riscaldamento, non c’erano le stufe ed era un’annata, il 1955, che [la temperatura] è andata sotto zero non so di quanti gradi. Allora poi immediatamente, di corsa, a fare gli impianti e il locale caldaia [che era] proprio qui [dove stiamo facendo l’intervista]. E’ stata un’odissea per queste case, dopo di che, piano piano gli abbiamo dato un’impronta civile: ci siamo impegnati e ci siamo interessati e abbiamo trovato la via di fare le strade, di avere collegamenti coi pullman. E’ stato un periodo travagliato non indifferente, anche se la disperazione di cinque anni dietro le coperte, faceva sembrare [queste case] dei salotti, delle ville, ma non era così, non era così. Cioè, hanno voluto prenderci, proprio nell’estremo bisogno, però felici. Poi, nel tempo, piano, piano, siamo riusciti a dare un’impronta più umana, più abitabile.
Simone P.
Io arrivo [a Lucento] nel 1962. Era tutto campi, si capisce! Strada Altessano erano tutti campi, ... [Leggi tutto]
Io arrivo [a Lucento] nel 1962. Era tutto campi, si capisce! Strada Altessano erano tutti campi, dove che [adesso] c’è quella pasticceria [la pasticceria Rosario in via Sansovino] era tutti campi, dietro la chiesa era tutto campi, anche. Non c’era niente!
Guido C.
Io sono venuto qua [a Lucento] nel marzo del '57. Qua c'era questo quartiere e poi quell'altro dei ... [Leggi tutto]
Io sono venuto qua [a Lucento] nel marzo del '57. Qua c'era questo quartiere e poi quell'altro dei profughi. Che [per primo] p è stato costruito quello. Questo lo chiamano il quartiere dei baraccati, degli sfollati e degli sfrattati. Qui non c'era niente, [né] case, [né] giardini...C'erano le bealere, come le chiamavano, corsi d'acqua. Che qua dietro andavamo a pescare, con la lenza. Andavamo a pescare le anguille, la notte. Nel quartiere non c'era niente: c'era qualche casa in via Sansovino, ma era una stradella, non era la via Sansovino di adesso. Non c'era niente, quando pioveva ci voleva la barca! L'unico [posto di ritrovo] esistente era in corso Cincinnato, [dove c'era ] un bar piccolino. Poi c'erano le case basse, [dove] avevano aperto un tabacchino, un bar e vendevano sempre il vino, senza mai vedere uno che scaricava vino! E il mercatino era in via Toscana. Nel '61 hanno incominciato a costruire le Vallette, quando è stato il centenario dell'Italia e avevano fatto gli alberghi e hanno incominciato a costruire le Vallette. Che alle Vallette è andato di tutto: di tutte le appartenenze e le fasce sociali. Qui [da noi], ogni quartiere ha la sua storia: lì sono tutti profughi [che] provengono tutti [dalla Venezia - Giulia e dalla Dalmazia]: c'è proprio il Villaggio profughi sarebbe quello, che lo chiamano Santa Caterina. Questo lo chiamano i baraccati.
Andrea D.
[In corso Polonia] sono arrivato nel '51 e son stato un anno e mezzo. Poi ci hanno dato la casa a ... [Leggi tutto]
[In corso Polonia] sono arrivato nel '51 e son stato un anno e mezzo. Poi ci hanno dato la casa a Santa Caterina, quando han fatto le case per i baraccati. A Santa Caterina, le prime case di via Parenzo. [Nel quartiere] stavamo molto in parrocchia. Ci portavano in gita a Loano, su a Ulzio a sciare...C'era molta campagna, però; noi ci si trovava lì alla parrocchia e seguivamo il percorso. C'era don Macario che era il parroco, poi c'era don Giuseppe e l'altro era il parroco che adesso è parroco alla chiesa di Lucento che fa angolo con corso Potenza. Adesso lui è anzianotto. Don Michele si chiamava.
Luigi P.

Immagini

Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1955
Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1955
Veduta dall'alto del Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956
Veduta dall'alto del Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
La posa della prima pietra della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Una festa da ballo in casa, villaggio di Santa Caterina, Torino, s.d.
Una festa da ballo in casa, villaggio di Santa Caterina, Torino, s.d.
Funerale per le vie del quartiere, Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Funerale per le vie del quartiere, Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Inaugurazione della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Inaugurazione della chiesa del Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Scuola di taglio e cucito, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1959
Scuola di taglio e cucito, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1959
Bambini in posa davanti a una Vespa, Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Bambini in posa davanti a una Vespa, Villaggio di Santa Caterina, Torino, seconda metà anni Cinquanta
Ragazzi e pecore alle Case Rosse, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956
Ragazzi e pecore alle Case Rosse, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956
Una classe posa per la foto di gruppo davanti a una baracca della scuola, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1958
Una classe posa per la foto di gruppo davanti a una baracca della scuola, Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1958
Figli di profughi davanti alle Case Rosse del Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956
Figli di profughi davanti alle Case Rosse del Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956

Giornali

 I profughi delle Casermette San Paolo si trasferiscono a Lucento, «La Stampa», 1 settembre 1955

Riferimenti archivistici

 Asct, Fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 1107, Fascicolo 3, Smobilitazione e chiusura del CRP.1955-1956.
 Asct, Atti Municipali del Comune di Torino, Case per profughi: donazioni di aree allo Stato, seduta 4 del 18 febbraio 1952.
 Asct, Atti Municipali del Comune di Torino, Delibera del Consiglio Comunale, seduta 64, 17 marzo 1953.
 Asct, Atti Municipali del Comune di Torino, Delibera del Consiglio Comunale, seduta 45 del 5 ottobre 1953.
 Archivio di Stato di Torino, Fondo Prefettura di Torino, Settore II, Profughi/varie, salone U 224.
 Archivio Scuola Elementare Margherita di Savoia, fondo Villaggio Profughi, Lettera (protocollo n. 1859/3), datata 29 settembre 1956 inviata dall’Ispettorato scolastico Torino Nord al Provveditorato agli Studi di Torino.

Riferimenti bibliografici

 D. Bretto, Un villaggio isolato. Lo sviluppo della periferia urbana di Torino nel secondo dopoguerra. Un esempio: il villaggio profughi di Lucento, Centro di Documentazione Storica V Circoscrizione, Torino, 1989.
 Istituto Autonomo per le Case Popolari, Sessantennio di fondazione dell’Istituto autonomo per le case popolari della Provincia di Torino 1907-1967, Tipografia Aprika, Torino, 1968.
 E. Miletto, Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Torino, Franco Angeli, Milano, 2005.
 N. Renacco, Unità di abitazione a Torino-Lucento, «L'architettura cronache e storia» n. 5 gen-feb 1956.
 E. Miletto, L'esodo giuliano-dalmata: itinerari tra ricerca e memoria, in E. Miletto (a cura di), Senza più tornare. L'esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell'Europa del Novecento, Seb 27, Torino, 2012

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