Mario M.
Andar di qua e di là, chiedendo pasta, frutta, riso, uva e vino. Pagar senza esitar qualunque prezzo che ci chiede il contadino. E' così che vive l'italian: compra sotto man la polenta e il pan». Queste parole, modellate sulle note della celebre Canzone dei sommergibili, motivo assai caro al regime, evidenziano, con la forza tagliente della satira, le privazioni e i disagi con cui molti italiani sono costretti a convivere durante gli anni del conflitto quando, insieme alle bombe e a una violenza ogni giorno più dilagante, si affaccia sulla scena un altro nemico destinato a scandire la loro esistenza: la fame.
Restrizioni, file davanti ai negozi, diete monotone e limitazioni alimentari, fanno da sfondo a una quotidianità che il regime, utilizzando slogan intrisi di retorica, cerca di rendere meno aspra attraverso reti di approvvigionamento ogni giorno più fragili, razionamenti e carte annonarie. Misure deboli, non sufficienti ad impedire che buona parte della popolazione del paese precipiti in una condizione di precarietà tale da compromettere pesantemente la possibilità di raggiungere livelli nutrizionali adeguati. Le 950 calorie pro capite [F. Colombara, 2007] raggiunte giornalmente non bastano a tirare avanti e fanno dell'approvvigionamento alimentare un ulteriore problema da risolvere. Inizia dunque una nuova battaglia, quella per il cibo, diventato ossessione e pensiero fisso per famiglie intere, chiamate a combattere su nuovi fronti. In prima linea, in questa lotta quotidiana ci sono le donne: fronteggiare la fame diventa infatti l'occupazione principale di madri e mogli che intraprendono «viaggi lunghi, quasi infiniti» [R. Pupo, 2010] dalle città dell'Istria non solo verso le campagne dell'interno e del vicino Carso, ma anche verso quelle del Veneto e del Friuli, alla disperata ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Il tutto mentre imperversa, quasi ovunque, la borsa nera che da semplice elemento integrativo delle forniture alimentari distribuite dal regime, diventa una prassi abituale e un fenomeno di massa cui si rivolge una quota sempre più consistente di popolazione. Il ricorso al mercato nero comporta per molte famiglie giuliano-dalmate un impoverimento del proprio patrimonio, dal momento che il tenore dei prezzi, decisamente elevati, richiede un sacrificio economico non indifferente. Nasce così, tra venditori e acquirenti, un rapporto che si pone ben al di fuori dei principi monetari, assumendo i caratteri di un baratto vero e proprio, destinato ad arricchire i primi e a indebolire gli altri. Un sistema che vede il cibo non venduto, ma spesso e volentieri scambiato: a dettare le condizioni non c'è più il denaro, ma ci sono olio, farina, carne e cereali, messi sul piatto e ceduti in cambio di oro, gioielli e corredi, oggetti dal grande valore affettivo e simbolico. Una separazione dolorosa e forzata, legittimata però dalla consapevolezza che essi rappresentano l'unico modo per nutrire la propria famiglia.