Luigi B.
L'atteggiamento degli italiani nei confronti dei profughi istriani presenta tratti ambivalenti, che mescolano episodi di solidarietà con comportamenti di diffidenza ed esclusione.
Documenti e testimonianze restituiscono infatti un quadro che vede le amministrazioni comunali, le istituzioni scolastiche, il mondo dell'industria e del commercio adoperarsi per creare le condizioni necessarie ad offrire ai profughi giuliano-dalmati un'accoglienza dignitosa, operando in completa sinergia con la cittadinanza impegnata, in numerose località italiane, a fornire ai nuovi arrivati un apporto concreto che si traduce in donazioni di generi disparati (abiti, mobili, alimenti), concessione di ospitalità all'interno di abitazioni private, offerte di lavoro o, ancora, in un'attiva partecipazione alle sottoscrizioni promosse nei vari comuni da organi di stampa, associazioni professionali ed enti ecclesiastici come, ad esempio, la Pontificia Commissione di Assistenza.
Un ritratto cui fa però da contraltare un clima di ostilità e rifiuto che avvolge la figura del profugo giuliano dalmata, sulle cui spalle ricadono pregiudizi politici e ideologici, facendo maturare negli esuli un senso di delusione misto a "ingiustizia, rabbia e rassegnazione" [G. Nemec, M. Richter, 2008], che rende ancora più difficoltoso il loro già delicato inserimento nella realtà italiana.
Pregiudizi che traggono la propria linfa dall'atmosfera politica che si respira nell'Italia dell'epoca, e che, specialmente negli ambienti vicini al partito comunista italiano, tendono a produrre argomentazioni tali da far maturare un'immagine ben precisa associata fin da subito agli esuli istriani, e cioè quella di considerarli fascisti in fuga "dal paradiso della classe operaia" [N. Milani, 2008], facendo così maturare nei loro confronti un vero e proprio rifiuto ideologico e una lunga serie di stereotipi (primo tra tutti quello di istriano fascista) destinati a durare nel tempo e dai quali essi si affrancheranno con fatica.
Episodi riferiti ad atteggiamenti discriminatori sulla base di pregiudizi politici si riscontrano in molte località italiane. Quello rimasto maggiormente sedimentato nella memoria degli esuli avviene però alla stazione di Bologna il 17 febbraio 1947, quando un treno che trasporta un folto gruppo di esuli sbarcati il giorno precedente ad Ancona è bloccato per ore sui binari da una protesta dei ferrovieri bolognesi, che non permettono lo svolgimento di nessuna operazione di soccorso e di approvvigionamento, costringendo così il convoglio a proseguire per Parma dove "quanto preparato dalla Croce Rossa a Bologna" [L. Vivoda, 1998] è trasportato in stazione da alcuni autocarri militari che, a tarda notte, consentono così agli esuli di poter finalmente consumare un pasto caldo.
A fare da sfondo al clima di sospetto che accompagna i profughi giuliano-dalmati concorre però anche un altro non trascurabile elemento, e cioè il loro essere estranei alla comunità che li accoglie, presentandosi agli occhi degli autoctoni come degli scomodi concorrenti ai pochi posti di lavoro disponibili in un momento in cui il paese versa in un grave stato di indigenza ed è segnato da una disoccupazione interna radicata e diffusa. Affermazione, quest'ultima, che sembra trovare un riscontro diretto in quanto accaduto a Novara dove, come si legge in una relazione del prefetto datata 16 febbraio 1948, l'avviamento al lavoro dei profughi giuliano-dalmati "provoca un certo malcontento tra i disoccupati locali, i quali mal sopportano che un rilevante numero di profughi debba gravare sulla disoccupazione della provincia (e più specialmente della città di Novara) solo perché questo capoluogo venne a suo tempo prescelto come sede di un centro raccolta profughi". [PCM, Archivio UZC].
Ad aumentare il disagio dei giuliano-dalmati vi sono inoltre sopsetti e pregiudizi suscitati dalla condotta tenuta dagli stessi profughi che alimenta negli autoctoni la percezione di una diversità comportamentale, lontana dagli usi e dalle abitudini diffuse nei centri dove essi sono stati accolti. Si tratta di un aspetto interessante e poco indagato che, forse, meriterebbe ulteriori approfondimenti e riflessioni. Infatti molte, tra quelle raccolte, sono le testimonianze che rivelano come questo sia un aspetto riguardante soprattutto le ragazze istriane, e in modo particolare quelle che si trovano a vivere nelle regioni dell'Italia del sud, dove la proverbiale apertura e l'atteggiamento spigliato ed estroverso, simbolo di una maggiore emancipazione della donna istriana, entra in contrasto con la chiusura e la rigidità delle donne locali. Un'apertura che fa ricadere sulle ragazze profughe l'etichetta di donne dai facili costumi, portandole a ricoprire nell'immaginario collettivo degli abitanti dei territori che le accolgono un cliché ben preciso e tutt'altro che piacevole.
Agli occhi di molti italiani l'esodo istriano assume dunque i contorni tipici di un semplice fenomeno migratorio. Un evento che trascina con sé la scia di problematiche che ogni emigrazione si porta dietro, contribuendo ad alzare barriere tra nuovi arrivati ed autoctoni che, nel caso specifico dell'esodo, sembrano pronti ad abbandonarsi a giudizi stereotipati e di facciata, dimostrando nel contempo una scarsa capacità di "messa a fuoco e di solida conoscenza" [S. Salvatici, 2008] delle motivazioni che hanno spinto migliaia di connazionali a lasciare la propria terra di origine.
Una condotta che ha come primo effetto quello di rimandare i momenti di contatto e di comunicazione necessari a favorire quella reciproca conoscenza che, non senza fatica, permetterà con il trascorrere degli anni il superamento di ogni steccato e il progressivo inserimento dei profughi giuliano-dalmati nel tessuto sociale e culturale delle diverse realtà italiane in cui essi hanno ricominciato a vivere.