Franco D.
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.»
Parole esplicite, pronunciate da Mussolini durante un viaggio nella Venezia Giulia nel settembre del 1920, evocanti in maniera netta la linea politica che il regime fascista intende portare avanti nei territori del confine orientale. Un fascismo di confine, che si pone come estremo baluardo dell'italianità minacciata dalle pressioni del mondo slavo, individuato fin da subito come il principale nemico da combattere e distruggere. Un avversario accusato di proiettare «la sua ombra minacciosa e vivida all'interno dello Stato italiano» [A.M. Vinci, 2009], che occorre contrastare con forza attraverso una politica basata sull'esclusione e sull'inferiorità dell'altro. Una battaglia che investe ogni comparto della vita quotidiana, e con la quale si intende imporre un'italianizzazione forzata volta a cancellare ogni possibilità di presenza autonoma per la popolazione slovena e croata che, definita sprezzantemente dal regime come allogena, vede negato per oltre un ventennio il diritto «di esprimersi nella propria lingua, di coltivare la propria cultura, di esserci come persone pubbliche» [A.M. Vinci, 2007]: in poche parole la propria identità.
Il primo atto del fascismo di frontiera si consuma a Trieste, il 13 luglio 1920, quando le squadre fasciste danno alle fiamme, causando la morte di un cittadino sloveno, la Narodmi Dom, un edificio di sei piani nel cuore della città, sede delle principali organizzazioni politiche slovene, e cuore pulsante della cultura slovena nella città giuliana. Un atto di purificazione, scrivono i capi fascisti, «per liberare la città da una presenza immonda» [J. Pirjevec, 2009]. Il capolavoro del fascismo triestino, farà loro eco, qualche anno dopo, Mussolini. Il giorno seguente la stessa sorte tocca alla Narodni Dom di Pola, in Istria, e alla sede del giornale cattolico sloveno «Pucki Priaateli» a Pisino. Passaggi cruciali e un punti di rottura, che precedono l'inarrestabile scia di violenza che farà da sfondo all'ascesa del potere fascista nell'intera Venezia Giulia, dove saranno dati alle fiamme 134 edifici: 100 circoli di cultura, 2 case del popolo, 3 cooperative e 21 camere del lavoro [M. Cattaruzza, 2007]
In nome di quella che i vertici del regime definiscono bonifica nazionale, ogni traccia della presenza slovena e croata deve sparire. Inizia così una«capillare politica di italianizzazione della Venezia Giulia su larghi strati di popolazione slovena e croata» [M. Verginella, 2008], portata avanti su svariati campi.
Il primo terreno sul quale intervenire è la pubblica amministrazione: nel 1923 è infatti promulgata una legge che consente la rimozione d'ufficio di funzionari e impiegati che non diano sufficienti garanzie nello svolgimento dei propri compiti. Ad essere colpiti dalla normativa sono in primo luogo il personale di origine slava, sostituito con elementi giunti appositamente dall'Italia che, proiettati in una realtà sconosciuta, si trovano ad essere corpi estranei al contesto sociale nel quale vengono inseriti. Dopo la pubblica amministrazione tocca alla scuola, con l'entrata in vigore, il 1 ottobre del 1923, della Riforma Gentile che proibisce l'insegnamento della lingua slovena e croata, sostituendola con l'italiano: scuole elementari croate e slovene sono trasformate in istituti di lingua italiana dove non c'è posto per gli insegnanti slavi, sollevati dai loro incarichi, allontanati o costretti a partire. Nel 1923 sono promulgati altri due importanti provvedimenti attraverso i quali sostenere questo processo di restaurazione: le leggi toponomastiche che mutano, italianizzandoli i nominativi alle località e alla toponomastica stradale e la concessione ai prefetti della facoltà di sopprimere la stampa non gradita. Nella Venezia - Giulia a pagare dazio è quella slava,con la liquidazione di circa trenta testate periodiche seguite, qualche anno più tardi (1928), dalla stampa quotidiana. Parallelamente, con l'obiettivo di aumentare il controllo militare nella campagna slovena, viene creato l'Ispettorato speciale per il Carso, uno speciale organismo che sotto la guida di Emilio Grazioli si rende protagonista di repressioni, violenze e intimidazioni il cui livello crescedi pari passo col consolidarsi del regime.
Nel 1925 tocca alla lingua: è proibito l'uso di ogni altra lingua che non sia l'italiano nei tribunali, negli uffici amministrativi, negli esercizi e nei luoghi pubblici, con la conseguente rimozione delle insegne dei negozi in lingua croata e slovena. Nel 1927 all'italianizzazione dei cognomi, trasformati d'ufficio dalle autorità prefettizie, segue la soppressione e la messa fuori legge delle principali organizzazioni culturali ed economiche slovene e croate di tutti i territori della Venezia Giulia. Stessa sorte conoscono le biblioteche, le case del popolo, le organizzazioni sportive, giovanili, sociali e professionali. L'anno successivo sarà la volta della stampa slava, ufficialmente soppressa. Non viene risparmiato nemmeno il clero, sottoposto a un'opera snazionalizzatrice che colpisce il basso clero e la gerarchia ecclesiastica. Un processo che ha le sue tappe fondamentali nell'allontanamento di monsignor Francesco Borgia Sedej, vescovo di Gorizia, e di monsignor Luigi Fogar, vescovo di Trieste, difensori dell'autonomia ecclesiastica di fronte alle ingerenze del regime, e del diritto da parte delle comunità slovene e croate di poter celebrare i sacramenti nella propria lingua materna. Un'ondata di violenza alle quali si sommano le bramosie imperialiste di Mussolini che il 6 aprile 1941 dichiara guerra alla Jugoslavia: le province di Spalato e del Cattaro diventano italiane, alcune porzioni di Kosovo e Macedonia sono annesse alle province di Zara e di Fiume, il Montenegro diventa protettorato italiano e, in territorio sloveno, nasce la Provincia di Lubiana, affidata a Emilio Grazioli che, in stretta collaborazione con il generale Mario Roatta, dà vita a un'occupazione dai tratti particolarmente efferati con migliaia di vittime, molte delle quali peritenei campi di prigionia italiani all'interno dei quali saranno deportati migliaia di cittadini jugoslavi o allogeni della Venezia Giulia che, uniti a quelli fucilati, torturati e deceduti per sevizie, fanno salire a circa 13.000 il numero delle vittime.