home I luoghi dell'esodo in Piemonte >Torino e provincia

L'arrivo raccontato dai testimoni

I brani raccolti riportano le testimonianze dei profughi al loro arrivo nei luoghi che li ospitarono descrivendo quando e quale accoglienza ricevettero se di esclusione od integrazione, se trovarono assistenza nelle difficili fasi della ricostruzione di una vita. Ci è sembrato inoltre interessante indagare sul lavoro svolto e su come si trascorreva il tempo libero, in modo da consegnare al lettore un quadro il più possibile realistico degli avvenimenti.

Testimonianze

Quando

Siamo arrivati al Silos. Al Silos siamo rimasti una notte sola, che io ho dormito per terra perché ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati al Silos. Al Silos siamo rimasti una notte sola, che io ho dormito per terra perché non c’era posto. Poi siamo andati da una famiglia di Trieste che conoscevamo, ci ha tenuto una notte e poi siamo andati a finire a Udine. E da Udine siamo andati ad Altamura. E per andare ad Altamura, poi siamo andati a finire a Tortona, e da Tortona a Torino. [Da Altamura] abbiam chiesto il trasferimento: ho fatto quasi tutto l’inverno ad Altamura e poi siamo andati a Tortona. [Arrivo a Torino] nel ’52. [Abbiamo scelto Torino] perché era una grossa città, c’era la fabbrica, c’era questo e quell’altro.
Aldo S.
[Sono arrivata a Torino] a maggio del 1950. Io sono venuta prima in treno, con mia mamma, perché ... [Leggi tutto]
[Sono arrivata a Torino] a maggio del 1950. Io sono venuta prima in treno, con mia mamma, perché era morto suo papà. Proprio quando c’è stato l’apparecchio di Superga, guardi. [In realtà la testimone non arriva a Torino nel 1950, bensì nel 1949. Infatti la sciagura aerea nella quale muore la squadra di calcio del Torino si verifica il 4 maggio 1949]. Contenti eravamo, perché si, il papà di mia mamma era mancato, ma c’era la nonna e la sorella di mia mamma sposata, poi anche la sorella di mio papà con un altro figlio, e si sono sposate già prima di venire via. Si sposavano per venire via già con la famiglia. Siamo venuti e mio padre ha chiesto il trasferimento. Però, da Chiavari, tanti andavano anche in Venezuela e in Australia e allora anche noi avevamo fatto tutte le carte, fotografie e tutto per andare in Australia, perché mio papà diceva: cosa facciamo qui? Lui voleva andare lì perché sapeva che tanti andavano, ma a noi non ci hanno presi - per fortuna - perché sa, con cinque figli piccolini... E allora mio papà ha scelto Torino, per essere vicini ai parenti, perché sapendo che i parenti vivevano in campo profughi, [ha scelto Torino] anche per quello. Poi [anche perché ] sapendo che a Torino anche se eri contadino era più facile trovare un lavoro e dopo quindici giorni l’ha trovato. [Poi] nel ’67 arrivo qui [a Carmagnola], e mi son trovata bene, perché eravamo tutti giovani, avevamo tutti i bambini della stessa età. Mi manca solo i parenti, però guardi, qui siamo ventotto famiglie, [viviamo qui] da quarant’anni ed è sempre stato perfetto
Maria Mn.
Sono arrivato a Torino nel ’51, ad aprile. Pioveva che dio la mandava! Tutti quanti aspiravano ad ... [Leggi tutto]
Sono arrivato a Torino nel ’51, ad aprile. Pioveva che dio la mandava! Tutti quanti aspiravano ad essere spostati verso una città, in modo particolare - la direzione maggiore - a Torino, dove c’era l’industria, perché si sapeva che chi riusciva ad andare a Torino, c’era la possibilità di impiegarsi.
Mario M. 
Sono arrivata nel ’63, a giugno. Con la bambina, in treno: da Dignano sono arrivata a Torino con ... [Leggi tutto]
Sono arrivata nel ’63, a giugno. Con la bambina, in treno: da Dignano sono arrivata a Torino con cinque litri de vin in una damigiana, che sono arrivata a Torino che era mezza! [Una damigiana] di malvasia e una borsa, e niente altro. Perché non ho voluto portar niente, cosa vado mi con sta bambina e le valigie? Sono arrivata con sto bottiglion - cinque litri de vino - tutti i controllori del treno [dicevano]: ah, s’è vin dell’Istria questo? Si, malvasia e se vuole può berne. Finisco il turno che arrivo - a Portogruaro o non so dove - e, insomma, sono arrivata a Torino che era mezzo sto bottiglion de vino!  Mio marito invece arriva a Torino, deposita la valigia da suo fratello che abitava alle Vallette, perché aveva il fratello. Avevano appena dato gli alloggi in via delle Pervinche. Mio marito li deposita lì e va a Trieste, alla questura di Trieste, praticamente chiede asilo politico. Entra in campo profughi lì, sta fino - adesso non mi ricordo le date - e poi da lì lo mandano a Latina. Da Latina, dopo un mese che era lì, va a Capua, sempre in campo profughi. E allora mio marito è rimasto in campo lì. E’ stato in tutto quattro mesi. Poco. Poi avendo la residenza chi l’ha prelevato [dal campo]... Perché dovevi qualcuno che ti prelevava dal campo, e l’ha prelevato suo fratello. Lui stava alle Vallette, e difatti lui aveva la residenza alle Vallette. Mio marito è venuto qui col passaporto, col passaporto regolare, e consegnato il passaporto alla questura di Trieste, ha chiesto asilo politico ed è rimasto in campo. No, no, no, la trafila giusta, col passaporto. Poi quando che è tornato fuori dal campo è andato da suo fratello, e lì lavorava. Lui essendo tornitore di prima... Lui ha cambiato nel periodo che ero io, che son venuta, in due mesi chissà quanti lavori, perché qui gli davano di più là di più... Era tornitore di prima. E allora è logico che si viveva meglio; io quando mi sarei comprata la macchina giù? Me la son comprata nel ’67, era piccola, una 500, ma c’era. Dove li racimolavo i soldi giù?!
Anita B.
Nel 1953 lì [a Laterina ci] viene chiesto se volevamo andare in un altro campo, perché si era ... [Leggi tutto]
Nel 1953 lì [a Laterina ci] viene chiesto se volevamo andare in un altro campo, perché si era cominciato a sentire che a Torino offrivano lavoro. E la mia mamma, è logico, era ancora giovane - perché se era del 1915, era giovane ancora- ha pensato che aveva cinque figli e che doveva darsi da fare, e allora siamo andati in una città. Non ha chiesto di essere mandata a Torino eh, no. Le hanno offerto Torino. E siamo partiti il 28 di novembre, e siamo arrivati il 29 a Torino
Nirvana D.
Nel ’47, nel settembre del ’47, è mancato mio padre, nel campo profughi di Mantova: io avevo già ... [Leggi tutto]
Nel ’47, nel settembre del ’47, è mancato mio padre, nel campo profughi di Mantova: io avevo già dodici anni e mezzo e, sai, una volta i maschi crescevano in fretta, e quindi ero già capofamiglia. Poi un anno e mezzo dopo volevano mandarci - era il periodo di Scelba - a Catania, al campo profughi di Catania, e allora lì c’è stata una sommossa nel campo. Eravamo dei giovani , e avevamo composto sulla parodia della Capinera una canzone. E per tutti i padiglioni, alla sera, han cominciato a suonare e la gente si raccoglieva, cantando tutti questa canzone, davanti alla direzione, tutta la notte, a cantare questo ritornello:Don Vareschi ieri ci ha esortato alla speranza, ma lui non g’ha pensieri né per il tetto né per la panza. Ei g’ha racomandato per Scelba de pregar, ma il dio s’è più sensato se lo farà crepar - cioè a Scelba -, e cominciava così: oggi s’è trenta o più fioi , done e ragazzi, ndemo a ciapar su le nostre quatro strazzi, e quando l’alba spunterà, ci troveremo en strada e faremo na ridada, ma proprio cantata. E allora dopo han cambiato l’ordine, e hanno aperto per Torino, per la destinazione Torino: chi voleva andare a Torino e tanti - anche noi - siamo poi venuti a Torino. Però, prima di venire a Torino, io faccio ancora un passo indietro. Quando è mancato mio padre ho detto: io devo stare qua in campo, però io volevo andare a scuola a studiare. Un giorno allora è venuto quello della direzione, mandato dalla prefettura, [e mi ha detto] che c’era la possibilità di andare in collegio. E io mi sono segnato e lui mi ha segnato e bom. Dopo due mesi -non so quanto è passato -, è venuto a casa di nuovo a dire tal giorno di prepararsi e di partire. Mia madre - lei non sapeva niente - dice: ma cos’è sta cosa qua, cosa c’è? E lui le dice: suo figlio si è segnato per andare [in collegio]. Ma no, no. E io: mamma, io vado in collegio, perché lì ti danno da vestire, da mangiare e tutto quanto, anche da andare a scuola, tutto gratis. E sono andato in collegio, eravamo in tre del campo. Il collegio era a Viadana, che era al confine della Lombardia con l’Emilia. E questo qui non era un collegio, si chiamava Villaggio del ragazzo povero, e venivano tutti i poveri della zona. Poi il villaggio funzionava che avevi il sindaco, il pretore, avevi il giudice, come una città, la città del ragazzo. E io mi ricordo che l’ultimo anno mi hanno fatto sindaco, ero sindaco del villaggio. Mia madre nel frattempo -ad aprile del ’51- son venuti a Torino, e io dovevo finire la scuola perché l’anno scolastico non era ancora finito, e siamo rimasti in collegio noi. Poi nel frattempo quando io sono andato - dopo un anno, circa -, mio fratello, che ce l’avevo sempre dietro le calcagna, non poteva stare senza di me, è voluto venire anche lui, ed è venuto anche lui in collegio e siamo stati poi in collegio. E poi quando è finito l’anno scolastico, il 1 di luglio del 1951, io sono venuto a Torino e mi sono fermato. Mio fratello invece è ritornato di nuovo ancora un anno in collegio, perché doveva finire le scuole. La gente sceglieva Torino perché Torino ti dava lavoro, a Torino c’era il lavoro. Oppure perché in un campo c’era i parenti, avevi degli amici o dei familiari per stare vicino. Però, diciamo, che quello che tirava di più era il lavoro, dove ti davano una garanzia di crearti una vita. Torino era la città, poi Brescia, che anche a Brescia c’era delle industrie, e poi Tortona che anche Tortona era poi cresciuta. E tanti di Tortona son venuti poi a Torino in campo.
Antonio V.
Nel ’53 siamo venuti a Torino. Tutti volevano venire a Torino, perché c’era possibilità di lavoro. ... [Leggi tutto]
Nel ’53 siamo venuti a Torino. Tutti volevano venire a Torino, perché c’era possibilità di lavoro. E’ [per] quello che [volevano] tutti [venire] a Torino. I miei - mio papà - volevano venire per sistemare mio fratello, perché si pensava che a Lucca [non ci fosse possibilità], e abbiamo avuto il trasferimento da Lucca a Torino. E anche nel giro di poco tempo, perché non glielo davano a nessuno il trasferimento a Torino, era tutto pieno, tutto pieno. Quindi siamo venuti per quello lì [per il lavoro], proprio per quello.
Argia B.
Io arrivo a Torino nel ’46. Poi vado a Carmagnola, [ma] prima di abitare a Carmagnola, abitavo a ... [Leggi tutto]
Io arrivo a Torino nel ’46. Poi vado a Carmagnola, [ma] prima di abitare a Carmagnola, abitavo a Sommariva Bosco. Perché avevamo in gerenza un distributore di benzina e ho fatto la tavola fredda, poi hanno fatto l’autostrada e c’è stato meno affollamento. E poi guadagnavamo poco, perché non era nostro quello. Poi mio marito è andato a lavorare alla Lancia, e da Sommariva siamo venuti qui [a Carmagnola]. Era... oddio, che anno... Più di trent’anni!
Fernanda C.
A Torino io arrivo nel’60. Quando sono venuto a Torino, Torino era una grande città, era la fine ... [Leggi tutto]
A Torino io arrivo nel’60. Quando sono venuto a Torino, Torino era una grande città, era la fine del mondo! Ero contentissimo, abitavo dove c’è il dazio, dove c’era la Finanza dei camion, in via Giordano Bruno. Ho abitato lì, che c’era mio fratello più vecchio, che dal Belgio è venuto qui in Italia, aveva detto basta della miniera, ed è venuto qui a Torino. Ho abitato un anno a Torino, poi son venuto ad Alpignano e mi sono sistemato ad Alpignano.
Renato L. 
[I miei hanno deciso di andare a Torino] perché lavorare lì non era un bel vivere: cominciava ... [Leggi tutto]
[I miei hanno deciso di andare a Torino] perché lavorare lì non era un bel vivere: cominciava l’immigrazione anche dal Veneto quella volta. Poi qui [a Torino] c’erano tutti i parenti. Cioè, nel frattempo gli altri venivano su e da Udine li smistavano in varie parti d’Italia, e la maggior parte dei parenti dei miei erano qui a Torino, e allora abbiam cercato di riunirci, e l’unico modo per riunirci era quello di andare in campo profughi e noi ci siamo andati.
Anna Maria P.
Mia mamma diceva: andiamo a Torino, che almeno lì ci sistemiamo di più. Lei era per Torino, mia ... [Leggi tutto]
Mia mamma diceva: andiamo a Torino, che almeno lì ci sistemiamo di più. Lei era per Torino, mia mamma diceva sempre Torino, Torino, Torino! Lei voleva sempre Torino: Torino, Torino, Torino! Ma no mamma, tanto siamo sistemati qua [a Tortona], lavoriamo... No, a Torino, Torino, Torino, fino a che abbiamo fatto domanda. E non le dico dove siamo andati a finire per poter avere la residenza e il diritto di prendere una casa: in corso Polonia!
Olivia M.
A Torino son venuto perché mio fratello, lavorando nel cantiere, aveva scelto Torino: era un ... [Leggi tutto]
A Torino son venuto perché mio fratello, lavorando nel cantiere, aveva scelto Torino: era un meccanico e quindi [l’aveva scelta] per la Fiat o per la Lancia, per questa roba qui. Poi mia sorella è venuta a Genova in Manifattura Tabacchi, perché si tenevano il posto e le davano il posto.
Luigi B.
Io sono venuta a Torino perché mio marito è venuto qui a lavorare. Ci siamo fidanzati con mio ... [Leggi tutto]
Io sono venuta a Torino perché mio marito è venuto qui a lavorare. Ci siamo fidanzati con mio marito, che lui era già venuto a Torino perché voleva venire nella fabbrica. Si voleva venire nella fabbrica, tutti i giovani volevano venire nelle fabbriche e allora prima è venuto suo fratello - che si era sposato prima di noi - poi ha fatto domanda lui e nel ’56 è entrato anche lui e, automaticamente per non venire avanti indietro a Vercelli, poi Veneria, poi Torino al sabato e alla domenica, abbiamo deciso di sposarci e siamo venuti a finire in Casermette ad Altessano. Siamo stati in Casermette ad Altessano due anni, perché poi nel ’60 siamo venuti qui [a Lucento], nel gennaio del 1960.
Aldina P.
Arrivo a Torino nel ’59: all’inizio è stato un po’... Per me, prendere il pullman andare in piazza ... [Leggi tutto]
Arrivo a Torino nel ’59: all’inizio è stato un po’... Per me, prendere il pullman andare in piazza castello o in via Roma quando che andavamo la domenica con i bambini, per me era bello. Solo che si sentiva sempre la nostalgia di casa, niente da fare. Niente da fare, la nostalgia è più forte di tutto! In principio sta zona [Falchera] era morta: quando sono arrivata non c’era i negozi, di tutti quei negozi là non c’era niente, c’era solo la casa. Non c’erano strade, non c’era niente, era tutto ancora a terra. In mezzo lì alla piazza, c’era delle baracche che erano i negozi: la latteria, il fruttivendolo, la cooperativa. Erano delle baracche e si andava a comprare là. Poi pian pianino [è migliorato]. La scuola c’era già, poi l’han rifatta, ma quando son venuta qua io la scuola era [in una] baracca. Perché qua i primi [abitanti] son venuti nel ’55, e adesso è cinquantacinque anni che c’è Falchera. C’era meridionali, tanti meridionali e ancora oggi ce ne sono tanti. Non ci conoscevamo tanto... Si girava sempre tra di noi, poi dopo però è andato tutto normale. Ma all’inizio - ripeto - non c’era niente.
Adua Liberata P.
[Arrivo a Torino] nel ’64, perché quel campo [di Monza] doveva essere chiuso. E mio padre e mia ... [Leggi tutto]
[Arrivo a Torino] nel ’64, perché quel campo [di Monza] doveva essere chiuso. E mio padre e mia madre son venuti a vedere alle Vallette, che c’erano le case in costruzione. Vanno lì alle Vallette, guardano e si dicono, quando sono tornati: ma dove andremo a finire, poveri noi! Ce l’hanno data. Perché mio padre poteva comprare la casa, perché i soldi li aveva, [però] mio papà voleva andare in altri campi, ma campi oramai non c’è n’eran più! Voleva rimanere a Monza, invece... Lui aveva i soldi per comprare una casa, diceva: ho dei risparmi, ma come faccio per queste mie figlie? Le mie figlie devono studiare, e se io investo nella casa, nei mobili, eccetera [non mi rimane niente per loro]. E quindi hanno puntato sulla nostra cultura. La casa delle Vallette...Vede è una cosa diversa [dal Villaggio di Santa Caterina]. [Dalle case che hanno fatto a Lucento], sono avanzati dei soldi americani - si devono dire [queste cose], soldi stanziati - e hanno costruito alle Vallette un gruppo di case, che sono proprio all’interno di tutte le case delle Vallette le uniche costruite con soldi americani. [Sono in] via delle Primule, di fronte alla chiesa, sono case basse, sono le uniche delle Vallette. E ci tengo a dirlo, perché molte volte mi hanno detto: vi hanno dato queste case popolari con i soldi degli italiani. No, non sono soldi degli italiani, sono degli americani! “Mi ha chiesto com’erano le Vallette? Mah, le Vallette, avevano quella fama... Io ci sto bene, sono vallettara, ho dato la mia vita a questi bambini delle Vallette, però... Le Vallette, anche lì, sono divise a vie: c’è la via bene, dove ci sono gli impiegati statali, mentre poi vicino a noi hanno costruito con i soldi del comune - e per questo non si riesce a capire come solo noi siamo americani - e hanno messo [in queste nuove case] di tutto, dalle puttane ai ladri, [che noi oggi abbiamo come] vicini di casa. Questo parlo del 1966-1967. Però è tutta gente di rispetto. Le Vallette, io mi ricordo... [C’è] un palazzone grosso vicino alla chiesa e io mi ricordo in quegli anni buttare degli scatolini grossi giù [dal balcone] pieni di immondizie. Io mi ricordo gente che mangiava le angurie e le buttava giù dal balcone, eh! Adesso [queste persone] sono quelli che si son fatti il giardinetto intorno [alla casa]!
Rita L.
Sono venuto a Torino: ho fatto la gavetta alle Casermette, per quattro anni, e c’era crisi, in quel ... [Leggi tutto]
Sono venuto a Torino: ho fatto la gavetta alle Casermette, per quattro anni, e c’era crisi, in quel periodo c’era crisi, veramente. Entro abusivo alle Casermette di Borgo San Paolo, parliamo col direttore delle Casermette, mi faccio la residenza... E poi mi stimolava questa proposta di venire a Torino: Torino, città grande, la Fiat, la Lancia...
Simone P.

Accoglienza

A Torino ci hanno accolto bene, sinceramente bene. E mi piaceva Torino, anche perché non era la ... [Leggi tutto]
A Torino ci hanno accolto bene, sinceramente bene. E mi piaceva Torino, anche perché non era la città di adesso. Si poteva andare la sera fuori, era pulita. I primi tempi ero spaesato: io venivo da un paese di undicimila abitanti, e trovarti in una città così grande... Poi, pian piano, assimili tutto.
Aldo S.
Il primo impatto [con Torino] è stato ridicolo. Come arriviamo alla stazione, andiamo in pullman, ... [Leggi tutto]
Il primo impatto [con Torino] è stato ridicolo. Come arriviamo alla stazione, andiamo in pullman, che erano quei pullman grossi, verdi, se li ricorda? Ecco... Io ero un po’ cicciottella: ero magra quando mi son sposata, e quando ho avuto la bambina mi sono ingrassata... E avevo il complesso che sarò l’unica grassa a Torino: oddio, sarò l’unica grassa a Torino! Come sono nel pullman, mi siedo sul sedile dove c’è la rotonda del pullman, mi giro, sto pullman gira e io vado lunga e distesa là, per terra! Quello è stato il più brutto impatto con Torino, che ho detto: varda, dopo il complesso di esi grassa, ancora casco nel pullman tra tutta la gente! Però mi son trovata subito bene, mi hanno accolto benissimo, perché ho trovato tanti di quei paesani che mi hanno detto: Anita, era ora che ti venivi via, cosa ti fasseva a Dignan che ti sei sprecata! Anche i piemontesi [mi hanno accolto bene], proprio benissimo! Non ci sono mai stati episodi tipo: ti poteva star a casa tua che sei venuto a portarme via il lavoro, no, no! Non me l’hanno mai detto a me, e non l’ho sentito neanche verso mio marito che è arrivato prima. Però una volta C. si chiamava quello che aveva il bar in corso Cincinnato, di fronte a dove ci sono tutti i negozi, lui una volta aveva detto - in piemontese - : non so perché ce l’hanno con loro, tanto sono lavoratori. Hanno lavorato, proprio i lavori più umili, si son dati da fare, e non so perché ce l’avevano con questi che son venuti qui. A parte che i primi che son venuti via sono stati discriminati: fascisti, ladri... Insomma di tutto, di tutto di più! Io no, neanche mio marito, anzi erano contenti. Mi hanno aiutato, mi hanno detto vai a fare domanda per le case popolari, mi hanno aiutato in tante cose, insomma.
Anita B.
Era nelle fabbriche che cominciavano a dirti qualcosa, ma poi dopo niente. Ci davano per fascisti ... [Leggi tutto]
Era nelle fabbriche che cominciavano a dirti qualcosa, ma poi dopo niente. Ci davano per fascisti tutti quanti, specialmente quando c’erano gli scioperi che noi non facevamo. Ma [non facevamo] quelli che non erano giusti. Cioè, gli scioperi per i contratti li ho sempre fatti, quando poi però facevano gli scioperi per altre menate è ovvio che [non li facevo]. Sa... Anche perché avevo bisogno di lavorare.
Argia B.
Ci hanno accolto le crocerossine, parlo di Torino. Ci han trattato bene, non era di quelle che ... [Leggi tutto]
Ci hanno accolto le crocerossine, parlo di Torino. Ci han trattato bene, non era di quelle che comandavano, no erano abbastanza brave, anche i preti e le suore, per carità. E’ il dopo che, frequentando, la gente ti guardava un po’ così. Non erano solo i piemontesi, ma anche tanti altri: siete venuti qui a rubare il pane e cosa, ma non sta bene dire quelle cose. Perché , se si sa la storia, noi avevamo tutto, avevamo industrie, avevamo tutto. E quelli non lo capivano questo qui, la popolazione non si comportava bene, no, no. Ci hanno sempre detto: voi, neanche italiani siete, e siete venuti qua in questa terra nostra, bellissima. E noi rispondevamo: la nostra era più bella, c’era anche il mare! Non ci hanno trattato mai bene, mai, mai. Venivamo a rubare il lavoro, poi qui il Piemonte era una cosa solo loro... Ma vaffanculo volevo dirci - scusa l’espressione -, ma chi ti vuole rubare niente! Io penso per me. Poi fascisti... Non a me, ma mio papà, quando lavorava alle Poste, diceva che certi glielo dicevano.Anche le mie stesse compagne, ecco. Che io ero la più povera, forse, del collegio: mia mamma faceva i sacrifici a pagare la rata, per non lasciarmi andare a scuola pubblica, e mi dicevano: cosa sei venuta a fare qui? Loro venivano con la macchina, l’aprivano. Perché il collegio costa, eh! Poi le suore mi avevan fatto qualche agevolazione, non mi facevano pagare tutta la rata. Mia mamma non poteva. E loro mi dicevano: chi ti credi di essere? Noi abbiamo questo e quell’altro, ma io non rispondevo in collegio, per educazione. Beh, le dico, son venuta a portare via qualche cosa a te? Si, sei venuta a portare via i soldi a mio papà! Mio papà è direttore - non so di che banca mi aveva detto - e dice: guarda questi pezzenti che son venuti. E io le dico: guarda io pezzente [non sono mai stata!] Avevo un bell’alloggio, che adesso non ce l’ho ma lo avrò, avevo un padre e una madre, e avevo tutto, perché ero in una città. Io non vengo dalla montagna, da un cucuzzolo, come qualcuno! Le stesse bambine, diciamo, sentendo i genitori, si sono shoccate vedendo tutta questa popolazione.
Fernanda C.
Ho sentito dire da mia mamma che quando sono arrivati a Torino, gente sul tram diceva ai bambini: ... [Leggi tutto]
Ho sentito dire da mia mamma che quando sono arrivati a Torino, gente sul tram diceva ai bambini: ah, mi raccomando, se non fai il bravo ti faccio mangiare dai profughi! Io mi ricordo quando abitavo alla Casermette, quando dicevo che venivo dalle Casermette mi guardavano come dicessi arrivo da corso Massimo D’Azeglio, non quelle che ci abitano, ma quelle che ci vanno a batter! Nel senso che c’era la nomea di gente un po’ malfamata che stava alla Casermette. Cioè, ho sentito delle battute come fossimo delle persone losche, ecco. Non mi ricordo il termine preciso, però il senso era quello.
Ginevra B.
Ci hanno trattati, posso dire una parolaccia? Da merde, veramente di cacca. Perché non ci ... [Leggi tutto]
Ci hanno trattati, posso dire una parolaccia? Da merde, veramente di cacca. Perché non ci sopportavano, anche se eravamo italiani, perché non erano abituati ad avere gente estranea. Loro [erano] molto chiusi, poi dopo si sono aperti un po’. Adesso si, ma prima... Perché anche [i meridionali], son venuti dopo di noi. Noi siamo stati i primissimi a venire a Torino, e quindi questa è stata una cosa bestiale. Eravamo trattati malissimo, non ci consideravano. [Ci consideravano] come se fossimo delle bestie che venivano chissà da dove. Ma non eravamo né gialli né neri, e non parlavamo un’altra lingua. Parlavamo italiano, tutti quanti. Non c’era rapporto con la gente del posto, ci dicevano di tutto e di più. A calci in faccia ci hanno trattato. Un’accoglienza terribile.
Livia B.
Quando ci hanno conosciuti ci hanno trattato bene. Tanto è vero che c’è stato anche delle donne che ... [Leggi tutto]
Quando ci hanno conosciuti ci hanno trattato bene. Tanto è vero che c’è stato anche delle donne che andavano a fare la spesa - lì mi ricordo che c’era un mercato, in via di Nanni -  e io me lo ricordo perché andava mia mamma e me lo raccontava ogni tanto anche mia moglie. E si, in un primo momento sembravano diffidenti, perché qualche volta parlavano anche dicendo: ah, guarda quelli lì son profughi... Però non ci conoscevano, giudicavano le persone senza sapere chi erano. Tanto è vero che da Scassa che era un grandissimo negozio di abiti, di vestiti, gonne e tutte quelle cose lì, quando andava qualcuno a comperare e magari non gli bastavano i soldi, [i proprietari] dicevano: non si preoccupi signora, me li dà più in là, facevano credito. E poi ci hanno anche apprezzati, ci hanno apprezzati. Tafferugli qualche volta fuori dal campo, ma rarissimi, pochissimi. Si viveva così, eravamo abbastanza tranquilli.
Mario M.
Per noi ragazzini il nostro problema era solo di essere vestiti come gli altri, per essere ... [Leggi tutto]
Per noi ragazzini il nostro problema era solo di essere vestiti come gli altri, per essere mescolati in mezzo agli altri quando si andava a scuola. Io che cosa ho sofferto ad andare nelle scuole? Nulla. Nulla, salvo i vestiti, i primi tempi, che ero vestito coi jeans che gli americani cominciavano a mandare e loro dicevano: guarda, quelli lì sono profughi perché hanno quei vestiti! Oggi i jeans li portano tutti, anche Luca di Montezemolo, che potrebbe farne a meno! Però non è il segno del proletario, una volta lo era. E non so, la mancanza, magari, di quei dieci soldini in tasca in più, per andare a fare qualcosa, a prendere un gelato o meno: quando gli amici uscivano io me ne venivo a casa. Questo problema l’ho sentito quando son diventato giovanotto, perché dopo la scuola Edoardo Agnelli dai Salesiani, i miei mi hanno iscritto allievo Fiat, e lì bisognava avere una cultura, un’educazione che io non avevo ancora appreso; io avevo l’educazione di base, quella dei miei genitori, che era educazione. Lì bisognava avere una cultura educativa diversa: io mi sono presentato il primo giorno di scuola con una giacca e una magliettina e un pantalone - perché quello avevo -, e il direttore che era sulla porta di entrata mi ha preso e, davanti a tutti, mi ha fatto un cazziatone! La giacca deve essere abbottonata, devi portare una camicia, devi essere chiuso, che cos’è questo collo sguaiato!? Io credo di aver rasentato il pianto in quel momento lì, ma ero un ragazzino di sedici anni. Però posso dire che cosa ha detto mio padre, che cosa è andato a dire a mia madre - l’ho saputo anni dopo -: mi voleva ritirare. Perché non si può trattare dei ragazzi, dei bambini - perché a sedici anni per loro sei sempre bambino - in questo modo. Secondo me era un modo con cui lui aveva espresso un concetto di emarginazione, di discriminazione che avveniva. Io non l’ho sentita, perché devo dire che a distanza di quarantacinque anni, una volta all’anno mi trovo ancora con i compagni di classe. E, voglio dire, è rimasta una solidarietà e un’amicizia: non mi hanno mai fatto pesare né economicamente, né niente. Però, diciamo, che per le piccole necessità oramai si lavorava, i genitori lavoravano, e avevi quel che ti serviva. Quindi l’accoglienza dei ragazzi non è stata una cosa cattiva, perché i ragazzi possono essere cattivi o buoni a seconda di cosa fanno. L’accoglienza dei grandi era diversa. Il bambino era tutelato e protetto, e stavi tra gli altri bambini. L’adulto era diverso. Evidentemente, da parte di chi faceva politica già a quel tempo, sapevano benissimo chi eravamo e sapevamo benissimo come individuarci. Ma individuavano il campo, gli esuli in generale, ma, di conseguenza, chi aveva un amico socialista, o chi aveva un amico democristiano o comunista, era uguale. Ognuno già di noi, aveva fatto le sue scelte, per amicizia e per convinzione. Ma anche secondo me - parlo di Torino - è stato determinante soprattutto la tua vita lavorativa, dove si è svolta e come si è svolta. Chi di noi ha fatto l’operaio, per poco o soprattutto per tanto, ha continuato e coltivato un solco che porta a quelle scelte. Non politiche, neanche ideali, ma comunque di posizionamento, di collocamento. Chi non ha avuto mai nessun problema, che non ha fatto neanche il campo profughi, che è arrivato qui perché è andato dai parenti e aveva già trovato i soldi per comprare l’alloggio, che faceva il dirigente e il funzionario, ma si capisce che lui la vedeva come Zanone o come Malagodi, che avevano il partito liberale. E allora. È chiaro di riflesso come si comportava la gente con noi: se avevamo un po’ di potere, avevano rispetto, se non l’avevamo ci lasciavano indifferente e se poi qualcuno era stupido, ti trattava in maniera stupida. Ecco, questo era. Però, non si può dire che c’era prevenzione o preconcetto: non è che uno diceva non ti assumo perché sei esule, per esempio.
Fulvio A.
[Siamo stati accolti] benissimo. Noi andavamo a fare la spesa al mercato di via Di Nanni o in corso ... [Leggi tutto]
[Siamo stati accolti] benissimo. Noi andavamo a fare la spesa al mercato di via Di Nanni o in corso Racconigi, poi andavamo da Viecca, che era un negozio di vestiti in piazza Sabotino che lì, guardi, quando siamo andati via hanno pianto tanto, tutti i negozianti!
Maria Mn.
Eravamo molto additati... Se lei veniva dalla Casermette San Paolo... Ad esempio, io andavo a ... [Leggi tutto]
Eravamo molto additati... Se lei veniva dalla Casermette San Paolo... Ad esempio, io andavo a scuola al Santorre Santarosa, prendevo il B - il pullman B - però a scuola ero segnalata che ero delle Casermette San Paolo. Benché ero una bravissima ragazza a scuola, però...Capisce? Torino non è stata calda, anche perché il piemontese per natura non accetta bene. Poi, per carità, ho sposato un piemontese, quarantasette anni di matrimonio! Però è stata difficile la vita, proprio a integrarsi con il piemontese, con il torinese, perché eravamo persone estranee, eravamo stranieri. Bene o male eravamo stranieri. Le faccio un esempio. Abitavo alle Casermette San Paolo, e ho conosciuto mio marito alle case popolari, che mio marito aveva una drogheria, cioè sua mamma. Io l’ho conosciuto, però ero [considerata] una straniera: io non ero valida, ero una titina, ero una croata, ero una comunista. Secondo i genitori, io ero segnalata, ero una comunista. Ecco, capisce? Questo non era valido solo nel mio campo, [ma anche] nel campo del lavoro. Ecco, io metto sempre da parte la mia famiglia, escluda la mia famiglia, perché io conoscevo Reiss Romoli, e grazie a Reiss Romoli conoscevo Donat-Cattin. Mi capisce? Io ero una privilegiata. Però nella quotidianità, senza questo privilegio, mio fratello non sarebbe entrato alla Ceat dalla sera alla mattina, perché non aveva la persona a cui bastava dire, guarda, non è comunista, prendilo perché è un democristiano. Perché poi in Italia noi non dovevamo essere né fascisti, né comunisti. Dovevamo essere dalla parte della Democrazia Cristiana, e dovevi essere convinto della parola che dicevi, doveva essere una convinzione. Per l’esterno dovevi presentarti così, dovevi avere quel valore. La mia mamma non è stata considerata fascista, forse proprio perché - io le dico sinceramente- la mia mamma nutriva un odio per il fascismo, ma un odio che si era instaurato molto, veramente. Ora io le dico un aneddoto. Un certo dottor L. dirigente della Ceat - e parlo del 1955, che mio fratello è andato a lavorare alla Ceat dopo essersi diplomato, a ventuno anni-  era un fascista. Le racconto l’aneddoto per farle capire. Dopo che mio fratello lavorava [da] due mesi -perché mio fratello è entrato a lavorare al mese di dicembre-, venne a casa piangendo col foglio di licenziamento. Mia mamma, può capire, il mondo le crolla di nuovo giù dalla testa, perché era il primo stipendio ottimo che aveva. Io allora, grazie a Reiss Romoli, gli racconto che mio fratello è stato licenziato perché dicono che è comunista. Io non sapevo le idee politiche di mio fratello, mai mi sono interessata, anche perché in famiglia non si parlava. Gli dico: sai, mio fratello è stato licenziato perché dicono che è comunista. Lo ha licenziato L., che è un dirigente della Ceat Cavi. Lui lavorava alle gomme, però la direzione era alla Ceat Cavi. Romoli cosa fa? Chiede subito un colloquio a Donat- Cattin, e Donatt- Cattin interviene. E lo sa perché lo hanno licenziato? Perché questo L. era un fascista, e siccome sapeva che mio papà era un fascista, non accettava, era convinto che mio fratello fosse comunista perché la mamma parlava sempre che lei odiava i fascisti. E allora era convinto che anche mio fratello fosse comunista, che fosse dell’ideologia titina, e l’ha licenziato per quello. Poi è stato ripreso a lavorare e tutto, però questo L. era un fascista, e per quel motivo lì lo ha licenziato. Perché non era della sua idea. Facciamo un altro esempio terra, terra: oggi gli extracomunitari, come li trattiamo? Non sono tutti malvagi, non sono tutti delinquenti. Perché anche noi eravamo tre fratelli e due sorelle, e non pensi che mio fratello non sia mai andato a rubare una torta alla Sanson: lui era fuori, c’era quello dentro che le buttava e lui se le portava a casa. Allora, torniamo indietro di sessant’anni fa... Allora, la mia mamma nel 1954 - io avevo tredici anni, lo ricordo bene - si è ammalata di TBC polmonare, è stata ricoverata al San Luigi. La mia mamma andava a fare delle ore di servizio da una certa Accattino. Era un negozio di dolci, creme e biscotti, una pasticceria. Dunque, la mia mamma si ammala nel periodo estivo e bisognava prendere il suo posto. Dico a mia sorella più vecchia se vuole andare lei, ma mia sorella più vecchia era terribile e, insomma, sono andata io. Sono andata io a tredici anni - che lo racconto sempre alle mie figlie- a  lavar le pentole, a fare quello che faceva mia mamma. Pentole di stazza grande, perché facevano le creme a mano, non come oggi che girano con l’automatico! Un sabato sera - perché andavo a trovare la mamma, e andavo una volta alla settimana -, aspetto che la signora mi paghi: so che le dava 127 lire a settimana. Aspetto che mi paghi... E aveva un bancone dove si tagliuzzavano le fette biscottate: è logico, faceva sia dei ritagli che della semola di farina. So che la mamma portava tutti i sabati dei biscotti frastagliati, però io ero convinta che la mamma glieli regalasse questa signora, perché sapeva che aveva cinque figli. Quella sera mi dà i soldi in mano, io la ringrazio, e poi mi dà un sacchetto - guardi questo è un aneddoto per dirle come ero trattata-, che non aveva peso. Ho detto, strano: se ci sono dei pezzi frastagliati, un peso avrà. Apro [e vedo] le briciole dei biscotti... Le dico: vede signora Accatino, io sono una bambina - una ragazzina -, ma queste gliele può dare a sua figlia. Io con i soldi che lei mi ha pagato, comprerò i biscotti per la mamma, ma non prendo questo. La settimana dopo mi ha dato i pezzi tagliati, eh! Però, vede, come sono stata trattata?
Nirvana D.
Alla sera c’era già qualche posto fuori delle Casermette, in cui si poteva andare a ballare - ... [Leggi tutto]
Alla sera c’era già qualche posto fuori delle Casermette, in cui si poteva andare a ballare - qualche osteria e [cose] così -, e qualcuno andava, ma da quanto ne so io erano sempre visti in modo abbastanza da intrusi. Però non per la cattiveria che potessero avere contro di te, ma per il fatto che eri tu che andavi, che eri qualcuno che era arrivato da fuori e non eri dei loro. Quindi sempre visti come gente che è lì per caso. Siamo stati messi alle Casermette, e quindi in un ghetto. Quindi - come sempre - finché uno vive lì, e non vede nessuno, le cose vanno tutte bene. Andando fuori, chi era già più grande o lavorava o cosa, hanno avuto notevoli difficoltà di inserimento. Non è che sono stati maltrattati, questo no,  però molte difficoltà di inserimento con le persone che facevano parte del tessuto locale. Come se fossero gli zingari, ecco. Mi viene in mente quello. Credo un po’ così, solo che poi, tutto sommato, mediamente, nessuno aveva da dire. Gli zingari oggi ce l’abbiamo perché rubano. Lì invece c’era un sacco di gente che [diceva]... fascista! E’ inutile, il bollo c’era sempre... Fascista, che dopo la guerra ha dovuto lasciare quello che aveva e venire in Italia. E l’Italia - bontà sua - li ha accolti e gli ha dato un posto dove vivere. Per cui fin quando uno viveva lì, e stava per conto suo, non c’era nessun problema, quando invece uno voleva entrare o inserirsi nel tessuto torinese è stato molto difficile. E non faccio fatica oggi a crederlo. Guardi, io ho vissuto per molti anni a Torino, sono arrivato a Carmagnola da Torino, circa ventisei o ventisette anni fa e per anni ho vissuto la diffidenza dei carmagnolesi perché ero di Torino. Arrivando da Torino a Carmagnola i miei figli - allora avevo un figlio - a scuola era uno che non era dei loro. Ha fatto fatica a inserirsi, proprio perché - e purtroppo è vero- il piemontese è abbastanza chiuso e fa molta fatica ad accettare qualcuno che non sia del posto. Noi abbiamo avuto difficoltà a Carmagnola per inserirci in Carmagnola, da Torino, al che, ripensandoci, dico: ma figuriamoci allora, questa gente qui che era messa ammucchiata in un carro bestiame! Perché poi, visto dall’esterno, mi rendo conto che in una caserma, migliaia di persone, per chi invece aveva una casa - bella o brutta - o aveva un lavoro, non era una cosa così entusiasmante. Per cui molta difficoltà nell’inserimento, anche se tutto sommato non c’era ostilità Però, ambienti chiusi: anche nei posti di lavoro, erano sempre gli istriani fascisti, perché ovviamente c’era qualcuno - e c’è ancora oggi - che soffiava sul fuoco e che alimentava questo odio [e odio] è una parola forte. Proprio il fatto che erano tutti fascisti, e che hanno dovuto lasciare il loro paese per venire in Italia e che quindi davano fastidio ai buoni comunisti italiani.
Sergio M.
Ricordo quando hanno costruito le case - che avranno iniziato nel ’54-55, non so quanto è durata la ... [Leggi tutto]
Ricordo quando hanno costruito le case - che avranno iniziato nel ’54-55, non so quanto è durata la costruzione -, un giorno le donne hanno detto: sa, andiamo a vedere a Lucento, prendiamo il pullman e andiamo a vedere dove ci stanno facendo le case. E sono andata anche io – era dopo la scuola – e ricordo che gli operai si sono avvicinati, guardavano e dicevano: ah, ma queste case sono mica per voi, sono per i profughi! Come se i profughi fossero chissà chi! Noi eravamo già non profughi, secondo loro, e chissà come consideravano i profughi. Già la parola profugo, probabilmente, credevano chissà cosa. Infatti qua [a Torino] ci chiamavano slavi o croati, si che sai, e là [a Servigliano] ci chiamavano fascisti. Non solo a Servigliano... Per i mie genitori è stata dura, noi non eravamo né uno né l’altro, eravamo della povera gente che di politica non si interessava: credo che tutti avevano il loro lavoro, la famiglia e cose del genere. E qui eravamo croati, là eravamo i talianski!
Assunta Z.
Non lo so se ci fosse discriminazione, perché ero bambina. Ma a me non è mai successo niente. Ecco, ... [Leggi tutto]
Non lo so se ci fosse discriminazione, perché ero bambina. Ma a me non è mai successo niente. Ecco, quando abitavamo a Lucento mi vergognavo un po’, perché insieme a noi c’erano anche quelli delle baracche sul Po, c’erano altre cose, cioè, come tutti gli agglomerati di case popolari sono sempre malfamati, anche se non lo sono, per dire. Cioè tutti quelli che abitano lì [erano considerati] tutti di malaffare, e allora per questo mi vergognavo un po’ per l’indirizzo che avevo, avrei voluto avere un indirizzo più bello [come] qualche corso, o non so! Poi eravamo lontani da morire: ricordo la prima volta che è venuto un ragazzo a prendermi che mi ha detto eh, ma dove abiti! Ci son rimasta male... E allora, in questo senso così, perché si pensava che tutti quelli che stavano nelle case popolari fossero dei vagabondi o dei malviventi. Però per quanto riguarda la faccenda del profugo non so.
Anna Maria P.
Ci hanno accolto con diffidenza. Han detto: questi qui chi sono, vengono a portarci via il ... [Leggi tutto]
Ci hanno accolto con diffidenza. Han detto: questi qui chi sono, vengono a portarci via il lavoro... Perché magari, anche quando eravamo qui alla Fiat, tanti li prendevano alla Fiat perché eri profugo ed eri un po’ avvantaggiato. Pensavano che noi siamo scappati via perché eravamo fascisti. Invece a noi di politica che cazzo ce ne fregava? Noi a Fiume stavamo bene, eravamo dei signori, madonna!
Franco S.
Anche a Torino non è che ci hanno accolto bene, dicevano tutti: eh, son venuti questi qui, chi ... [Leggi tutto]
Anche a Torino non è che ci hanno accolto bene, dicevano tutti: eh, son venuti questi qui, chi sono, fascisti? Perché sa, Torino era tutta rossa allora.[A Torino] era piuttosto fredda [la gente]; cioè, come si dice, ci hanno studiato, poi ci hanno apprezzato. [Ma prima] ci hanno studiato, non è stata poi un gioia subito. Subito dicevano: ah, vengono qui e ci portano via i posti di lavoro. Invece poi ci hanno apprezzato perché han visto che la gente era lavoratrice; e difatti a Torino i più bei posti, oggi, ce li hanno i figli nostri. Cioè, ce lo siamo costruito: non siamo andati né a rubare, né a rompere i coglioni alla gente.
Luigi B.
Io quando andavo a votare, andavo in quella scuola vicino alle Ferriere, la Margherita di Savoia, e ... [Leggi tutto]
Io quando andavo a votare, andavo in quella scuola vicino alle Ferriere, la Margherita di Savoia, e c’era uno che conoscevo e mi diceva: ueh, bastard, vuta nen per i fascisti neh! Me lo gridava da lontano... Perché erano convinti che votavi per l’MSI. Forse la maggioranza di questi [giuliani] era tutta della DC.
Gigi B.
Vivendo in questo perimetro chiuso, in questa cittadella, in questo ghetto - come lo chiamo io - ... [Leggi tutto]
Vivendo in questo perimetro chiuso, in questa cittadella, in questo ghetto - come lo chiamo io - l’impatto con la società torinese era tutt’altro che idilliaco. Diciamo che arrivare così, e integrarsi in una società quando nessuno voleva che tu ti integrassi, perché non c’erano possibilità: come fa uno a integrarsi se non ha un percorso da fare? Quindi lì non c’era nessun percorso da fare. L’impressione era però che ci si sentiva sempre un po’ ghettizzati. Uso questa parola perché comunque si veniva visti [male]. Gran lavoratori gli istriani, affidabili, però, comunque... Ecco, quelle sono loro, sono le case dei profughi, e questa cosa del profugo, il profugo, il profugo tornava sempre. Il profugo è riconoscente per poco, perché ha bisogno di tanto, e se non ha niente piange. Quindi [c’era] anche questo salto, dove poi la Democrazia Cristiana ha sfruttato alla grande questa cosa. Perché poi io mi ricordo campagne elettorali a tappeto, casa per case, convocazioni di mio padre con promesse, vieni, dammi il voto, noi ti faremo questo, di proteggiamo... Solo la Democrazia Cristiana però, altri partiti non ricordo di aver visto. Vede, il contrasto: cioè andare via dalla propria terra e venire in città e non avere un radicamento precedente. Io credo che noi istriani siamo tutti un po’ strani, in generale, perché pur non avendo subito disgrazie qui in Italia, il trasformarsi da contadini a operai, è un trauma, e non si può descrivere quant’è grande questa cosa, come ha minato e ridotto i sentimenti delle persone, che sono rimasti un po’ rancorosi, a volte rivendicativi.
Giuseppe M.
Senti, io sono andato a lavorare in fabbrica presto, e mi dicevano: bastardi, siete venuti a ... [Leggi tutto]
Senti, io sono andato a lavorare in fabbrica presto, e mi dicevano: bastardi, siete venuti a prenderci le case! Noi paghiamo la casa da una vita e non ce la danno, a voi altri ve l’han data... Tutte ste cose qua. Praticamente eri venuto a prenderli il lavoro. Poi se tu non hai la casa, paghi l’affitto, però vedi che danno le case a 500-600 famiglie e ti girano anche le balle! O no? Ma poi, guarda, quando siamo venuti qui [a Lucento] hanno fatto tutti i portoni e i cancelli nuovi, prima erano aperti. Ci chiamavano mau mau. Io avevo conosciuto una ragazza che mi disse: Cristo, mi avevano detto che sembravate dei delinquenti e invece siete bravi! Noi andavamo al bar là in piazza e appena ci han visti ci guardavano di brutto, [ci dicevano] fascisti e poi siamo andati avanti quarant’anni benissimo!
Gigi B.
Guardi, io a Torino ho trovato la differenza dal milanese al torinese, dal lombardo al piemontese, ... [Leggi tutto]
Guardi, io a Torino ho trovato la differenza dal milanese al torinese, dal lombardo al piemontese, senza offendere nessuno. Perché il lombardo è come il triestino, aperto, quello che ti deve dire ti dice... Ma sa, io qua a lavorare non sono andata, però come carattere a Torino ho trovato cambiamento, perché anche i chiaresi erano cordiali con noi, mentre invece qui [a Torino] la gente era più chiusa. Io non l’ho provato quello, son sincera, ma i primi che son venuti gli davano del fascista, ed era quello che dava i nervi. Io non sono mai stata offesa, così [in generale] magari si, che dicevano che gli istriani erano tutti fascisti, ma a tu per tu no: mai nessuno mi ha detto eri fascista o eri comunista, no. I primi [invece] l’han passata un po’ più brutta. Anche perché erano ancora gli anni bollenti quelli lì.
Gina P.
[I torinesi ci hanno accolto] bene, non eravamo mica infestati! No, no, abbiamo mica rubato il ... [Leggi tutto]
[I torinesi ci hanno accolto] bene, non eravamo mica infestati! No, no, abbiamo mica rubato il lavoro di nessuno! Era l’ufficio di collocamento che ci mandava [a lavorare], e poi quella volta di disoccupati a Torino non c’è n’era. Nel ’52 a Torino di disoccupati non c’è n’era, bastava avere voglia di lavorare.
Achille C.
Qua a Torino hanno accolto abbastanza bene i profughi: non rompere le scatole e neanche io te le ... [Leggi tutto]
Qua a Torino hanno accolto abbastanza bene i profughi: non rompere le scatole e neanche io te le rompo a te. I piemontesi sono così. Ma invece a Milano - perché sono stato due anni a Milano - no. Eravamo più malvisti. [Ad esempio] io a Milano sono andato a lavorare alla Triplex , facevo il camionista, e già uno [mi diceva]: ah, quello lì viene dalla Jugoslavia! Voleva dire che siamo raccomandati, che il governo italiano ci dava tutto quello che chiedevamo. E poi - i primi tempi - dicevano anche che gli portavamo via il lavoro. E poi a Bologna... A Bologna non volevano darle neanche l’acqua! Ma questo lo avrà già saputo.
Guido C.

Lavoro

Come ho trovato lavoro? Prima un compaesano mi ha detto: ehi, vieni a lavorare a Mirafiori, a fare ... [Leggi tutto]
Come ho trovato lavoro? Prima un compaesano mi ha detto: ehi, vieni a lavorare a Mirafiori, a fare il catramista sui tetti. Si, si! Sono andato e ho lavorato un paio di mesi. E dopo, quando ho finito quei lavori, ho detto: adesso vado all’Ufficio di collocamento a iscrivermi. E sono andato all’Ufficio di collocamento e mi dicono: vuoi andare a lavorare alla Fiat? L’Ufficio di collocamento - noti bene -, mentre qui tutti andavano a lavorare alla Fiat tramite il prete. Perché andavano a lavorare? Primo perché tra i profughi nessuno è di sinistra, non scioperavano. L’importante era che non siano comunisti e i profughi dal punto di vista di qua erano tutti di destra, perché se son scappati dal comunismo, di conseguenza sono tutti di destra. E non era vero! Invece qui [al Villaggio Santa Caterina] dal prete, da don Macario, era un ufficio di collocamento, perché tutti trovavano lavoro sempre in base a questo prete. Lui aveva un ufficio di collocamento diretto. [Lui aveva agganci con le aziende], logico, sicuramente, anche se io ho mai avuto niente a cosa che fare. Perché una volta io sono venuto qui: mi son detto andiamo per il lavoro e per la casa, specialmente per la casa. Sono andato che c’era un ufficio dove c’è adesso quello dei profughi, però non erano loro [l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia], erano sempre i preti. Gli ho spiegato la situazione e loro mi han detto: sa, bisognerebbe dar qualcosa. E a quei tempi, sa... Io gli ho detto: guardi le do questa cifra. Mi hanno detto: è poco. Come han detto è poco mi son venuti i fumenti, mi sono incavolato: li ho mandati a quel paese e me ne sono andato via. Poi ho avuto la fortuna che quando sono andato all’Ufficio di collocamento per iscrivermi, c’era la campagna dei forni ghisa. Si lavorava in Ferriera sei mesi all’anno e dopo ti licenziavano. Invece nel frattempo che siamo andati noi, per fortuna, nelle acciaierie facevano quattro squadre e dai sei mesi siamo passati fissi alle Ferriere di via Livorno, Acciaieria 1. L’ambiente di lavoro era brutto, era l’acciaieria di prima fusione, un lavoro bruttissimo, pesante! Io ho avuto la fortuna di fare il gruista, ero in alto, quindi... [Coi colleghi] nessun problema. Il problema era che c’era la caccia a che sindacato iscriversi, quello si. E io ho detto: non mi iscrivo da nessuna parte perché io ho già visto tante cose che non ne voglio sapere di nessuno, e quindi non mi sono mai iscritto.
Aldo S.
Allora, c’era il nostro parroco, don Macario - furbacchione, era intrallazzone ed era fratello del ... [Leggi tutto]
Allora, c’era il nostro parroco, don Macario - furbacchione, era intrallazzone ed era fratello del sindacalista, che poi è stato anche parlamentare -, e lui aveva capito, visto e detto che c’erano delle leggi che davano ai profughi questo diritto [ad essere assunti] del 5%, mi sembra. E quindi lui andava a mediare con le aziende. [E invece] doveva essere la nostra associazione a fare queste cose, la nostra associazione doveva avere un comitato per andare a trattare con le aziende e a dire qui ci sono i profughi, questi hanno diritto, e cose così. Invece andava lui, e quindi se era uno che andava in chiesa, che era attaccato alla chiesa aveva la precedenza, e magari un altro che della chiesa non voleva sapere niente veniva sempre messo da parte, scartato. Io so che a mia madre ogni tanto le ho detto: non andare, non occorre che tu vada, il lavoro me lo trovo da solo. E un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che ci sarebbe stato da andare in fonderia. Un bel premio a diciotto anni andare in fonderia, no! Fuoco, alluminio, ghisa, e quindi scoppiettava dappertutto. E allora sono andato. Io, nel frattempo, facevo la scuola allievi Fiat, in corso Dante, [per] battilastra. E, appunto, dicevo sempre al direttore lì che c’era: ma io devo venire qui a scuola - avevo diciassette anni- con una famiglia a 27 Lire al giorno - ci davano 27 Lire al giorno quella vola a scuola, per il pullman -, io c’ho una famiglia da mantenere. E poi ogni tanto andavo a fare qualche lavoretto, insomma, per cercare di racimolare qualche cosa. E il reclutamento veniva fatto attraverso il prete, e qualcuno che non andava in chiesa cercava di arrangiarsi: chi aveva un mestiere -è logico- era più facile che andava in un’officina meccanica. Si aggiustavano tra di loro. Però noi [istriani] eravamo forse protetti più di altri, stavamo in una posizione migliore rispetto ai cittadini delle città dove eravamo. Eravamo nelle liste della prefettura, un minimo di sostentamento lo avevamo, quindi... Dopo la guerra c’erano dei problemi, c’erano delle famiglie povere che non avevano [niente], noi [invece] eravamo privilegiati rispetto a loro, perché almeno un piatto di minestra ce l’avevamo, il lavoro a noi era più garantito che a un altro - perché poi son state fatte anche le leggi che ai profughi davano diritto del 3% e del 5% -, e quindi... Poi magari eravamo anche gente che... Cioè eravamo abituati che c’era la cultura del lavoro, e non è che i piemontesi o i lombardi o i veneti o gli emiliani non erano portati al lavoro, ma insomma, erano gente più creativa, mentre noi magari davamo la sensazione - come tanti han detto- che la nostra gente erano crumiri sul lavoro. Ma era un modo per ricostruirsi - diciamo - una vita, e allora... Poi, anche la paura: sai, hai ottenuto una cosa, e te la volevi tenere dura, [stretta]. Io sono entrato a diciotto anni alla Fiat, in Fonderia a Mirafiori, avevo diciotto anni e un mese: il 24 aprile ho cominciato a lavorare alla Fiat, e il 25 era già festa. E, come ho detto prima, ero un tipo sempre un po’ rivoluzionario, a me le ingiustizie mi davano fastidio e mi facevo rispettare. Allora un giorno un operatore - T. che era il massaggiatore del Toro, ed era mio operatore - mi fa: sai V. che a te negli uffici ti chiamano tutti V. il rosso? E io ho detto: ma per quale motivo? Fino a ieri mi han detto che eravamo fascisti, adesso mi dicono che sono rosso, ma per quale motivo? Ma, perché dicono che tu protesti di questo, che quello non va... Beh, dico, se mi faccio i miei interessi e quelli di chi lavora con me, allora sono rosso, e dillo pure negli uffici che da oggi sono rosso di fuori, di dentro e dappertutto! Perché se vogliono che sono rosso, sono rosso. Se devo fare i miei diritti e dicono che sono rosso, o se sto zitto e sono nero... Non ho capito. E da quella volta è cominciato il mio modo di vedere le cose diverso, perché è loro che ti guidano: luogo comune è dire uno è rosso, giallo e nero.
Antonio V.
Quando sono andato a cercare lavoro, la prima [officina] che sono andato a vedere non mi hanno ... [Leggi tutto]
Quando sono andato a cercare lavoro, la prima [officina] che sono andato a vedere non mi hanno voluto perché non avevo ancora quattordici anni, e loro volevano essere in regola. Invece nella seconda boita dove sono andato mi hanno preso lo stesso. Quindi, probabilmente, a loro gliene fregava poco: ed era un lavoro da pulire roba, roba di ferro col solvente. Facevano i reostati per le lampadine al neon, e quindi...Quindi da quel momento in poi io ho incominciato a lavorare otto ore al giorno, o nove, non mi ricordo più, che portavo le prime 2.000 Lire alla settimana a casa. Duemila lire alla settimana, che la prima volta le ho buttate sul tavolo con arroganza! Poi, però, ho avuto la fortuna - e lo dico veramente, io quelle persone lì, son quelle persone che gli farei un monumento - di andare a lavorare da un certo Fiore Andrea, vicino a piazza Sabotino, in via Villarbasse. Lì ho trovato delle persone - cioè il padrone dell’officina e i suoi figli - veramente eccezionali, perché mi hanno preso, mi hanno fatto iniziare a lavorare dal basso, fino ad andare a lavorare sulla fresa in pochi anni. Non solo, ma quelli lì mi hanno messo anche la marchetta, che poi mi è servita per la pensione. Non solo, ma poi anche perché ero giovane, mi mandavano due volte a settimana a scuola, nell’ora di lavoro, alla scuola dei salesiani. Comunque, facevi due o quattro ore alla settimana, più il viaggio ad andare e tornare indietro. Alla scuola per apprendisti, che secondo me è tantissimo: cioè quelle persone lì, quell’officina, è un esempio, non è come l’altra che gliene fregava niente, 2.000 Lire, pedala e via. Quello lì invece mi ha aiutato molto, perché io poi dopo sono entrato in Fiat. Ho lasciato loro, sono entrato in Fiat, ma poi lì è tutta un’altra storia. In Fiat alle Fonderie di Mirafiori.
Mario B.
C’era don Giuseppe [Macario], che  aiutava a trovare lavoro. Mio padre ha fatto domanda e, grazie a ... [Leggi tutto]
C’era don Giuseppe [Macario], che  aiutava a trovare lavoro. Mio padre ha fatto domanda e, grazie a dio, dopo quindici giorni l’han preso. Pensi che mio papà, quella volta lì, aveva avuto da scegliere due posti: alla Ceat gomme e alla Fiat. Lui ha scelto la Ceat gomme, vent’anni poverino ha fatto lì. Poi a Lucento, alle case, dicevano che mio padre era uno dei rossi, era comunista, perché lui non andava mia in chiesa. [Ma] mio padre, ha lavorato come un orologio, eravamo in cinque da mantenere. Dicevano che era comunista perché non lo vedevano andare in chiesa, ma invece lui aveva tutte altre idee da quella lì. Mio padre era una persona che, poverino, stava a casa dal lavoro a Pasqua e a Natale, lavorava sempre. Dodici ore, e in bicicletta. In bicicletta da via Veglia a largo Palermo: pioggia, neve, vento, tutto, lui sempre in bicicletta; attraversava Torino, per vent’anni, poverino! Io in campo profughi, per tre anni, sono andata a imparare a cucire in un atelier in borgo San Paolo. Eravamo in tre o quattro, tutto il giorno. Ci portavamo da mangiare e stavamo lì tutto il pomeriggio, ma non ci davano niente di paga. Poi dopo, sapendo cucire, mio papà mi ha mandato a scuola di taglio, in corso Francia. Sono andata a scuola , ma sono andata con l’idea di sapermi aggiustare per me - infatti ho cucito sempre per me -, e non sono andata all’esame, perché avevo paura. Ma a me mi bastava quello che avevo imparato in tre anni, mi bastava. Non è che volevo mettere su una sartoria, quello e quell’altro. Tutto lì, cucivo così, per qualcuno. Poi in casa ho sempre cucito io per i miei fratelli, le camicie, i pantaloni. E anche per i figli, poi quando è uscita la Benetton, mio figlio non ne ha voluto sapere!
Maria Mn.
Io avevo fatto un corso di taglio e cucito per ragazze - ci davano 500 lire al giorno -, ma più che ... [Leggi tutto]
Io avevo fatto un corso di taglio e cucito per ragazze - ci davano 500 lire al giorno -, ma più che altro era per andare lì, cioè imparavi e ti pagavano. Sono andata a fare questo corso, e poi sono andata a lavorare in sartoria:  ho lavorato tre anni in sartoria. Quella volta eravamo tutte ragazze, e io ero una delle più giovani. Venivano addirittura da fuori Torino: una veniva da Carmagnola a lavorare - e non è che si guadagnasse tanto -, una veniva da None, una veniva da Ciriè, e dicevo: e noi ci lamentiamo che dobbiamo fare solo la via Cesana a piedi, pensa queste qui che vengono da lontano! [La sartoria] era in corso Vittorio, in fondo alla via Cesana. E c’era sta sartoria che si lavorava già in serie, ed eravamo già in tante, quasi tutte profughe. Oltre alle piemontesi, eravamo quasi tutte profughe. E’ bastata una che avesse trovato un lavoro così, e poi dopo, piano, piano [siamo entrate tutte]. Poi sono andata alla Superga, [dove] mi  hanno presa subito: ho fatto domanda, ed io la domanda me la sono portata da sola. Ho detto a mio fratello: accompagnami fino alla Superga in Vespa che devo consegnare questa domanda. Invece che spedirla l’ho portata io, da dove entravano gli impiegati, e l’ho lasciata al portiere. Don Macario no [non mi ha aiutata], a me non è che piacesse molto, perché con noi non è stato buono, assolutamente. E mi ricordo che quando ci hanno chiamate per il colloquio quelle che eravamo,  ci hanno detto che ci pigliavano per tre mesi, perché quella volta era così. E io dicevo: ah, beh, allora rimango in sartoria dove sono, non guadagno tantissimo ma ho il mio lavoro sicuro - eravamo tutte a posto con le marchette e con tutto -. E mi ricordo che il signor Ciabatti, il capo del personale, mi diceva: guardi, io farei un pensierino signorina - mi ha detto -, perché di lavori come in sartoria ne trova fin che vuole. Io proverei. E a un certo punto ho detto: ma si, tanto lavori in sartoria ne trovo finché voglio. E così sono andata a fare la macchinista alla Superga, a cucire le tomaie. Ero già macchinista di prima categoria, anche se ero giovane. [Però] era meglio la sartoria, era meglio la sartoria! Anche perché poi non è che guadagnassi tanto nei primi tempi, e mia mamma mi diceva: ho l’impressione che hai lasciato il ridere per il piangere...Perché venivo a casa stanca, anche perché bisognava rispettare i tempi, c’erano le maestre - le cape - che pressavano un po’. Anche se noi - le macchiniste - eravamo delle privilegiate: non eravamo dove cucinavano la gomma, noi cucivamo le scarpe. Eravamo sempre tutte a posto. Poi mi sono licenziata nel ’68 quando è morta mia mamma, perché ho avuto la seconda bambina e ho detto: come faccio con due?
Argia B.
[Io ero] puericultrice all’asilo nido, da zero a tre anni. Facevo la maestra per i bambini piccoli, ... [Leggi tutto]
[Io ero] puericultrice all’asilo nido, da zero a tre anni. Facevo la maestra per i bambini piccoli, da zero a tre anni. Ho pianto quando sono andata via di là, poi mi è venuta la bronchite asmatica. Diciotto anni ho fatto all’asilo nido, poi sono andata al Comune di Torino, in un ufficio, e ho finito lì. E oramai sono dieci anni che sono in pensione.
Fernanda C.
Sono andato a lavorare alla Pistone Borgo, ad Alpignano. Una fabbrica che faceva pistoni per auto. ... [Leggi tutto]
Sono andato a lavorare alla Pistone Borgo, ad Alpignano. Una fabbrica che faceva pistoni per auto. Lavorava per la Fiat, per la Mondiale per la Lancia. Faceva pistoni ed ultimamente, nel’65, eravamo 1.000 operai, come la Philips di Alpignano che c’erano 2.000 dipendenti. Poi, non mi piaceva lavorare in fabbrica e nel ’70 ho fatto l’autista. Autista di camion, io dico pilota! Ho fatto sempre l’autista finchè, nel 2000, sono andato in pensione da autista.
Renato L.
I miei genitori mi hanno mandato alla scuola Agnelli, perché pensavano che se imparavo in fretta un ... [Leggi tutto]
I miei genitori mi hanno mandato alla scuola Agnelli, perché pensavano che se imparavo in fretta un mestiere andavo a lavorare in fretta e mi avrebbero dato un futuro. Dicevano: dopo studierai, diventerai perito, farai quello che vuoi - magari l’università - ma dopo, adesso impara un mestiere. Mio fratello andava a lavorare alla Ceat gomme e sapevano i sacrifici che faceva, sapevano cos’era e dicevano: tu sei più piccolo e devi studiare, per non andare a fare l’operaio. Almeno operaio qualificato, od operaio di prima categoria che comunque abbia un mestiere. Allora, io ho fatto l’allievo Fiat. Io oggi sono discolo verbalmente, ma una volta ero discolo anche fisicamente, forse perché giocavo al pallone, ma ero discolo anche quando giocavo a pallone! E siccome ero discolo anche come allievo Fiat, mi avevano detto che per punizione mi avrebbero mandato alle Ferriere, perché quelli più bravi, più lecchini e più ruffiani andavano a Mirafiori. Che a Mirafiori, dopo due anni, diventavi operaio di prima categoria e dopo altri due anni diventavi caposquadra, perché i quadri aziendali erano fatti quadri tutti da allievi Fiat. A me han detto: tu sei dispettoso e ti mandiamo alle Ferriere. E io, quando mi han detto questo, ho detto: a me non resta che ringraziarvi, le Ferriere sono a cinquecento metri da casa mia! E il dirigente ha detto: nianca adess puduma feie gire ‘l bale a chial si, in piemontese! Io mi prendevo la mia bicicletta ed entravo da via Pianezza, all’imbocco di via Pianezza, un po’ più avanti di dove c’è il distributore adesso. Tre turni [facevo]. Mi hanno detto, alle Ferriere: tu dimenticati di essere stato allievo Fiat, fai vedere quello che sai fare. Là c’è la mazza, là c’è il cerchione, là c’è il lampadine per il montaggio a caldo e incamina! Allora, subito dopo un po’ di tempo, mi son fatto conoscere, e avevo chiesto di poter fare il centrale, per non fare i tre turni e lavorare il sabato e la domenica, perché giocavo al pallone. Ci siamo scontrati un po’, poi ho fatto vedere al capo del personale che guadagnavo più in un mese di pallone che in un mese di Ferriere - mi davano, obiettivamente, 100.000 lire al mese al Susa e 90.000 Lire alle Ferriere - e allora lo ha capito e mi ha messo a fare il centrale. Mi ha detto: va beh, tu sei sprecato a fare i turni, a fare la manutenzione, vai a fare il centrale nell’officina meccanica. Nell’officina meccanica sono stato quattro anni, poi avevano capito che sapevo montare le cose, perché mi avevano insegnato qualcosa a scuola. E guarda che in Fiat sotto il profilo culturale e anche di condizionamento psicologico erano fortissimi, però ti insegnavano a lavorare; io avevo un professore che faceva gli esami psicotecnici e tutte le volte che mi volevano mandare via lui diceva: no, questo ha un alto quoziente intellettivo, perché mi volevano mandare via per indisciplina; ci facevano camminare al passo, in fila, dall’officina a su e io ero alto, stavo dietro e tiravo un calcio nel culo a quello davanti! Poi dovevi lavarti e non dovevi parlare, ma io venivo dal campo profughi, e quelle regole non le potevo accettare. Comunque, son stato cinque anni in officina, poi mi hanno spostato, mi han detto: qui è arrivato un tracciatore elettronico, non  c’è nessuno che conosce Pitagora, non c’è nessuno che conosce quello e questo e allora sono andato al tracciatore elettronico. Però son l’unico che là in Ferriera, per passare di prima categoria, gli han fatto fare il capolavoro, eh! Capolavoro fisico, eh: ho fatto la doppia coda di rondine, e ho fatto il capolavoro. Poi da là, avevan bisogno di uno che andasse al collaudo, perché bisognava collaudare tutti i pezzi, perché erano i pezzi che dovevano essere montati sugli impianti e gli impianti sono a ciclo continuo. Venivano su i dirigenti da sopra, quindi il capoufficio della manutenzione e loro dicevano: ma lei, cosa fa qui? Venga su con noi, venga su con noi. Eh, ma se non mi mandano... Perché non la mandano? Eh, non mi mandano... Allora, sai perché non mi facevano impiegato? Perché gli impiegati da noi, per fare l’impiegato, dovevi fare un anno il cronometrista. E io mi sono rifiutato di andare a prendere il tempo dietro le colonne ai miei compagni di lavoro, perché lì c’era gente che oramai era già cinque, sei, sette anni che lavoravo. Per me era offensivo andare a prendere il tempo a uno che lavora alla fresa o al tornio, perché gli dovevano dare i tempi. Io non accettavo quello: ho detto che se mi volevano passare impiegato mi passavano impiegato, se no restavo là E son stato là quattordici anni. Poi mi hanno spostato di autorità: un giorno è arrivato il capo, mi ha detto che da oggi lavoravo con lui, di chiudere il cassetto, togliersi la tuta, mettersi in borghese e andare su. E sono andato su: io avevo una grande esperienza di manutenzione di impianti siderurgici e soprattutto di officina, e quindi il concetto di come funziona. Sono andato al coordinamento delle manutenzioni e son stato altri cinque anni; lì ho imparato come si approvvigiona, si prepara, e si creano i presupposti per far lavorare un’officina e per far lavorare gli impianti. Un bel giorno, siccome giocavo nelle Ferriere nel torneo Fiat, l’ingegnere che era a capo della squadra, era capo degli acquisti, e mi ha detto: ma senta, lei con l’esperienza che ha fatto, e tutto quanto, verrebbe a lavorare in acquisti? Io non sapevo ancora che gli acquisti è una zona un po’ pregiata, perché agli acquisti se uno mangia, se uno ruba, se uno imbroglia è comunque qualificato come lavoro, non sapevo ancora. E forse non avevo ancora quella malizia lì. E io gli ho detto: ma, ingegnere, se guadagno di più si. E lui: ma sai, è un posto [di prestigio]. Ingegnere, sempre se guadagno di più! Allora ti farò un aumento al merito. Mi chiama il personale - il capo del personale - e mi chiede: ma scusi, lei perché vuole andare agli acquisti? E ho detto: guardi, voi a me avete sempre dato poco, è vero che io vi ho chiesto poco, magari vi avrei chiesto di più, ma io non ve l’ho chiesto. Ma io ho fatto l’allievo Fiat, ho lavorato nei reparti sugli impianti, ho lavorato in officina, ho fatto l’approvvigionamento e se io vado ancora agli acquisti vi dico: signori, arrivederci, io sono un uomo preparato che qualsiasi azienda mette a livello di capofficina o di capo ufficio. Io quasi quasi, dopo un discorso del genere, non la manderei, mi disse il capo del personale. Faccia lei: guardi, l’ingegnere mi ha chiesto, voi mi avete chiamato per fare un colloquio, io vi ho detto come la penso, se no torno al mio posto e tutto è come prima. Mi hanno spostato agli acquisti. Io agli acquisti ho trovato uno che si intendeva di macchine vecchie, del museo, un altro che era ragioniere e quando gli presentavi un pezzo di ferro e gli chiedevi quanto valeva loro dicevano eh! Sai almeno quanto costa il ferro al chilo? Ma sai con che macchina devi grattarlo? No. Allora loro si facevano fare tre offerte, quella che era più bassa trattenevano ancora il cinque, sei o sette percento e così... Quando sono arrivato io, il mio metodo era diverso. Allora, siccome il mio metodo non piaceva a questi qua e volevano farmi fuori, sono andato da un ingegnere e gli ho detto: senta ingegnere, lei ha un servizio che è tutto bucherellato. Io non dico che sono disonesti, dico che sono incapaci, ed è diverso. Poi ci sarà l’onesto e il disonesto. Lei vuole cambiare sistema, vuole sapere che cosa compra per l’azienda? Vuol sapere quanto vale quello che compra? Si? Allora, guardi, io ho fatto l’allievo Fiat, ho due o tre amici che non saranno bravi a fare gli acquisti ma son bravi a fare i preventivi. Lei in mezzo a questo ufficio di sessanta persone, metta un gabbiotto con dentro due che fanno i preventivi. Quando comperiamo andiamo a chiedere i preventivi fuori, ma devono essere allineati con questi preventivi, oppure andiamo a discuterli se qualcuno sbaglia, perchè padreterno non c’è nessuno. E’ nato un nuovo sistema agli acquisti, hanno portato qualche decina di miliardi di risparmio e sono diventato capo ufficio. Quando son diventato uno dei tre capo ufficio che c’erano, la Ferriera si è sciolta, e siamo diventati industria Acciai Inox, e io sono andato in corso Regina, ed ero già quadro aziendale. Non potevo diventare dirigente perché non ho la laurea però, onestamente, mi pagavano. Ma io facevo gli acquisti e il direttore diceva sempre, pubblicamente, che l’unico che prende la tangente è A., perché ogni anno a lui i soldi io glieli do. Perché sapeva che io avevo litigato con troppi fornitori: quando un fornitore voleva venirmi a impormi cosa io gli devo dare, e magari sapere anche quanto costa, allora con me litigava. Se invece veniva lì e mi diceva: senti, c’ho trenta operai, c’ho due o tre macchine che sono ferme e non posso permettermi [di perdere l’appalto], mi dai il lavoro di quel tipo? E io dicevo, certo che te lo do. Perché io ero in grado di sapere quale era il lavoro di quel tempo, ma io gli dicevo guarda che la mia azienda lo vuole a questo costo. E lui diceva va bene, e io facevo lavorare la sua azienda. E c’era invece chi veniva lì e diceva: sent, ‘t dago ‘l des per cent, però aumenta un po’ i prezzi, dammi un po’ di lavoro. E quello non veniva più una seconda volta! Ognuno ha i suoi metodi.
Fulvio A.
Quando sono arrivato a Torino nel ’51, si stava cercando lavoro. E in quel periodo lì c’erano dei ... [Leggi tutto]
Quando sono arrivato a Torino nel ’51, si stava cercando lavoro. E in quel periodo lì c’erano dei corsi professionali - organizzavano dei corsi professionali -, e una volta sono andato in via San Secondo che c’era la scuola di via San Secondo, vicino alla stazione, [che] era uno scuola professionale. O c’era la scuola dei saldatori, di periti chimici, e si andava a fare questi corsi e ci davano qualche cosa: non mi ricordo quanto, forse cento e tante lire, non so. E poi io avevo fatto la domanda per andare alla Fiat e nel ’53, il 9 marzo del ’53 io sono entrato alla Fiat. Avevo diciannove anni e mezzo e allora lì ho mollato tutto quello che dovevo fare, corsi e non corsi, e sono andato a lavorare in fonderia, in via Settembrini. A Mirafiori, in via Settembrini, alla fonderia alluminio, e ho fatto trentacinque anni e mezzo. Lì ho fatto un po’ di preparatore, capo squadra e quelle cose lì, e poi son venuto qua  [a Carmagnola] nel ’67, verso febbraio, perché c’era da iniziare l’assistenza per sta nuova fonderia e allora son venuto qua e il 15 aprile abbiamo fatto l’inaugurazione della Teksid Alluminio. Il mio rapporto con i colleghi...Io quando sono andato a Torino a lavorare nel ’53, c’erano dei capi anziani che mi volevano un bene incredibile, piemontesi, torinesi. Qualcheduno in modo particolare era appassionato di sport, e sapeva che io giocavo anche [a pallone], erano delle persone che diciamo al 90% erano molto [brave]; anzi, si interessavano, chiedevano delle informazioni su come siamo stati, su come ci trovavamo. Insomma, io dico che sul lavoro sono stato trattato coi guanti. Posso dirlo tranquillamente e senza paura di smentite. Non ero neanche arrivato lì che dopo due mesi mi hanno chiamato all’Ufficio manodopera, che c’era uno che facevano il Trofeo Agnelli e dice: tu che vieni dal mare, c’è da fare il Trofeo Agnelli di nuoto, vieni a farlo. Ma guarda - gli dico - che io gare non ne ho mai fatte. Ma vieni lo stesso! Per dire, che dopo due mesi che ero lì mi avevano già inserito in questo gruppo di sportivi. E sono andato avanti per diverso tempo a fare diverse cose, sia nel calcio che nel tennis.
Mario M.
Non c’è stata una grandissima attenzione verso di noi. Abbiam dovuto tirarci su le maniche. Per ... [Leggi tutto]
Non c’è stata una grandissima attenzione verso di noi. Abbiam dovuto tirarci su le maniche. Per esempio anche per andare a lavorare c’era una legge che obbligava i datori di lavoro, come per i reduci di guerra, di dare lavoro a una percentuale di profughi, perché noi eravamo italiani, avevamo perso tutto. E poi quando ci veniva a chiamare il prete per andare a lavorare, Don Macario, c’erano sia politici che altre persone... Insomma facevano credere che era un favore che ci facevano loro personalmente perché si erano interessati, invece lucravano su questa cosa qui. Ma noi non eravamo informati dei nostri diritti, eravamo troppo scossi dalla guerra. Non eravamo neanche curiosi di andare a vedere, perché non eravamo polemici. Come dire... Perché la prima generazione accetta tutto, poi magari la seconda generazione fa valere i propri diritti, in genere. Noi eravamo la prima generazione e quindi accettavamo qualsiasi cosa pur di andare avanti
Sergio V.
Chi parla male di colui che le ha fatto bene, è un malparlante! Perché , si ricordi, Don Macario è ... [Leggi tutto]
Chi parla male di colui che le ha fatto bene, è un malparlante! Perché , si ricordi, Don Macario è un piemontese, ha un fratello sindacalista che ha dato tanto del bene ai profughi. Perché è facile parlare male di una persona. Don Macario, io lo conosco... Guardi che io lucidavo le scarpe a Donat-Cattin, con Don Macario seduto lì [vicino] e le dicevo: guardi che lei non doveva fare il prete, doveva fare il puttaniere! Però non posso parlarne male, perché era un uomo. Mi ha capito? Don Macario ha mangiato tanto, ma ha trovato la possibilità di mangiare: scusi, se lei ha il tavolo pieno di roba, e ti dicono mangia... Guardi, si dice - perché si dice, stiamo attenti, perché è facile dire ed è difficile vedere la realtà - che don Giuseppe chiedesse uno stipendio o due quando il lavoratore entrava in una fabbrica. Io le dico una cosa: mio fratello è entrato alla Ceat grazie a Don Macario e a Donat-Cattin, ma mio fratello non ha dato nessun stipendio. Neanche un’offerta mi è stata chiesta. Perché Don Giuseppe era quello che dava il benestare se una persona era buona o cattiva per entrare in una fabbrica, perché allora valeva lui, era una persona importante. Come oggi è importante il nostro sindaco di Torino, nel campo profughi valeva lui, era molto importante. Perché la chiesa è sempre stata una cosa importante nel nostro campo: è stata importante a Laterina, è stata importante a Udine. Noi abbiamo cominciato a stare bene quando è entrata l’ECA e la Pontificia Commissione di Assistenza che, bene o male, i vestitini, grembiulini arrivavano. Don Giuseppe era un sacerdote, era un uomo fatto a modo suo, era anche ammalato - aveva il diabete -, voleva costruire tante cose, ma forse ne faceva poche con le promesse che dava. La realtà è questa: nel centro giuliano di Lucento lui ha detto che avrebbe fatto tanto. E quel tanto non l’ha fatto don Giuseppe, ma l’ha costruito grazie allo stato italiano, al comune di Torino, la provincia e la regione. Che allora non c’erano provincia e regione, c’era uno staff differente, ma gli davano i soldi lo stesso
Nirvana D.
Avendo fatto elettronica come scuola, e poi avendo fatto al militare telefonia, quando sono tornato ... [Leggi tutto]
Avendo fatto elettronica come scuola, e poi avendo fatto al militare telefonia, quando sono tornato ho avuto l’opportunità di entrare in STIPEL, in centrale telefonica. E quindi ho fatto proprio il tecnico di centrale. Dopo di che mi son sposato, e mia moglie faceva l’informatica, la programmatrice. Era una qualcosa che mi affascinava e allora di sera sono andato a scuola e ho fatto un corso di computer. Poi ho cambiato completamente mestiere, e da lì in poi ho cominciato a fare il programmatore. Ho lavorato in molte aziende: in Michelin, in Cinzano, poi in Componenti Fiat qui [a Carmagnola, ndr] alla Stars. Poi ho lavorato in aziende americane all’HP e alla Digital, e gli ultimi anni ad Alessandria per una multinazionale francese. Per cui ho fatto l’informatico e ho chiuso come direttore di orientazione ai sistemi informativi di quel gruppo francese.
Sergio M.
Quando sono andato militare, sono andato a Trieste e a Trieste c’era un maggiore, il maggiore F., ... [Leggi tutto]
Quando sono andato militare, sono andato a Trieste e a Trieste c’era un maggiore, il maggiore F., ad Opicina dove ero io, che era un dirigente della Triestina. Nelle rappresentative militari mi aveva visto giocare e mi ha detto: senti, adesso organizziamo una partita con la Triestina, un’amichevole e poi vediamo se vai bene. Sono andato bene e mi ha preso la Triestina, si, si. Ho fatto la De Martino [sodalizio calcistico di Trieste, fucina di talenti tra i tanti si ricorda Giorgio Ferrini, triestino e bandiera del Torino negli anni Sessanta] e società satellite della Triestina  e poi mi avevan chiesto di fermarmi. Ma io avevo problemi, la famiglia aveva grossi problemi perché nel frattempo anche mio fratello si era sposato, avevo una famiglia da tirare avanti, mia madre, mia sorella i fratelli più giovani. Anche se lavoravano, però, insomma avevamo problemi e non potevo spostarmi. E poi lavorando in fabbrica... Io ho lavorato prima alla Michelin, al dopolavoro Michelin in corso Umbria, e lì ho lavorato parecchi anni. Poi lì tra l’altro giocavo nel Michelin, nel Michelin Sport Club in corso Grosseto. Lì avevamo tutti giocatori anziani e l’unico ragazzo ero io, però molti son diventati poi dirigenti della Michelin. Chi sosteneva questa squadra era l’ingegner Borel, che era un appassionato, una bravissima persona. Mi aveva preso a ben volere e poi dovevano assumermi, ma io avevo ancora qualche speranza di far qualcosa col calcio. Questo prima di andare militare. E allora chiesi se potevano dare il mio posto a mio fratello. Il quale lavorava alla Fiat ma voleva andare a tutti i costi alla Michelin - e infatti poi ci è andato - perché si lavorava molto di più. Non dico il doppio ma quasi. Poi dopo io son tornato da militare e mi son detto: qua adesso la fiammella si sta spegnendo, cosa faccio? E invece cosa succede? Che arriva Nereo Rocco al Torino e Nereo Rocco si porta dietro l’allenatore Marino Bergamasco che era l’allora allenatore della Triestina, della prima squadra. Perché io giocavo nella De Martino, ma mi allenavo sempre con la prima squadra, perché essendo militare quando avevano bisogno di fare le partitelle mi chiamavano sempre. Scendevo con il trenino da Opicina e andavo lì: mi davano un piccolo rimborso più dei buoni per andare a mangiare al ristorante Alle Viole, mi ricordo ancora. E poi io non avevo mai il tempo, perché io facevo il radiotelegrafista a quei tempi a militare, e quindi avevo ventiquattro ore di servizio e quarantotto ore libere. Abbastanza tempo libero ma nelle ventiquattro ore ero impegnatissimo. E allora cosa facevo con questi buoni? Quando ne avevo un mucchietto portavo tutti i miei commilitoni al ristorante Alle Viole, e un giorno il proprietario mi ha detto: ma non portare tutti sti militari, qui mangiano i giocatori della Triestina! E’ arrivato Rocco e allora sono andato a parlare con Bergamasco. Chiamiamo il paron [soprannome dell’allenatore triestino Nereo Rocco] - che Rocco era fatto così - e Bergamasco gli dice: paron, guarda che i’ è s’è questo qua, s’è un profugo, cosa facemo? E lui: che si allena con noi una settimana no, poi vedremo! In queste cose qui Rocco era formidabile! Io recavo il turno di notte quella settimana, lì alla Ceat e ho detto: cosa vado a fare io, la squadre era buona, il Torino aveva una squadra buona con i Ferrini e giocatori del genere. Ho detto: porca miseria! Sono andato, piuttosto muoio ma non voglio stare a casa dal lavoro. E allora cosa facevo? Andavo a casa ad allenarmi, anche al mattino qualche volta. Dopo essere arrivato a casa alle sei, dormivo due ore e poi andavo giù, e andavo lì. Poi dopo, alla sera, prima di andare a lavorare in fabbrica, passavo dal bar, dopo aver cenato, a prendere un caffè e trovavo qualcuno che diceva: ma sai che sono andato a vedere l’allenamento del Torino e c’è uno che ti assomiglia tutto! Io non lo avevo detto a nessuno. E dopo una settimana Nereo Rocco chiamò Bergamasco... Perché io giocavo con suo figlio, col figlio di Rocco, lì alla De Martino, Bruno Rocco. Io giocavo con suo figlio. E allora poi mi ha trovato una squadra a L’Aquila, in serie C, in C1. E son andato a L’Aquila e son stato lì, poi da L’Aquila sono andato a Campobasso, poi sono andato a Fano, ho girato un po’ insomma. Poi son finito al Torino dopo parecchie vicissitudini: ho allenato la Pro Vercelli qui in Piemonte, l’Ivrea per cinque anni - non consecutivi ma in momenti diversi - l’Asti, il Casale che l’ho portato in C il Casale. La Junior Casale. Dai dilettanti siamo andati in C. Cioè giocavamo col Ciriè e dopo due anni giocavamo con l’Udinese, la Triestina e tutte ste squadre qui, insomma. E dopo tutte queste cose qui Giacinto Ellena, capo degli osservatori e grande personaggio del Torino, mi propose di andare al Toro. E a me non sembrava vero, perché cosa mi sono detto: giocare al mio livello come sono io, non è che sono un gran giocatore, cosa guadagno? Quando smetto sono nella cacca più di prima. E allora, mi sono detto, questa è una grande occasione: quella di fare l’allenatore, e al Torino anche! E allora son venuto al Torino. Io avevo già vinto campionati con la Junior Casale. Son venuto al Torino e ho cominciato a guadagnare come gli allenatori delle giovanili che c’erano lì, molto meno insomma. Ho dovuto ricominciare da capo, risalire la china e piano piano mi sono imposto, perché ho cominciato a vincere subito al primo anno la Beretti e poi pian pianino mi han dato la Primavera e, insomma, tutto il resto si sa. Io questo volevo dire: ero considerato un allenatore non duro, ma uno che faceva lavorare molto, moltissimo. Ma non ho mai detto ai ragazzi: ai miei tempi, se voi sapeste. Di queste cose qui non ho mai detto niente. Perché era un altro mondo, e noi abbiam sempre l’idea quando diventiamo adulti che ai ragazzi di oggi servano le stesse cose che servivano a me una volta, ma invece no, non può essere così. Quindi ho evitato queste cose qui, però le mie radici, la mie vicissitudini, l’esodo e i miei dodici anni di campo profughi e tutto questo mi sono serviti molto. Perché non è stato facile non essere famoso come giocatore e imporsi a livello nazionale. Con il Torino. Non è facile! Poi ho fatto anche sei anni da responsabile di tutte le nazionali giovanili, quindi non è una cosa facile, è difficile. Perché la decima parte di quello che ho fatto io sarebbe bastata a un giocatore famoso per prendere una prima squadra. Io poi son stato forse il solo allenatore che ha ricevuto decine di offerte in serie A e in serie B ad averle rifiutate. C’era Ormezzano che diceva una volta sul Tuttosport, quando scriveva sul Tuttosport: in Italia ci sono due persone che non aspirano ad allenare in serie A, io e S.V.!
Sergio V.
A Torino c’era la possibilità della Fiat, c’era la possibilità di lavoro, ed eravamo quasi 10.000 ... [Leggi tutto]
A Torino c’era la possibilità della Fiat, c’era la possibilità di lavoro, ed eravamo quasi 10.000 istriani qua, in questa zona... E perché ? Perché andavano tutti a lavorare grazie alla Fiat, grazie a padre Agnelli. Quindi ha incominciato a lavorare mio fratello, ed è poi andato anche l’altro mio fratello gemello. Noi ragazzi dovevamo pure mantenerci, e mi ricordo che allora facevamo i cosiddetti corsi dei disoccupati. E che cos’erano questi corsi dei disoccupati? Mi ricordo che andavamo in via Tonel in un piccolo fabbricato dirimpetto alla Fabbrica Tabacchi a Regio Parco. Dalle Casermette prendevamo il 13 e facevamo tutto il giro fino a su in corso Belgio, e si arrivava a Regio Parco. Facevamo mattina e pomeriggio e ci davano, se non sbaglio, 300 Lire al giorno come sussidio, insomma per non lasciarci in strada. Ed era già una cosa molto bella. Allora [Amedeo] Peyron era il sindaco di Torino, e cosa succedeva? Che in qualche modo dovevamo procurarci da vivere e anche cercare un avvenire futuro e noi facevamo questi corsi di disoccupati. E pensi, io musicista che non ero capace di mantenere una lima in mano, mi hanno dato il diploma di aggiustatore meccanico! E abbiamo fatto [questi corsi] per non ricordo quanti mesi, e mi son preso due diplomi e mi son serviti.
Luigi D.
Abbiamo lavorato alla Fiat. Quando da Tortona siamo venuti qua, che siamo venuti in corso Polonia, ... [Leggi tutto]
Abbiamo lavorato alla Fiat. Quando da Tortona siamo venuti qua, che siamo venuti in corso Polonia, mia mamma ha conosciuto una signora tramite la suocera di mia sorella e ha fatto entrare mia fratello alla Fiat, all’Avio Motori, è andato in pensione lì, non ha mai smesso. Mio fratello Aldo anche è entrato alla Fiat, [mentre] io ho fatto dieci anni di Superga, un anno e mezzo ho lavorato alla Snia Viscosa, un anno - proprio il primo anno - ho lavorato alla Sima [una fabbrica] delle molle abrasive, e poi ho fatto la bidella. Ho fatto un po’ di tutto! Io dico la verità [nel trovare lavoro] non ho trovato difficoltà: quando dicevi che eri profugo dalla Venezia Giulia, avendoci conosciuti che gente che eravamo, perché la Fiat ne ha portati su molti, e quindi... E’ stato abbastanza [facile]: da una all’altra anche alla Superga e poi anche il comune prendeva abbastanza facilmente.
Olivia M.
Per trovare lavoro si doveva passare dai preti, praticamente! Mia mamma mi diceva: guarda che ho ... [Leggi tutto]
Per trovare lavoro si doveva passare dai preti, praticamente! Mia mamma mi diceva: guarda che ho sentito dire che Don Macario ha lì una lista di tanti nomi e vanno tutti. Lei va, lei l’ha data, [insomma] tutti quanti andavano a dare il [nominativo]. Ma io pensavo che fosse una cosa che la fabbrica tramite il prete [lo richiedesse]; non pensavo a chissà cosa, non ero maliziosa, non pensavo che fosse una cosa già collaudata. E quindi una volta sono andata e ho lasciato il mio nome. Ad un certo punto ne hanno chiamate una ventina di ragazze, però io non sono stata chiamata, perché noi non frequentavamo [la chiesa]. E ogni tanto mia madre mi diceva: ma perché non vai a vedere? E io le dicevo: no mamma, io ho dato il mio nome ma non vado! Son sempre stata così io per queste cose. Non sono più andata, e io non ho mai avuto un lavoro da loro, mai.
Adriana S.
Avendo un fratello in politica [Luigi Macario] don Giuseppe [Macario] aveva probabilmente ... [Leggi tutto]
Avendo un fratello in politica [Luigi Macario] don Giuseppe [Macario] aveva probabilmente interceduto per avere i voti. Perché a noi in chiesa lo dicevano chiaro e tondo: votate tizio e caio... E siccome da noi al prete gli si voleva bene, gli si ubbidiva, e probabilmente avranno votato sempre tutti. Oltre al fatto che Don Macario si era dato da fare per il lavoro, per far mettere il riscaldamento, per fare non so cos’altro, l’oratorio. Che lì c’era l’oratorio, avevamo le suore.... Le Casermette si son spostate là: la stessa cosa delle Casermette si è spostata là. L’oratorio, la chiesa, le suore, la parrocchia e cose del genere.
Assunta Z.
Mi risulta che tutti quelli che entravano in Fiat passavano da don Giuseppe e lui quelli che non ... [Leggi tutto]
Mi risulta che tutti quelli che entravano in Fiat passavano da don Giuseppe e lui quelli che non erano tanto di chiesa li stangava! Era quello, così pare, è vero. Adesso le racconto una cosa: io ero amica della figlia della perpetua - la figlia lavorava in municipio - e mi ricordo che c’erano le elezioni, e la casa del prete era diventato l’ufficio elettorale di Donat-Cattin, diciamolo chiaro e tondo. E allora quando c’erano le elezioni in Fiat, andavo con la figlia della perpetua a distribuire volantini alle Ferriere; insomma facevo propaganda per la Cisl, perché doveva vincere la Cisl e sconfiggere la Cgil. Ma io tutte queste cose le ho capite dopo, lì per lì ero ingenua, mi credi che era così? Non avevo malizia, non avevo strumenti per essere obiettiva, non so io... E la casa del prete era diventata l’ufficio elettorale. Lui aveva addirittura un tabulato con dei nomi, e su ognuno c’era scritto s, c ed i. Cioè, c’era questa sigla qua. Ed io chiedo alla mia amica: ma cosa vuol dire? E lei mi dice: incerto, sicuro, contrario. E io ho visto un contrario su uno che conoscevo io e le faccio: ma come fate a dire contrario, questo è mica comunista! Perché i contrari eran quelli. Nella casa del prete! Io son poi entrata in crisi che non sono più andata in chiesa per vent’anni! Dopo che mi son sposata non sono più andata né a messa né niente, perché mi ha dato veramente fastidio sta cosa.
Anna Maria P.
[Il prete delle Casermette] aveva la Fiat, la Michelin, la Westinghouse, tutto faceva! Se avevi il ... [Leggi tutto]
[Il prete delle Casermette] aveva la Fiat, la Michelin, la Westinghouse, tutto faceva! Se avevi il benestare suo andavi, se no, no. E a me mi ha tagliato le gambe! Perché io dovevo andare alla Pirelli, quando hanno fatto la Pirelli a Settimo: sono andato al colloquio, prima di Natale, e mi han detto che il giorno 2 gennaio dovevo presentarmi là. Io non abitavo al Villaggio qua [a Lucento], ero già sposato, abitavo dietro alla birreria del Pioppo [alle Vallette]. Sono andato al colloquio e mi han detto di andare il 2 gennaio. Con me, c’erano anche due scagnozzi [ragazzi] di qua [del Villaggio] con [in mano] una busta gialla. Avevano la busta gialla di accompagnamento. Sono entrati - io sono uscito e loro sono entrati - e il giorno dopo ho ricevuto dall’ufficio del personale della Pirelli [una lettera] che diceva che avevano riesaminato il mio caso e non potevano dare corso all’assunzione. E chi è stato? Il prete! E perché ? Perché siccome quando siamo venuti ad abitare qua, il prete da tutti quelli che sistemava, voleva una tangente ogni mese. Allora mio padre gli ha detto che lui lavorava per mangiare, non per darli a lui [i soldi]! E allora B., la famiglia B., era esclusa. Il prete ti tagliava le gambe.
Giorgio B.
[Anche i profughi giuliani] li ha sistemati tutti lui! Quelli della Venezia-Giulia erano i più ... [Leggi tutto]
[Anche i profughi giuliani] li ha sistemati tutti lui! Quelli della Venezia-Giulia erano i più trattati bene dai preti! Per tutto, perché votavano al centro! De Gasperi [i giuliano-dalmati]li ha chiamati , gli ha detto: venite, venite, c’è lavoro! E invece non c’era niente neanche per loro! Diciamocelo: i primi sono venuti perché sono scappati, ma gli altri c’era la propaganda. [Gli dicevano]: eh, venite in Italia, vi diamo un dollaro al giorno, mangiare, bere e la casa! Gli ultimi anni, questo. Per esempio mia moglie - fiumana - è venuta qua nel ’53, e quelli sono venuti perché quelli là gli dicevano: venite qui [in Italia], che vi danno tutto. Mio suocero era socialista, aveva la macelleria e l’osteria, e cosa è venuto a fare qua? Spiegami cosa è venuto a fare? Se stava bene là, cosa è venuto a fare? [E’ venuto] perché ha sentito il cugino che gli diceva ste cose. E qui chi è che stava bene? Quelli che lavoravano alla Fiat e vivevano alle Casermette. Avevano la Vespa... E tra i primi che sono arrivati, c’è n’erano che facevano i mafiosi... Tant ‘l preive l’avia già sistema tuti! Non tutti eh, una parte. Però erano quelli che poi ti sputavano addosso!
Gigi B.
Dopo aver lavorato in parecchi posti con le imprese, ho rifiutato alcuni lavori e avevo deciso di ... [Leggi tutto]
Dopo aver lavorato in parecchi posti con le imprese, ho rifiutato alcuni lavori e avevo deciso di andare a lavorare alla Michelin. Perché in quel periodo, mentre alla Fiat guadagnavi 35.000 Lire, alla Michelin ne guadagnavi 85.000. Era tra volte tanto! Era una fabbrica nociva, per cui [pagavano di più]. E lì sono riuscito ad andare a lavorare grazie a un prete missionario. [Però] non il prete delle Casermette, che lui non mi poteva vedere a me! Non mi poteva vedere perché - posso dirlo?- ero comunista. Ero comunista e non mi poteva vedere! Io ho rifiutato parecchi altri lavori perché puntavo sulla Michelin, grazie a questo prete missionario [che avevo conosciuto] grazie a una ragazza. Perché in quel periodo per trovare lavoro non dovevi andare al collocamento, dovevi andare alla parrocchia. Per cui [il mio contatto era] questa ragazza - era una bella ragazza, la Paola - che l’aveva cresimata e battezzata questo prete. Allora noi andavamo in giro con la bicicletta per trovare lavoro, e Paola mi dice: andiamo a trovare padre S. E le dico: ma lo conosci? Si, lo conosco. Padre S. era molto conosciuto a Torino. E allora andiamo io e lei, e lui credeva che eravamo fidanzati, invece no, lei aveva un altro fidanzato. Gli abbiamo chiesto di farci una lettera per andare alla Michelin, per essere assunto alla Michelin. Lui, quando ha sentito così, dice: no, no, ti porto io. Perché devo fari la lettera? Ti porto io alla Michelin. E quello che mi ha impressionato, è stato che era talmente conosciuto questo prete, che quando si è presentato là alla porta e l’hanno visto che era lui, hanno chiamato subito il capo del personale. E quello che mi ha fatto molta impressione è che quando lo ha visto, questo capo di è inginocchiato e gli ha baciato la mano. Son rimasto, ti dico... E l’indomani passavo già le visite.
Simone P.
Combinazione è successo che alla Fiat Aeronautica han mandato via tutti i comunisti, e cosa han ... [Leggi tutto]
Combinazione è successo che alla Fiat Aeronautica han mandato via tutti i comunisti, e cosa han fatto? Andavano alla scuola [allievi Fiat] in corso Dante, prendevano sti ragazzi, io avevo diciotto anni, li prendevano e ci facevano un corso. Prendevano tutti sti ragazzini mandando via tutti questi qua - io son stato sei mesi lì a fare un po’ di pratica - ci han messi tutti noi, meno male. Han mandato via questi che erano comunisti e ci hanno preso e ci hanno messo a noi al loro posto.
Franco S.
Io quando giocavo nel Torino avevo delle amicizie alto locate, non so gente che era alla Pirelli, ... [Leggi tutto]
Io quando giocavo nel Torino avevo delle amicizie alto locate, non so gente che era alla Pirelli, alla Michelin, alla Lancia. E allora gli dicevo: guarda che c’è un mio amico, e se c’è la domanda mettila sopra anziché sotto, ma a livello di amicizia. Quanta gente ho aiutato a entrare a lavorare? Infatti quando arrivavo o col Bologna o col Napoli a giocare, io finita la partita avevo cinquanta profughi dietro di me, che poi andavamo a mangiare ed è chiaro che pagavo io. Festa per tutti! Io c’era un periodo che quando giocavo e prendevo i premi, era festa per tutti i miei amici.
Luigi B.
Arriviamo a Torino nel 1953. [Abbiamo scelto] Torino perché , probabilmente, mio papà sentiva che a ... [Leggi tutto]
Arriviamo a Torino nel 1953. [Abbiamo scelto] Torino perché , probabilmente, mio papà sentiva che a Torino si trovava il lavoro. Però non l’ha trovato, perché , in fondo, lui non aveva mai fatto lavori di fatica, cioè non era abituato, non li sapeva neanche fare. E’ stato parecchi mesi senza lavorare. Poi lì [alle Casermette] ci davano anche qualche cosa al giorno, perché neppure lì noi mangiavamo alla mensa, e quindi qualcosa ci davano, ma proprio un minimo, solo per mangiare. E mia madre sapeva cucire, per cui noi andavamo ancora abbastanza bene. Parecchi mesi è stato senza lavorare, e poi lui a forza di chiedere di qua e di là ha trovato un lavoro che non si adattava a lui, probabilmente io me lo immagino, però lui è andato. E’ andato a fare lo stradino, a lavorare lungo le strade, [come per esempio] al Sangone, e qualche volta lui ci portava e poi noi magari facevamo il bagno al Sangone, con mia madre sempre, e lui si metteva a lavorare con gli altri. E penso che quegli anni siano pesati molto a mio papà, però, diversamente, non c’è stato nulla, per parecchio ancora, e alla fine ha fatto la domanda alla Fiat ed è entrato alla Fiat come operaio, ed ha fatto una decina di anni, dodici anni, dal ’56 fino al [1968]. Per dodici anni ha lavorato alla Fiat Mirafiori, che io mi ricordo che andava in bicicletta per non spendere, anche d’inverno. Da Lucento fino a Mirafiori andava!
Adriana S.
A Torino siamo arrivati nel ’58. Ho lavorato all’Upim di via Roma, mi hanno sistemato lì. Ma già a ... [Leggi tutto]
A Torino siamo arrivati nel ’58. Ho lavorato all’Upim di via Roma, mi hanno sistemato lì. Ma già a Brescia lavoravo all’Upim. Avevo un direttore che mi adorava... Ecco, non ho mai fatto sciopero, e lui forse mi adorava proprio per quello, ha capito... Quello si, devo dire la verità, perché mi sembrava che una volta che ho un lavoro, che era una cosa santa, lo tenevo, capisce?
Alma M.
Mio marito ha fatto qualunque lavoro, basta portare due soldini a casa. Andava nei campi, dopo ha ... [Leggi tutto]
Mio marito ha fatto qualunque lavoro, basta portare due soldini a casa. Andava nei campi, dopo ha fatto la domanda [alla Fiat] perché c’era un nostro parente qui [a Torino che gli aveva detto] guarda che la Fiat prende, mandami la domanda. Lui ha mandato la domanda qui e lo hanno preso alla Fiat: è venuto subito a lavorare e poi di sabato e domenica veniva giù [a Tortona]. E così abbiamo fatto per nove o dieci mesi: lui viveva in sta soffitta con un altro e noi donne eravamo sole lì a Tortona. Quando poi hanno dato le case ad Alessandria, hanno dato gli alloggi a tutti, ma eravamo in quattro famiglie rimaste [senza], perché mio marito non voleva accettarlo, perché [diceva]: se lavoro a Torino, cosa accetto [l’alloggio] ad Alessandria? Aspetto che me lo danno a Torino. E poi dopo c’era sto bando e ci hanno dato questo alloggio [alla Falchera]. [Sono arrivata] nel ’59. Poi anche io ho lavorato: ho fatto la bidella per ventisei-ventisette anni.
Adua Liberata P.
All’interno del campo venivano reclutati i più giovani, che sono andati poi a finire a lavorare ... [Leggi tutto]
All’interno del campo venivano reclutati i più giovani, che sono andati poi a finire a lavorare nelle varie fabbriche: mio padre - [che prima] attaccava manifesti elettorali e faceva lavori vari - ad esempio, è stato poi assunto alla RIV cuscinetti a sfera, in via Nizza, ha cominciato a lavorare lì e ha sempre lavorato lì. Quindi da contadino è diventato un operaio di fonderia, e mio zio anche. Diciamo che il reclutamento da parte dell’industria o degli altri enti veniva fatto molto volentieri all’interno dei campi, perché queste persone - gli istriani - garantivano una pace sociale assolutamente garantita. E questo era dovuto al fatto che il profugo garantisce pace sociale. Il profugo istriano eh, parliamo di profughi istriani. Perché , comunque, venivano considerati tutti fascisti.
Giuseppe M.
[Mio marito] era alla Ceat, in via Leoncavallo. Non è rimasto neanche un’ora senza lavoro: fino al ... [Leggi tutto]
[Mio marito] era alla Ceat, in via Leoncavallo. Non è rimasto neanche un’ora senza lavoro: fino al sabato ha lavorato alla Falck e il lunedì era alla Ceat. Lui non è stato a casa neanche un giorno, il tempo di venire qui e di andare alla Ceat. Mio marito, devo dire la verità, ha avuto anche la raccomandazione della Falck, perché non era né ingegnere né cosa, era un controllore, era un semplice operaio. Però era di quegli operai che si davano da fare.
Gina P.
Io a Torino sono andato alla Fiat. Un anno sono stato sotto un’impresa perché avevo la residenza ... [Leggi tutto]
Io a Torino sono andato alla Fiat. Un anno sono stato sotto un’impresa perché avevo la residenza con clausola. Cioè, ho dovuto trovarmi chi mi dava la residenza e chi doveva mantenermi. E poi non hanno dato il nullaosta per andare alla Fiat e allora sono andato sotto un’impresa un anno a fare il saldatore-tagliatore. E allora dopo un anno ho avuto la residenza fissa e sono andato alla Fiat. [Alla Fiat sono entrato] tramite amici, raccomandazioni, se no [non si entrava]. [C’]era uno alla Veneria che faceva la guardia, e lui è venuto a Torino: ha smesso là di far la guardia, ed è venuto a Torino a fare la guardia alla Fiat, tramite una sua zia che era capa in un ufficio della Fiat. E lui mi ha fatto domanda e subito mi è venuta buona. [Lavoravo] a Mirafiori, in fonderia. Dato che ero fabbro mi hanno messo ai magli, due anni. E poi ho trovato di andare all’aviazione a fare il mio lavoro: fare il saldatore, il battilastra e via. Ed era un po’meglio!
Pietro S.
C’era il boom della Fiat e tutti volevano andare nell’industria. I giovani non accettavano di stare ... [Leggi tutto]
C’era il boom della Fiat e tutti volevano andare nell’industria. I giovani non accettavano di stare nella terra come hanno accettato i genitori nostri, che erano abituati a stare nella terra, volevano andare nell’industria. E nell’industria siamo venuti, ed è per quello che siamo venuti poi a Torino. [Mio marito per lavorare alla Fiat] ha fatto molta fatica! Raccomandazioni tantissime! Di un dottore che adesso è morto poverino, il prof. Mattei. Lui era tanto amico di una zia di mio marito e l’ha presa tanto in benevolenza sta zia, perché lei andava a farle i lavori a sto professor Mattei. E allora lei presto ha raccomandato uno, presto ha raccomandato un altro, e insomma piano piano li ha fatti entrare tutti alla Fiat. Ma con delle visite tremende in via Chiabrera! Gli facevano le visite prima di entrare, e poi volevano sapere anche del partito: non entravi se eri comunista! Eh, eh, caro...Mio marito è andato a fare la visita in via Chaibrera, e lui era magro, come un chiodo, magro. Quando lo hanno visitato gli han detto: mi dica un po’ da chi è raccomandato lei? E lui le ha detto subito il nome, perché il professor Mattei gli aveva detto alla zia che non abbiano paura di dirlo, perché lui sapeva chi raccomandava. E mio marito gliel’ha subito detto, altrimenti non entrava! Perché doveva avere salute e tutto. Insomma, salute ne aveva, però era così, magro come un chiodo! Lo han mandato in fonderie. E quello che dico io, quando dico che dovevamo avere dei posti migliori, dei posti un po’ decenti. E’ stato lì quindici anni: quindici anni in fonderia, con il fuoco notte e giorno! Dopo quindici anni lo hanno messo al collaudo - sempre a Mirafiori -: è stato ventinove anni a Mirafiori. Però da quando siamo venuti da Valle a tutto, abbiamo passato anche dei periodi belli, non solo tragedie! Han sofferto più quelli che son rimasti in Istria che noi qua.
Aldina P.
Qui [a Torino] abbiamo fatto i lavori più umili: i giuliani si lamentano, ma anche noi cosa ... [Leggi tutto]
Qui [a Torino] abbiamo fatto i lavori più umili: i giuliani si lamentano, ma anche noi cosa facevamo? Buttavamo la ghiaia sulle rotaie! Andavamo sui vagoni a scaricare la ghiaia, a fare i catramisti. Cosa potevi fare? Se volevi guadagnare qualche soldo, ti buttavano lì a fare marciapiedi: tu portavi i secchi, e c’era l’operaio piemontese che faceva l’asfalto. Abbiam fatto sti lavori qui, fino al 1953, perché io nel 1953, il 7 marzo sono entrato alla Fiat. Nel 1953 ne hanno assunti un casino: io avevo fatto una domanda una volta, mi han chiamato e mi han preso, ma c’era la coda a far la visita! Un casino di gente ha assunto alla Fiat. [Io sono andato] in fonderia, a Mirafiori.
Gigi B.
E quanto ti davano [a lavorare]? Non ti davano niente. Io lavoravo alla Michelin quando siam venuti ... [Leggi tutto]
E quanto ti davano [a lavorare]? Non ti davano niente. Io lavoravo alla Michelin quando siam venuti qua, e l’operaio prendeva 80.000 Lire al mese, [mentre] noi altri che lavoravamo con l’impresa prendevamo 30.000 Lire. E anche alla Fiat facevano così.
Giorgio B.
Parto da Bari nel 1955. [Di] cosa vivevo, di miseria?! Sono andato via per trovarmi il lavoro. [Ho ... [Leggi tutto]
Parto da Bari nel 1955. [Di] cosa vivevo, di miseria?! Sono andato via per trovarmi il lavoro. [Ho scelto Torino] perché erano venuti altri a Torino e dicevano che c’è lavoro, c’è la Fiat. Difatti, quando siamo venuti... Prima di tutto, essendo liquidati [dal campo], ci siamo intrufolati alle Casermette di Borgo San Paolo da umanitari. Poi c’era l’Ufficio assistenza Fiat che ogni tanto veniva e ci dava dei buoni per comprare da mangiare, c’era aiuto. E poi andavi al collocamento e [trovavi lavoro]: una mattina sono andato al collocamento con due o tre amici [e ci han detto] che c’erano dei posti di lavoro per la RIV-SKF. Subito! Ci han dato il foglio e ho trovato posto alla RIV-SKF in via Nizza, ho fatto trentasei anni! Alla RIV-SKF trentasei anni ho fatto lì, tant’è vero che ho fatto anche carriera. Non son rimasto solo un manovale.
Achille C.
Appena che sono arrivato, dopo otto giorni sono andato a lavorare subito. [Sarei dovuto] andare ... [Leggi tutto]
Appena che sono arrivato, dopo otto giorni sono andato a lavorare subito. [Sarei dovuto] andare alla RIV, perché c’era mio cognato che lavorava là ed era andato a parlare con l’ufficio dell’assunzione [ufficio del personale] che gli avevano detto che per loro andava bene. Allora ho fatto la domanda, vado là tutto contento di andare a lavorare alla RIV, mi hanno dato il foglio di assunzione e mi hanno detto di andare all’Ufficio di collocamento, dove mi avrebbero dato il nullaosta e poi sarei dovuto ritornare lì. Allora io vado - tutto contento - all’Ufficio di collocamento, gli do il foglio e l’impiegato mi dice: ma tu sei profugo, sei fratello della signora M. Ho detto: si! Eh, caro mio, lo sai [mi dice l’impiegato] che io non posso darti il foglio per lavoro perché tu non hai la cittadinanza italiana? Io so che tu sei italiano, però qui c’è una legge che vale solo per i nostri italiani, non dipende da noi. Perché ci sono tanti italiani che vanno fuori a cercare lavoro... Se io avessi avuto un mestiere in mano come un elettricista o un meccanico si sarebbe potuto fare qualcosa, ma così come manovale l’impiegato ha detto di no. Quindi sono stato annullato dalla RIV, ma ho lavorato comunque sotto un’impresa che lavorava per la RIV. E dopo son tornato di nuovo all’impresa e ho lavorato fino a che non ho preso la cittadinanza, perché dopo per fortuna è venuta fuori una legge. Perché come c’era talmente tanta gente che erano jugoslavi, cioè che automaticamente erano diventati cittadini jugoslavi, che hanno fatto una legge che chi era già cittadino italiano, gli dovevano dare la cittadinanza, E allora con quella legge là, abbiamo avuto la cittadinanza e dopo sono andato alla Fiat. Alla Fiat Ferriere, in fonderia.
Guido C.

Tempo libero

[Come passavo] il tempo libero... Più che altro [andavo] a fare delle buone passeggiate, andare a ... [Leggi tutto]
[Come passavo] il tempo libero... Più che altro [andavo] a fare delle buone passeggiate, andare a vedere le mostre di pittura perché a me piace dipingere. Poi andavo a ballare, ma dopo che mi son sposato, andavo con mia moglie e con un gruppo di amici.
Aldo S.
La domenica con le mie amiche si decideva: o si va a ballare, o si va al cinema o andiamo a ... [Leggi tutto]
La domenica con le mie amiche si decideva: o si va a ballare, o si va al cinema o andiamo a passeggiare, secondo i soldi. Andavamo in centro, andavamo a passeggiare in via Roma: bella via Roma! Un salotto! E tante volte si diceva: quando ci verremo noi a prendere qualche cosa qua dentro [nei caffè]? Perché chi andava? Non si andava. Poi si andava in piazza Castello e in via Po. E poi si andava in via Verdi ad aspettare che uscissero i cantanti dalla RAI. Ecco, quella era la domenica. Si arrivava fino in via Po e poi indietro, altra scarpinata, Porta Nuova e poi casa. Ma tutte soddisfatte. Poi si andava a ballare, ma di giorno. Andavamo in un locale in piazza Sabotino, alla Serenella. Ma non tanto, perché non mi piaceva, preferivo andare a vedermi un bel film. Ero più per il cinema. Mi sarebbe piaciuto andare a teatro, ma non c’era possibilità Ma a ballare poco, non mi piaceva, non mi trovavo, non mi piaceva l’ambiente, perché noi eravamo abituati a stare tra di noi, non so se rendo l’idea. Cioè io la sala da ballo la concepivo con delle persone che si conoscono, ma lì non conosci nessuno. Poi con la mia amica ci siamo decise: sai che facciamo? Andiamo al cinema e non se ne parla più!
Argia B.
I divertimenti... Per divertimenti intendo il cinema e il ballo, che erano quelle due cose che ... [Leggi tutto]
I divertimenti... Per divertimenti intendo il cinema e il ballo, che erano quelle due cose che erano... Tre cose: lo stadio, il cinema e il ballo, che erano i tre intrattenimenti che esistevano in una città in quegli anni. In questo contesto, le nostre donne hanno portato una ventata di novità, di diversità. Perché le donne piemontesi erano attente, precise, si sbilanciavano poco o niente. Molto a casa, poco in giro e tra di loro. Le donne meridionali erano tenute a freno dalla famiglia, per tradizione, per cultura e anche per paura di essere in un posto nuovo. Facevano molta attenzione. Le nostre donne, soprattutto quelle che venivano dai paesi più grandi, da Rovigno - per dire -  da Pola e da Fiume, avevano una forma - non dico Fulvio A. di emancipazione perché è offensivo nei confronti delle altre -, un’abitudine diversa. Andavano a ballare da sole, senza uomini, in quattro o cinque, e non erano sciocche; avevano anche loro le loro simpatie, avevano il ragazzo a cui volevano bene o quello a cui avrebbero dato un bacio volentieri e quello con cui avrebbero fatto l’amore volentieri come nei desideri di tutti i giovani. Si sono sempre tutelate e difese, e molte di queste giovani hanno sposato ragazzi piemontesi, ragazzi meridionali, greci. Andavi a ballare alla Serenella, andavi a ballare al Corso, in città, dove c’era il cinema Corso, in corso Vittorio, che lì si è ballato per una vita. Oppure qualcuno si affrancava... Io ricordo per esempio mio fratello, che era un bel ragazzo, un ragazzo fine - lo dicevano gli altri, per me è bello perché è mio fratello -, lui una volta aveva trovato una ragazza che gli aveva detto: vieni a ballare all’Arlecchino. E lui aveva detto: guarda che all’Arlecchino è un po’ troppo costoso, c’è tutta gente chic, e lei le aveva detto: no, è solo gente che ha paura di affrontare gli altri, loro stanno tra di loro. E allora lui aveva fatto le amicizie, poi era così piaciuto che le amiche avevano detto: se hai degli amici porta degli amici, e hanno cominciato ad andare anche all’Arlecchino, che era una zona... In quel tempo, c’erano queste piccole differenze: si andava a ballare lì,o si andava a ballare lì, o si andava a ballare alla Serenella - e parlo di piazza Sabotino - o al Le Roy qui, quando siamo venuti qua. O andavano a ballare all’Holliwood, ma ci andavo anche io che avevo già cominciato a diventare giovanotto. All’Holliwood al fondo di corso Regina, e lì c’era l’estivo, sopra. E vedevi della gente che si era già affermata, integrata, ma restava un filo. Perché se tu ti incontri, esce fuori il dialetto, anche con uno che è trent’anni che non vedi. Insomma, tutte queste cose qui. Non c’era differenza con la popolazione, c’è stata un’integrazione strisciante - la chiamerei -, senza casse di risonanza, e non l’abbiamo mai rivendicata in nessuna sede.
Fulvio A.
Io, per esempio, appena arrivato lì [in corso Polonia] mi ricordo che andavo in discarica a ... [Leggi tutto]
Io, per esempio, appena arrivato lì [in corso Polonia] mi ricordo che andavo in discarica a raccogliere ferro, rame e tutto quello che si trovava. Avevamo una paletta - la discarica era a cielo aperto -, arrivava il furgone oppure il carrettino e scaricava giù tutto. Allora noi andavamo lì con la paletta a raccogliere e con quei quattro soldi poi magari ti compravi cose tue oppure andavamo al cinema. Tieni presente che in quel periodo lì il cinema per la gente era la realizzazione della giornata, cioè, non è come oggi, eh! Andare a sedersi al cinema era...eh! Allora, andavi lì e raccoglievi: se trovavi il rame andava bene perché col rame prendevi di più, altrimenti prendevi il ferro. Tante volte mi ricordo che arrivavo a casa e mia madre era incavolata come una bestia perché mi ero tutto impregnato. Poi, non lo so, i primi anni si andava d’estate a fare il bagno a Po. Però, questo è - diciamo - prima dei tredici anni; tredici-tredici anni e mezzo. Perché poi io ho cominciato a lavorare in officina, e ho conosciuto degli amici che abitavano da altre parti, tutti quanti lavoravamo e quando ci si incontrava, di sera, era andare al cinema. Insomma, il mondo è cambiato.
Mario B.
I miei tempi liberi li passavo sempre con gli amici: veneti, anche meridionali, senza offese, siamo ... [Leggi tutto]
I miei tempi liberi li passavo sempre con gli amici: veneti, anche meridionali, senza offese, siamo italiani... Andavamo in giro, dappertutto! Le avventure dei giovani: a ballare a Rivoli, in città a Torino, al cinema. [Andavamo a ballare] all’Edera, al Carnino, che adesso hanno cambiato tanti nomi, poi anche nei sottoscala. Quasi tutti le domeniche lì al bar c’era qualche stanza libera e ci divertivamo così. Abbiam fatto qualche conoscenza, poi crescendo qualcuno si è sposato altri sono single come me. Ma io sono contento della mia vita, ho fatto l’autista e mi passava.
Renato L.
Uno trovando lavoro man mano si fa la sua vita, inizia a trovare gli amici, e magari si prendeva il ... [Leggi tutto]
Uno trovando lavoro man mano si fa la sua vita, inizia a trovare gli amici, e magari si prendeva il pullman che veniva fuori, si inizia ad andare al cinema in piazza Sabotino o mangiare la pizza o in Birreria San Paolo.
Mario M.
Il calcio non era un modo per farsi largo nella vita, a quei tempi. Chi è riuscito [ad arrivare], ... [Leggi tutto]
Il calcio non era un modo per farsi largo nella vita, a quei tempi. Chi è riuscito [ad arrivare], ci è riuscito per la grande passione che aveva, ma non c’era in nessuno l’idea di guadagnare cifre. Non era questo il sogno. Era un modo per stare insieme, un modo per passare il tempo, per soddisfare una pura passione sportiva, non uno scopo per farsi largo nella vita, sicuramente. Perché non c’era una grande fiducia nel futuro. Anche se poi abbiamo avuto tenacia e costanza per portare avanti le cose al meglio, sempre. Io, ad esempio, non ho mai pensato di fare il professionista. E’ venuta dopo questa cosa qui. Poi [come divertimenti] c’era il cinema e [il ballo]. [Per andare] a ballare prendevano tutti il pullman: si andava in piazza Sabotino, ogni tanto si andava in birreria alla San Paolo, tutti assieme. Mi ricordo che c’era il direttore della birreria che si era molto affezionato [a noi]: andavamo in tanti, ci faceva degli sconti, perché pur essendo in tanti non si facevan danni e non si faceva baccano. Poi c’eran delle attività culturali: per esempio c’era un coro di istriani che si chiamava il Coro Picon e che, insomma, aveva un’attività fiorente. Si, si, loro passavano moltissime ore a provare, a fare, e andavano in giro a cantare.
Sergio V.
Finito di vivere nel campo profughi, siamo arrivati nel periodo del 1953, quando ci hanno dato le ... [Leggi tutto]
Finito di vivere nel campo profughi, siamo arrivati nel periodo del 1953, quando ci hanno dato le case popolari qua, in via Nizza, [le] case della Fiat, come [in] corso Spezia: corso Spezia, via Nizza, Lucento e anche Falchera sono zone nostre, praticamente... Siamo entrati nelle nostre case e da quel momento abbiamo incominciato a fare la nostra vita civile, a vivere non più da profughi: abbiamo finalmente gustato la grande città. E quindi c’era già un altro modo di divertirsi e avevamo anche le sale da ballo. Io suonavo [la fisarmonica] in varie balere, e poi ho fatto parte di un complesso di fisarmonica a Torino, il complesso Tricò. Era un complesso di sette fisarmonicisti e abbiamo fatto delle attività: suonavamo nelle balere, ai giardini Reali, accompagnavamo Rita Pavone, siamo andati a fare il campionato del mondo in Inghilterra, abbiamo fatto Primo Applauso e suonavamo anche all’avanspettacolo cominciando a fare la vita. Era bello!
Luigi D.
Tutta la nostra gente giocavano a calcio e per questo hanno fatto molta amicizia con la gente di ... [Leggi tutto]
Tutta la nostra gente giocavano a calcio e per questo hanno fatto molta amicizia con la gente di Torino. Perché c’era la squadra del Pino Maina che c’eran tutti fiumani, poi c’era un’altra squadra della Posta che giocava anche mio fratello e che giocavan tutti. E quindi l’integrazione è stata conoscerci, han capito che eravamo gente alla buona che ci piaceva la compagnia, mangiare, bere e far casino e quindi ci si è integrati. Poi anche andare a ballare. Io qualche volta andavo, ma non ero capace! Andavamo in giro, da tutte le parti: Cenisia, Borgo San Paolo, Borgaro. No, ci si muoveva bene. Eravamo additati come gente che era fascista che era venuta lì, ma sempre perché la politica era sballata, non puoi dire certe cose.
Luigi B.
A ballare non andavo mai. Alle Casermette il nostro tempo libero lo passavamo sempre dentro, perché ... [Leggi tutto]
A ballare non andavo mai. Alle Casermette il nostro tempo libero lo passavamo sempre dentro, perché eravamo ancora bambine. Quando siamo andate a Lucento lo passavamo in parrocchia: avevamo la nostra sala parrocchiale, si cantava e si facevano persino i festival di canto e quelle cose lì, alle quali partecipavo anche io perché avevo una buona voce. E poi cosa si faceva? Ah, ecco, don Macario aveva un campeggio a Sauze d’Oulx, e tutte le estati si passava là un mesetto - venti giorni, tutte le ragazze. A ballare no, non sono mai andata, e poi man mano che crescevamo andavamo poi al cinema, al teatro, ma sempre in gruppi, tutte assieme. Poi avevamo i morosi e allora...
Assunta Z.
Si andava al cinema Lucento - anche al cinema [si andava] tutte e domeniche - perché all’oratorio ... [Leggi tutto]
Si andava al cinema Lucento - anche al cinema [si andava] tutte e domeniche - perché all’oratorio ci davano il biglietto per il cinema e noi andavamo al cinema col biglietto gratuito. Anche perché mio papà - era già il ’55 - aveva quattro figli allora, e non è che mi potesse dare tanti soldi per i divertimenti. Ricordo che mia madre mi dava 195 Lire per comprarmi un paio di calze, nylon! Facevo le superiori, e allora mi ricordo che quasi sempre le rompevo il lunedì, e tutta la settimana portavo le calze rotte, perché non avevo il coraggio di chiedere [altri soldi]. Io sapevo le condizioni della famiglia, e non avevo il coraggio di chiedere altri soldi. Io portavo le calze sfilate [smagliate], quando partivano i treni, si diceva allora!
Adriana S.
Quando andavamo in giro andavamo in bicicletta e io mi ricordo che andavo a lavorare fino in via ... [Leggi tutto]
Quando andavamo in giro andavamo in bicicletta e io mi ricordo che andavo a lavorare fino in via Cigna in bicicletta. Il massimo che avevo era la bicicletta, e si viveva tutti assieme, si continuava a vivere tutti assieme: noi eravamo come isolati, eravamo un gruppo a se. Poi c’era gente che aveva cominciato a lavorare: mio padre [ad esempio] è andato alla Iprat a lavorare e cominciavamo a guadagnare qualche cosina e iniziavamo a star bene, avevamo comprato la radio, il giradischi, cominciavamo a metterci un po’ in quadro. Si cominciava a stare un po’ meglio di soldi, ad avere dei vestiti che noi andavamo in giro ed eravamo dei bei ragazzi, cioè, cominciavamo a conoscere. Andavamo a ballare, andavamo in birreria, cominciavano a conoscerci. Poi facevamo le partite, facevamo un campionato e piano piano cominciavi ad andare in fabbrica, cominciavi ad aver la macchina e allora è cambiato tutto, non eravamo più i pezzenti che eravamo messi là da parte e che non uscivano da lì. Capito?
Franco S.
“Eravamo molto attaccati all’oratorio, perché c’era questo oratorio ed eravamo quasi tutte di noi. ... [Leggi tutto]
“Eravamo molto attaccati all’oratorio, perché c’era questo oratorio ed eravamo quasi tutte di noi. Mio padre non mi lasciava andare a ballare. Le poche volte che sono andata a ballare sono andata con una mia amica e i suoi fratelli e basta. Siamo andati in quel [locale] che c’era in piazza Statuto... Non mi ricordo come si chiama, ma era vicino a piazza Statuto. No, con mio padre non si andava a ballare. Poi con le ragazze che stavano lì a Lucento, ho incominciato ad andare a teatro, e andavamo sempre in gruppo, perché poi alla sera, per tornare a casa, che non c’era più la navetta che ci portava dal capolinea del 13 fino a casa nostra andavamo a piedi, ed era bellissimo, per me era stupendo. Però, come dire, di amici torinesi nella banda, nella compagnia, non ne ho mai avuti, eravamo sempre tra di noi. Poi dopo sposata, che mi son staccata da lì, ho incominciato ad avere altre amicizie, però fino a ventitre ventiquattro anni ero con le mie amiche di sempre.
Anna Maria P.
Io son stato licenziato sette volte: dove andavo mi cacciavano via, perché io quando c’era ... [Leggi tutto]
Io son stato licenziato sette volte: dove andavo mi cacciavano via, perché io quando c’era allenamento le dicevo che andavo a lavorare e il padrone mi diceva ah, se vai a fare l’allenamento non venire più. E io dicevo: allora non vengo più! E non tornavo più. Perché mi dicevano: prima il lavoro e poi l’allenamento e io invece volevo prima giocare. Poi il Torino mi ha dato un posto da un tifoso del Torino, che poi avevo portato anche degli amici a lavorare lì. Se mi davano il posto per fare l’allenamento andavo, se no io scappavo subito. Nel ’46-’47, il Torino vecchio era ancora vivo. Ho iniziato con la juniores e poi sono arrivato alla prima squadra nel 1953. La prima partita è stata nel ’53. Poi sono andato a Bologna, al Napoli e all’Atalanta. Poi avevo quasi smesso per uno strappo e non riuscivo più a guarire. Poi ho fatto l’allenatore, ma giocare avrò perso dieci anni di serie A. Purtroppo capita, son cose che capitano, si, si. Il Torino era il Torino. Il Torino era il Toro eh! Poi avevamo delle persone nostre: c’era Grezar che era triestino, c’era Loik che era di Fiume e quindi. Noi quando andavamo al Filadelfia si conosceva un po’ tutti. Io ho frequentato il Filadelfia che ero bambino, poi sono andato a giocare. Però siamo sempre lì: quando sei qualcuno ce li hai tutti in giro, quando smetti non vedi più nessuno.
Luigi B.
Dove andavo a giocare a me mi mettevano sempre in porta! Io lavoravo già alla Fiat, ero entrato ... [Leggi tutto]
Dove andavo a giocare a me mi mettevano sempre in porta! Io lavoravo già alla Fiat, ero entrato all’Aeronautica, avevo diciotto anni e d’estate giocavo i tornei a Madonna di Campagna, a sette, e di lì è passato Dutto, che ha giocato nella Juventus e come mi ha visto mi ha portato a Fossano. Mi ha portato a Fossano ed era convinto che potevo andare in serie A. Mi ha portato a fare una prova alla Juventus, ma poi mi ero fatto un po’ male al ginocchio e non ho fatto niente. Poi c’era Panza che ha telefonato a Genova alla Sampdoria. Sono andato lì al giovedì ed eravamo in due, ci hanno fatto la prova e mi hanno tenuto a me. Il sabato mattina arriva Monzelli, mi chiama e mi fa: senta, stasera lo proviamo. Sono qui per questo gli ho detto... Io pensavo ad un amichevole così... C’era il Barcellona che era venuto giù, e mi dice: giochiamo contro il Barcellona. Il Barcellona? Madonna! Io sento gli inni nazionali e mi cago addosso! Quella sera abbiamo vinto quattro a zero e io sono uscito un po’ male, e ho bloccato una palla con la mano [aperta] e l’ho tirata oltre metà campo! [E la gente diceva]: chi è, chi è, chi è? E mi hanno preso. Comincia il campionato, Rosin il titolare si fa male - gli viene un foruncolo sul braccio o una cosa così - ed esordisco io. Indovina dove? A Torino al Filadelfia: vinciamo uno a zero, incredibile. Quell’anno lì ho fatto sette partite e poi mi hanno dato in prestito per farmi un po’ di esperienza a San Benedetto: sono arrivato a novembre, avevan cambiato solo me e abbiam fatto tredici risultati utili consecutivi! E allora son poi tornato e ho giocato titolare. Poi a trent’anni Lojacono mi ha tirato una stecca da vicino e mi ha sradicato la spalla. Mi usciva la spalla ed eravamo io e Battara e allora han detto: questo ha trent’anni, ha la spalla che gli esce e il Torino cercava un dodicesimo [un portiere di riserva]. Io invece son guarito e sono entrato in un ambiente che era come se fossi nato lì: ho incontrato Ferrini, che era di Trieste, e tutti mi volevano bene. E sono diventato il più forte dodicesimo d’Europa, perché sostituivo Vieri e Castellini senza farli rimpiangere! Gli dicevo: non fatevi male! Un’altra cosa: derby, Torino – Juventus. Vieri si blocca il collo, cinque minuti prima della partita. Rocco chiama tutti e dice: fioi, g’avemo sto mona de portier, oggi ciapamo tre pere! C’era Zigoni, De Paoli... Dopo dieci minuti ho salvato la partita, ho fatto tre o quattro parate [ed è finita] zero a zero, e quella lì è stata la mia consacrazione al Torino. E poi sono andato avanti fino a trentanove anni, fino a che non mi son rotto il ginocchio e poi ho smesso. E ho avuto la fortuna di andare nel settore giovanile [del Torino] e adesso mi sento veramente uno dei più forti istruttori, cioè di impostazione dei ragazzini. Le ho parlato un po’ della mia carriera!
Franco S.
Ho conosciuto mio marito a ballare una volta e non son mai più andata! Andavo al cinema, noi ... [Leggi tutto]
Ho conosciuto mio marito a ballare una volta e non son mai più andata! Andavo al cinema, noi andavamo tanto al cinema. Avevo amiche dappertutto, avevo tante amiche. Però le dirò che tra di noi ci incontravamo spesso. I miei genitori andavano ai raduni oppure se no andavamo noi da loro [da amici giuliano-dalmati] o venivano loro da noi e c’era chi faceva le frittelle, chi lo strudel, satavamo sempre insieme, si. Si, si, si: palacinke, strudel, frittole, merluzzo... Tutte cose nostre che continuiamo sempre.
Alma M.
[Il mio tempo libero]? Più che al cinema, qualche film, poi passeggiare e basta. Non ero tipo da ... [Leggi tutto]
[Il mio tempo libero]? Più che al cinema, qualche film, poi passeggiare e basta. Non ero tipo da ballare, può darsi che gli altri andavano, magari, [ma io no]. [Qui alla Falchera] c’era un vecchio cinema che si andava, e basta. Perché non c’era macchine, non avevamo macchine per andare a Torino in cinema. Solo che portavamo i bambini in questo cinema qua. Qua [c’]era un cinema e basta, non si usciva tanto.
Adua Liberata P.
Qui a Torino andavamo a ballare là, dove c’erano i bagni delle Casermette, poi dopo, quando avevi i ... [Leggi tutto]
Qui a Torino andavamo a ballare là, dove c’erano i bagni delle Casermette, poi dopo, quando avevi i soldi, si andava in piscina, a vedere la partita.
Gigi B.
Dalle Casermette, quando ho preso lavoro alla Michelin, dico a mio padre e mia madre di trasferirsi ... [Leggi tutto]
Dalle Casermette, quando ho preso lavoro alla Michelin, dico a mio padre e mia madre di trasferirsi a Torino. E così hanno fatto, si sono trasferiti. Ed è stato l’errore più grosso che ho fatto nella mia vita. Quando mio padre è venuto qui... Là a Bari - te l’ho detto - pensava di ritornare [a Patrasso] poi alla fine ha capito, come gli ho detto io, che siamo stati presi in giro. Andrea - gli dicevo - siamo stati presi in giro, mettitelo in testa! E’ stato il più grande errore della mia vita [farlo venire a Torino] perché a Bari, per lo meno, era vicino alla caserma, andava al molo a vedere i pescherecci, prendeva il pesce e lo portava a casa. Ma a Torino, con questa neve e con questa nebbia è stato perso. Ecco perché ti dico che i nostri [vecchi] sono morti di crepacuore. Ho preferito farli venire a Torino. E a Torino io poi sono andato a fare il militare, mio padre e mia madre sono rimasti qua. Sono andato a servire la patria in armi, questo scrivilo, sono in regola! Per cui son tornato con i miei genitori, lavoravo alla Michelin, guadagnavo bene, ero giovane. Ed è iniziato il periodo del progresso: la Vespa, e tutto il resto! Il tempo libero era giocare a pallone e incominciavo a interessarmi di politica. Era il calcio, e poi anche il lavoro, per racimolare i soldi per poi poter andare in vacanza. Le nostra vacanze, i primi tempi, quando eravamo a Torino, era a Bari, andare a trovare i parenti a Bari. Andavamo a trovare i parenti. Per cui questo è stato il periodo e poi però mi son sposato.
Simone P.
Si andava fuori, c’erano le caserme, là dove c’erano i militari, c’era un’osteria che aveva la sala ... [Leggi tutto]
Si andava fuori, c’erano le caserme, là dove c’erano i militari, c’era un’osteria che aveva la sala da ballo. Poi si andava a ballare al Valentino e in piazza Sabotino.
Giorgio B.
[A Torino] ero come un pesce fuori dell’acqua! Andavo via alle sei e entravo a casa alle undici la ... [Leggi tutto]
[A Torino] ero come un pesce fuori dell’acqua! Andavo via alle sei e entravo a casa alle undici la sera, dalla mattina alla sera. Il cinema non mi è mai piaciuto e ballare... Qui era diverso, c’era già il twist e tutte quelle cose che da noi non si ballava. Da noi c’erano le mazurke, le polke, i valzer, era tutto diverso. Qui invece c’era il twist, il mambo e non ero capace.
Guido C.