Giuseppe M.
Dopo essere entrate a Spalato e a Zara tra il 28 ottobre e il 1° novembre 1944, nella primavera del 1945 le truppe partigiane di Tito fanno il loro ingresso a Pola (il 1° maggio, dove rimangono fino al 12 giugno, data di arrivo in città delle forze anglo-americane), Fiume (il 3 maggio, proclamando attraverso la diffusione di manifesti blilingue l'annessione della città alla Jugoslavia) e nelle principali località dell'Istria. L'immagine dei soldati titini scesi dai boschi nelle città con gli abiti lisi, la barba incolta, le papuze (calzature di lana grezza simili alle babbucce) ai piedi mentre festeggiano ballando il kolo, una danza balcanica i cui ritmi riecheggiano incessantemente nelle vie e nelle piazze, suscita un profondo impatto emotivo e simbolico in gran parte della popolazione italiana, che identifica nei nuovi arrivati i tratti caratterizzanti il futuro potere titino, basato su una volontà di rivalsa in chiave nazionalista e su un duro sistema repressivo che ha nell'OZNA, la temuta polizia segreta successivamente denominata UDBA, il suo principale strumento di applicazione. Un potere temuto e ostile, capace di penetrare in ogni comparto della vita quotidiana, mettendo sistematicamente in campo intimidazioni, violenze generalizzate, pratiche vessatorie ed epurative che scandiscono la quotidianità di gran parte della popolazione italiana.
Un clima che sembra essere ben restituito da un rapporto inviato il 24 febbraio 1946 dal comandante dei Carabinieri di Udine al Ministero dell'Interno e al Comando Superiore dell'Arma, avente come oggetto la "situazione in Venezia - Giulia". Il documento fornisce una dettagliata panoramica di quanto avvenuto in alcune città dell'Istria a pochi giorni dall'arrivo della Commissione Internazionale per la definizione dei confini: a Rovigno la popolazione "vive sotto il terrore delle foibe e del filo spinato", a Isola d'Istria "in previsione dell'arrivo della Commissione", gli abitanti dipingono sui muri cittadini una scritta recitante la frase "vogliamo pace, pane e lavoro", che però, giudicata "reazionaria e fascista" dai dirigenti jugoslavi, viene sostituita "con slogan inneggianti alla federazione jugoslava". E, ancora, a Momiano di Buie d'Istria, nei pressi di Pola "elementi dell'OZNA, arrestano e deportano la gerente postale del luogo perché accusata di sentimenti italiani", mentre nella Zona B, "in previsione dell'arrivo della Commissione interalleata, l'attività propagandistica slovena è aumentata". [PCM, Archivio UZC].
In breve tempo la popolazione italiana vede improvvisamente scorrere davanti ai propri occhi una realtà sconosciuta, dalla quale sperare di liberarsi in fretta e con la quale è impossibile convivere. Un mondo nuovo, che deve fare i conti con l'eredità della guerra che in Istria, così come nel resto della Jugoslavia, lascia una situazione economica desolante fatta di terreni coltivabili gravemente danneggiati, impianti industriali distrutti e infrastrutture demolite. Per una rapida ripresa, il governo di Belgrado mette in campo tutte le risorse disponibili, prima tra tutte il massiccio ricorso alla rebota, il lavoro volontario, da svolgersi nei giorni festivi e attraverso il quale ogni cittadino deve contribuire alla ricostruzione del paese che, contemporaneamente, è al centro di un'imponente riforma agraria basata sulla collettivizzazione delle campagne, e il cui obiettivo è quello di portare la Jugoslavia alla piena autosufficienza in campo agricolo. Gli italiani si trovano così proiettati in un contesto del tutto differente rispetto a quello che ha caratterizzato gli anni precedenti, nel quale le difficoltà sono acuite da una quotidianità scandita da file interminabili nei negozi e nelle botteghe per accaparrarsi generi di prima necessità, da assenza di prospettive per il futuro e da una fame i cui livelli raggiungono quelli degli anni della guerra e alla quale il regime titino cerca di fare fronte attraverso l'introduzione della zimica, una tessera assegnata ad ogni cittadino che, per la bassa quantità dei razionamenti concessi, tanto ricorda la precedente annonaria fascista.
Una situazione delicata, sulla quale irrompe la forza d'urto della politica titina, che attraverso provvedimenti volti a "ridurre ulteriormente il potere economico, sociale, commerciale e culturale della comunità italiana" [M. Orlic, 2008], fa maturare in essa un sentimento di estraneità e spaesamento nei confronti di una terra da sempre considerata come patria, trasformatasi in un luogo distaccato e incompreso, nel quale appare sempre più difficile restare mantenendo la propria identità.
Un vero e proprio processo epurativo coinvolge innanzitutto l'apparato burocratico e amministrativo che vede l'allontanamento della componente italiana, sostituita da un ceto dirigente composto da personale fidato giunto direttamente dalla Jugoslavia, dalle strutture della pubblica amministrazione di ogni grado e livello. Una strategia messa in atto dal governo di Belgrado con il duplice intento di escludere la classe dirigente italiana, e di rafforzare il proprio potere, ponendo in condizioni di non nuocere coloro che sono ritenuti un ostacolo al nuovo corso politico.
Ad essere interessata dalle politiche repressive jugoslave è anche l'identità culturale degli italiani, colpita al cuore attraverso i suoi principali punti di riferimento: gli insegnanti e il clero.
Il punto di rottura per le scuole italiane dell'Istria si registra tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta. Un periodo contrassegnato da due eventi che causano la progressiva chiusura di molti istituti di lingua italiana: il decreto emanato nel 1952 dall'Ispettore generale per la pubblica istruzione jugoslava Anton Perusko, che prevede il trasferimento nelle scuole croate e slovene di tutti gli studenti il cui cognome risultasse, anche vagamente, di origine slava e l'esodo nel 1954 di gran parte del corpo docenti italiano dopo la firma del Memorandum di Londra. Una campagna dai toni altrettanto accesi è diretta verso i sacerdoti italiani che rappresentano per le comunità italiane dell'Istria un importante polo aggregativo. Lo stato jugoslavo interviene sulla dimensione collettiva del culto limitandone la pratica al solo interno della chiesa, eliminando festività religiose molto sentite dagli italiani come la Pasqua e il Natale (proibendone la celebrazione), e abolendo ogni ritualità pubblica, prime tra tutte le processioni e le celebrazioni dei santi patroni.
Un processo di delegittimazione ed eliminazione del mondo precedente che passa anche attraverso la sua negazione nell'espressione pubblica: cambia la toponomastica che ora indica con nomi slavi, subentrati a quelli italiani, vie, paesi e città, nelle quali si assiste alla rimozione e in qualche caso all'eliminazione di opere d'arte e i monumenti, simboli della passata presenza italiana.