Alla fine della seconda guerra mondiale, lungo una linea immaginaria che taglia l'Europa dal Baltico all'Adriatico, si determina un copioso flusso obbligato di persone, costrette ad abbandonare paesi nei quali possono vantare presenze secolari, per «ricongiungersi alle patrie che i protocolli e i trattati di pace indicano come tali» [R. Marchis, 2006]. Fenomeni di sradicamento, meglio conosciuti come spostamenti forzati di popolazione, all'interno dei quali si inserisce anche la vicenda del gruppo nazionale italiano dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia, protagonista, insieme a una quota meno rilevante di popolazione slovena e croata, di un processo di allontanamento di massa dalle proprie terre di origine assegnate, dai trattati di pace, con alterne vicende, alla definitiva sovranità jugoslava. Un fenomeno meglio conosciuto come esodo istriano, che porta non meno di un quarto di milione di persone (le percentuali oscillano tra l'80 e il 90% dell'intera componente italiana) ad abbandonare nell'arco di circa un decennio, tra il 1944 e il 1956, la propria terra di insediamento storico, provocando nell'area alto - adriatica una profonda frattura, che incrina una linea di continuitàesistente «dall'epoca della romanizzazione» [R. Pupo, 2006]. Recenti studi individuano infatti un flusso di partenze che interessa complessivamente 302.000 persone, 252.000 delle quali appartenenti alla componente italiana, cui segue una rappresentanza di popolazione slava costituita da 34.000 sloveni e 12.000 croati, in gran parte di origine istriana, e «un'ondata di circa 4.000 individui tra romeni, albanesi e ungheresi». [O. Mileta, 2007; F. Cecotti, B. Pizzamei, 2008]
Le partenze, il cui quadro temporale appare ampiamente dilatato, non si presentano come episodi singoli e frammentari, ma vanno intese come tasselli di un unico mosaico, costituiti da un insieme di tappe che, snodatesi lungo l'arco di tempo nel quale si decide la sorte dei territori giuliani, si saldano a vicenda fino a diventare parte integrante dello stesso elemento.
Un abbandono totale e di massa al quale concorrono le pressioni fisiche, morali ed ambientali portate avanti dalle autorità jugoslave che, pur non emanando mai alcun provvedimento legislativo e normativo di carattere espulsivo, si rendono protagoniste di atteggiamenti volti a generare nella componente italiana condizioni di invivibilità tali da non lasciare altra via d'uscita se non quella dell'esilio.
All'interno di un fenomeno così vasto, si distinguono però due momenti chiave intorno ai quali si concentra il maggior numero delle partenze: la firma del Trattato di pace di Pariginel febbraio del 1947 e quella del Memorandum di Londranel 1954, che offrono ai cittadini di lingua italiana residenti nei territori passati sotto la sovranità jugoslava, la possibilità di esercitare il diritto di opzione, ovvero scegliere la cittadinanza italiana e trasferirsi in Italia. Domanda che, secondo quanto previsto dalla normativa sulle opzioni, deve essere sottoposta, prima di diventare esecutiva, all'approvazione delle autorità jugoslave, le quali, profondamente colpite dalle dimensioni plebiscitarie del fenomeno, mettono in atto, con l'intento di frenare il flusso delle partenze, impedimenti e limitazioni che, respingendo le richieste degli optanti, ritardano l'effettiva esecuzione del diritto di opzione.
A ciò si deve aggiungere anche il grande impatto emotivo suscitato dalla firma dei protocolli d'intesa nella popolazione italiana, che dopo aver atteso invano e sperato fortemente nell'assegnazione all'Italia di tali territori, vede svanire le proprie speranze, e prende coscienza del carattere definitivo della dominazione jugoslava.
Città e paesi si svuotano quindi rapidamente, investite da un improvviso flusso di partenze nel quale le fughe individuali si mescolano a quelle collettive coinvolgendo singole persone e famiglie intere che, cariche di fagotti, bauli e qualche valigia contenente i pochi averi che il governo jugoslavo concede di portare con sé, si dirigono verso l'Italia via mare, a bordo di battelli, navi e imbarcazioni di fortuna, oppure decidono di varcare la linea del confine salendo su un treno, su qualche raro autocarro o, più semplicemente, in sella a carretti trainati da cavalli.
Un'ondata di proporzioni massicce che «diventa integrale, nel senso che coinvolge tutti» [R. Pupo, 2009] cancellando, tra la popolazione ogni tipo di distinzione sociale: ad essere trascinati sulla via dell'esilio sono infatti uomini e donne, vecchi e bambini, poveri e ricchi, professionisti ed operai, artigiani e commercianti, spinti a partire da «logiche largamente condivise» [G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici, 2008] all'interno delle quali si intrecciano dinamiche dai caratteri e dalle soggettività differenti. Una scelta multicausale, alla base della quale non stanno soltanto i tratti definitivi della sovranità jugoslava o i riflessi di una paura generalizzata, frutto del clima di intimidazione instaurato dal potere titino verso l'elemento italiano e del ricordo, ancora vivo, delle foibe, ma alla quale concorrono anche altre motivazioni che affondano le proprie radici nella sfera economica, politica, culturale e sociale. E' il caso, ad esempio, della politica adottata dal governo jugoslavo che porta a un ribaltamento «delle tradizionali gerarchie, nazionali e sociali» [L. Bertucelli,M. Orlic, 2008], trasformando la popolazione italiana da componente egemone a minoranza nazionale, della progressiva eliminazione dei principali punti di riferimento culturali e delle figure sociali più rappresentative della comunità italiana e, ancora, dell'introduzione da parte delle autorità di Belgrado di riforme (come, ad esempio, quella agraria) e di provvedimenti economici i cui effetti sanciscono un netto peggioramento delle condizioni di vita della componente italiana. Non per ultime, vi sono poi l'adozione, spesso forzata, di nuove norme comportamentali che provocano il rovesciamento di abitudiniconsolidate da generazioni, mettendo gli italiani di fronte alla necessità di entrare in contatto con una cultura quasi sconosciuta come quella slava e, infine, l'affiorare di particolari meccanismi psicologici in grado di innescare una vera e propria reazione a catena, in base alla quale si decide di partire per seguire un parente, un amico o un vicino di casa.
Un fenomeno complesso, all'interno del quale, al di là dell'anomalo caso di Zara dove l'esodo della popolazione avviene quando la guerra è ancora in pieno svolgimento, si possono chiaramente distinguere due ondate principali: la prima si snoda tra il 1947 e il 1951 e ha come principali protagoniste le città di Fiume, Pola e quelle degli altri territori dell'Istria annessi alla Jugoslavia (con l'eccezione dell'area destinata a convergere nel Territorio Libero di Trieste); la seconda si registra invece tra il 1953 e il 1956, e coinvolge la popolazione italiana «della Zona B del mai costituito Territorio Libero di Trieste» [R. Pupo, 2008].
Testimonianze
Il viaggio
[Mia mamma è arrivata] in treno, da Dignano fino a Trieste. E io ho viaggiato in treno, nel vagone degli animali, insieme ad altra gente. E allora il treno ogni tanto si fermava, ma non in stazione, e allora uno gli scappava la pipì: giratevi di là! Mamma mia che roba! E ogni tanto ci fermavano sti slavi, venivano a guardarci, a chiederci, e io avevo una paura!
Maria D.
Ci hanno dato il permesso, non tutto potevamo portare, e abbiamo portato quello che potevamo. E mi ricordo che siamo partiti con un camion, che ti ricordi quando fanno vedere quei film dei cow boy e dei pionieri? Ecco, l’unica cosa è che non avevamo le padelle che pendevano di fianco, il resto era uguale, ti giuro! Sai che nei film vedi quelle padelle? Ecco, uguale.
Livia B.
[Sono partita] con la bambina. In treno: da Dignano sono arrivata a Torino con cinque litri de vin in una damigiana, che sono arrivata a Torino che era mezza! [Una damigiana] di malvasia e una borsa, e niente altro. Perché non ho voluto portar niente, cosa vado mi con sta bambina e le valigie? Poi man mano mi mamma mi ha mandato biancheria e roba: quando la gente veniva ad agosto giù in vacanza, chi mi prendeva un pacco, chi mi prendeva due lenzuola, e poi dopo si cominciava ad andare... Dal ’67 si poteva andare, e sono andata giù con la macchina, con mio marito. E quando sono arrivata con sto bottiglion - cinque litri de vino - tutti i controllori del treno [dicevano]: ah, s’è vin dell’Istria questo? Si, malvasia e se vuole può berne. Finisso il turno che arrivo - a Portogruaro o non so dove - e, insomma, sono arrivata a Torino che era mezzo sto bottiglion de vino. Per dirle la trafila che ho avuto anche io, perché era tutta una cattiveria verso la gente, la prepotenza, perché dovevano dominare tutto loro.
Anita B.
Siamo partiti nel 1948. Siamo partiti dalla stazione di Dignano. Mio padre - che era un tipo tutto particolare, perché gli piaceva cantare, gli piaceva ridere, gli piaceva il coro, era sempre messo in tutte le cose - da quello che ho capito io, ci hanno accompagnato con le torce fino alla stazione. E, addirittura, mio padre passando vicino al Comune aveva gridato un’offesa a questi qua. Gli aveva gridato: addio strase de gua che, tradotto, sarebbe addio stracci di quello che fa i coltelli, dell’arrotino. Praticamente gli ha urlato addio stracci dell’arrotino, che però è un modo proprio istriano di disprezzo. Tanto che mia madre si era addirittura preoccupata, aveva paura, perché li sai, andavi via ma... Comunque, siamo partiti mio padre, mia madre, mio nonno, mia nonna, mio fratello, io e un cagnolino. Siamo saliti sul treno e qui ho dei ricordi. Si vede che il treno per un ragazzino è già una novità, e quindi mi ricordo che ero lì in treno che guardavo fuori, anche se poi era venuto buio e mi avevano messo una coperta perché non c’erano i vetri. Poi a un certo punto il treno si è fermato: qualcuno diceva perché hanno minato la ferrovia, parole ne dicevano tante, non lo so. Poi abbiamo camminato lungo la ferrovia ad andare a prendere un altro treno più avanti; e io lì mi ricordo che avevo il cagnolino e camminavo... Sai che quando cammini sulla ferrovia hai tendenza a non andare sui sassi...Ecco, quello è un ricordo. Buio, doveva essere buio abbastanza, e mi ricordo questo passaggio.
Mario B.
Io sono partito in treno. Da Veglia siamo andati fino a dove c’è adesso il ponte Tito, un ponte che hanno fatto lì dove c’è l’aeroporto, perché a Veglia c’è l’aeroporto di Fiume. Siamo andati fino a Uncaretto. Poi di là con la barca fino a Fiume. Non so, lì a Fiume ci hanno ospitato della gente per uno o due giorni e poi siamo partiti per Trieste in treno.
Mario M.
Ah, del viaggio... Avevo tre anni, ma un ricordo dell’angolo del treno ce l’ho. E infatti quando ho chiesto a mia mamma mi ha detto: si, come fai a ricordarti? Mi ricordo del viaggio in treno, tanta gente con poche valige, perché non avevamo portato niente, avevamo portato solo quello che potevamo portare. Non avevamo portato i mobili come qualcuno che ho sentito che con i camion portavano qualcosa. I miei sono venuti invece solo con le valigie. E mi ricordo di questo viaggio in treno e poi di una notte che ci siamo fermati a Udine.
Irene V.
Penso solamente che avevo freddo, paura e tutti mi stavano addosso a dire stai qui, stai là, attento qui e attento là, però [del viaggio] altro non [ricordo]. Poi dopo non abbiamo mai parlato con mia mamma, non ho mai chiesto: mamma, durante il viaggio lì come eravamo, avevate paura? Perché non abbiamo mai più voluto [parlarne]. Difatti anche mia sorella.... Magari lei sa qualche cosa in più, o magari qualche cosa la so io o non la sa lei, ma non abbiamo mai [parlato]. Proprio perché [ai miei genitori] dovevi cavarli proprio le parole dalla bocca, se no loro, spontaneamente, non hanno mai detto: allora, adesso ti dico perché [siamo partiti]. Questo non c’è mai stato. Mio papà poi soprattutto.
Elvio N.
Noi siamo partiti in treno a Pola, siamo arrivati a Trieste. Siamo partiti da Pola il 16 [dicembre 1948] e il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, avevamo spedito il vagone dei mobili, di quello che avevamo portato via di tre famiglie, perché eravamo mia cognata, mia suocera e noi. Perciò mobili pochi e niente... Ho qualcosa ancora che gira, ma non è a casa mia, è a casa di mia cognata.
Maria G.
Mi sembra che siamo partiti a febbraio del 1947. Siamo partiti con gli stracci , un pezzo di corda e via: abbiam lasciato tutto quello che uno poteva avere e non avere, i ricordi e quelle robe lì, come tutti quanti. Siamo partiti col Toscana, ma io [del viaggio] ricordo poco, ricordo che faceva un freddo cane, che c’era la neve, avevamo un freddo della Madonna! [Dei ricordi] del viaggio dell’esodo, io c’ho il viaggio sulla nave e del freddo che ho patito.
Franco V.
[Sono partita] in treno. E con noi è venuta mia zia. Lei aveva due maschi e fa a mio papà: Francesco, mi prendi con te, perché cosa faccio con due ragazzi? Uno aveva la mia età, e l’altro ne aveva nove. E mia zia diceva, perché qui cosa faccio con due bambini? E, va ben, vieni con noi, vieni. E allora siamo partiti che eravamo in dieci. E siamo partiti in treno, da Dignano fino a Trieste. [Siamo partiti] con le mani in tasca! Abbiamo lasciato tutto lì.
Maria Mn.
Ah, [il viaggio] per me era un’avventura, io non vedevo l’ora di andare via. No, no, ho tanto gioito quel giorno che siam partiti! Che siam partiti col carrettone di legno che ci portava le masserizie, e avevamo il posto nel vagone insieme a un’altra famiglia. Siamo dovuti andare a Dignano perché noi la stazione non ce l’avevamo. Eh, ma lì ho gioito, non vedevo l’ora di andare a Trieste, e lì per me è incominciata l’avventura. Una bella avventura, nella mia incoscienza!
Argia B.
Io sono scappato nel 1959. I miei fratelli fortunatamente sono ben scappati, mentre io ci ho impiegato quasi una settimana a scappare, perché io sapevo già dove c’era la frontiera. Mi ha dato uno strappo un signore che è passato con la moto... Madonna, mi ricordo ancora! Ho alzato la mano, si è fermato e mi ha dato un giro fino a Capodistria. Mi ha detto dove vai? Vado a Capodistria. E va beh, vado a casa io. E allora mi ha portato a Capodistria. E dopo ho girovagato a sinistra e a destra, e avevo già un’indicazione più o meno di dov’era la frontiera a Capodistria. Allora mi sono inserito giù in campagna, ho girato per la campagna finché son riuscito a venire alla frontiera; la frontiera in campagna, sul confine. E lì ho attraversato il confine. E attraversando il confine, fortunatamente sapevo già i segreti che mi dicevano gli altri amici e le voci di papà di non inciampare su queste cose qui, perché la frontiera non era filo spinato, ma era questo filo che inciampi, parte il razzo e la guardia si gira e ti spara, e niente, son riuscito a scappare. Però passare la frontiera mi son detto: questa è la nostra patria, che sia quel che sia. Non vado a vivere in Russia eh! Poi son venuto in Italia e son venuti a pescarmi a Trieste i genitori. Io son venuto, ho telefonato al bar e dico papà sono a Trieste. Sono venuti a pescarmi e mi hanno portato a Udine che avevano già il podere a Maniago. Erano già sistemati loro. In Italia io non ho fatto campi, son venuto direttamente a Maniago da mio papà.
Renato L.
Un altro mio fratello, sono scappati in due, con la barca a remi da Rovigno e noi eravamo già in Italia. Son scappati a remi, si regolavano con le stelle, poi avevano messo una corda lunga in terra, perché mentre voghi se vedi la corda che si gira e vedi dove la corrente ti porta. E han puntato, finché son stati raccolti dalle barche di Chioggia, che li hanno imbarcati e li hanno portati a Venezia.
Aldo S.
Ah, niente, [siamo andati via su] una nave. E’ venuta una nave, si chiamava, mi pare, Morosini. E non so, se c’eravamo solo noi [la] nostra famiglia, o se c’era ancora qualchedun’altra famiglia. Era non mi ricordo, dev’essere nel ’48. Non potevamo portare [niente], non potevi portare più di tanto, solo le cose personali. E ti controllavano per vedere cosa c’hai, ma noi niente, perché non avevamo proprio niente che loro potevano dire questo non puoi. Avevamo qualche camicia, tutta roba vecchia.
Giovanni R.
Io sono partita nel ’44, e sono andata a Trieste da amici di mio papà. Mi sono fermata e andavo e venivo, poi hanno chiuso i confini e non sono più andata. Son partita prima da sola, poi mio papà mi ha raggiunto. Io sono andata in casa di questi amici, e poi quando è arrivato mio papà abbiamo trovato una stanza da una signora che era sola e ci ha affittato là. Mio papà è arrivato dopo la guerra, mia mamma ultima, nel ’47, quando hanno chiuso i confini. E poi alcuni venivano di contrabbando, nascosti. Mio papà ha fatto venire uno, e aveva pagato i guardiani, gli ha dato dei soldi per far venire nascosto questo qui! [Mia mamma non ha portato con sè niente], perché non poteva portare niente! Noi abbiamo lasciato tutto là. In ultimo è arrivato mio zio, che allora gli slavi gli han detto: se lei vuole restare qui - perché noi avevamo l’oleificio assieme con lui - deve stare come direttore. Come, da padrone a direttore? No, no, vado via. Loro - mio zio con la zia - sono andati a Udine. E poi abbiamo fatto la domanda per i beni abbandonati e devono ancora darci adesso dei soldi!
Maria D.
[Siamo partiti] in treno, con la valigia. Perché la settimana prima avevamo caricato... C’era un contatto con un’impresa di spedizioni, fino a Trieste: prenotavi il vagone e veniva la dogana in casa a controllarti pezzo per pezzo cosa mettevi nei bauli. Secondo loro si, si poteva [portare quello che volevi], si pagava la dogana. Nel ’47 erano grandi gruppi, invece dopo c’era sempre gente che andava. Specialmente quando la polizia le prendeva [le domande di esodo] il 5 [del mese] e diceva: entro il 20 dovete andare via in duecento. Se volevi, se non volevi non sapevi a cosa andavi incontro, erano capaci a prenderti via il foglio apolide e poi cosa aspettavi? E noi, quando si caricava i bauli e tutto che si preparava per mettere, veniva il camion sotto casa con i doganieri. I doganieri venivano in casa a vedere prima di chiudere i bauli che cosa mettevi dentro, pezzo per pezzo, tutto. E poi avevi il vagone prenotato. Io avevo un’amica di scuola che mi ha detto: se hai posto nel vagone, mi lasci mettere due bauli che io poi vado a Bolzano e mi stacco a Trieste? Perché se no lei sola con due bauli, avrebbe dovuto aspettare chissà chi e chissà quando qualcuno che le desse un posto nel vagone. Io gliel’ho dato. E a Trieste mio marito - io avevo il bambino piccolo, piccolo - è andato in dogana, hanno aperto il vagone, Maria Rosa si è presa i suoi bauli, hanno di nuovo sigillato tutto e siamo venuti a Savigliano.
Maria Man.
[Parto] nell’agosto del ’55. Il mio viaggio [è stato] con la nave: siamo andati con la nave dal porto di Zara. Noi siamo andati con la nave, e da casa mia ad andare al porto [ era vicino], c’era un quarto d’ora a piedi, non di più. [Siamo andati] a piedi, [c’era] tanta gente che mi salutavano, tutti piangevano, e poi ero ragazzina allora, avevo le simpatie... Le mie zie piangevano, perché mia mamma lì ha lasciato tre sorelle e un fratello. [Con noi non abbiamo portato]niente: un baule, i cappotti tutti, i materassi e il pigiama. Niente, niente [altro] Ricordo che abbiamo viaggiato bene, perché abbiamo viaggiato lungo il mare: ho visto la costa dalmata per la prima volta, e siamo venuti a Trieste.
Alma M.
[Siamo partiti] nel febbraio del ’47. A fine febbraio, perché io ho compiuto otto anni sulla nave. Che io compio gli anni al 5 di marzo, pertanto eravamo sulla nave, stavamo sbarcando e ho compiuto gli anni. Abbiamo fatto Pola – Venezia sul Toscana, [e] mi ricordo [che faceva] tanto freddo, tanto freddo. Il viaggio in sé non è che me lo ricordi tanto, [però] mi ricordo il distacco da Pola, perché mia madre piangeva. Mi ricordo l’arrivo a Venezia, che è stato abbastanza tragico, perché siamo attraccati a Riva degli Schiavoni e non ci lasciavano scendere. Non ci lasciavano scendere, perché c’erano questi qui con le bandiere rosse che ci dicevano fascisti, fascisti! E mia madre che piangeva e diceva: ma come, siamo andati via di là e adesso veniamo qua e non possiamo scendere? Poverina, era un po’ in difficoltà. Questo mi ricordo del viaggio. [Ricordo che non erano una folla, ma] un gruppo di ragazzetti, un gruppo di gente che avevano cinque o sei bandiere rosse. Noi li vedevamo dall’alto che piantavano cine e non volevano lasciarci scendere e gridavano: fascisti, fascisti! [Mia madre] sentiva bene, e piangeva perché questi qua sotto non ci lasciavano scendere. E diceva: cosa farò adesso senza marito e con due figli? Aveva – poveraccia – un po’ di problemi. Insomma, mi ricordo questo del viaggio, la partenza e l’arrivo.
Gianfranco M.
[Da Fiume partiamo] in treno fino a Opicina. A Opcina faccio una notte e poi mi mandano al Centro smistamento profughi di Udine. La notte l’ho passata a Opcina, e lì anzi, abbiamo trovato una cugina di mio papà.
Elio H.
[Del viaggio] so solo che ci siamo trovate sulla nave e basta. Aspettavamo lì nelle navi che arrivavano tutte le famiglie e poi la Toscana, la nave Toscana, ci portava a Venezia. Mi ricordo quando siamo arrivate a Venezia - piccoli - che la mia sorella aveva tre anni, io ne avevo sette. Anche del viaggio ricordo poco, ricordo solo qualche confusione, ma poca. Siamo arrivati nei ristori, a Venezia. Questi ristori saran stati ristoranti, non lo so, perché era tutto bianco con tutte ste tovaglie, tutte ste cose là. Perché ci accettavano bene, scherzi? Siamo andati via e abbiamo salvato l’Italia eh, quella volta, noi con le nostre votazioni! L’abbiamo salvata con De Gasperi e ancora un po’ ci tradiva anche lui, che vendeva Trieste per avere il Trentino Alto Adige, per un pelo. E mi ricordo tutti sti grandi saloni con ste tovaglie bianche che non avevamo mai visto! Quello mi è rimasto. Che poi ci han tenuto lì e ci hanno messo un po’ e qua e un po’ la, un po’ nei campi e un po’ dappertutto.
Aldina P.
Oh, mi ricordo che [la nave] mi ha fatto star male, sono stato male per tre giorni: andava su e poi giù, con quelle onde, un mare brutto, mamma mia! Dei pesci lunghi un metro dietro la nave! A raccontarlo così viene da ridere, però il viaggio non è stato proprio bello [per] niente!
Giovanni R.
[Siamo partiti] con quello che si poteva portare. Mi ricordo, per esempio, che mia mamma si era portata l’asse per lavare - di legno, con l’angolino per mettere il sapone - e quello se l’era portato. Poi il cucchiaio che lo piegavi e c’era insieme il cavatappi, la forchetta...Tre cosette abbiamo portato via, ma proprio poco, poco, poco.
Guerrino B.
Parto di notte, perché c’era il treno di notte, da Rovigno fino a Trieste. Il viaggio è stato duro, perché ho lasciato mia mamma e poi son stata sette anni senza vederla. Io ho portato via una cassapanca con delle lenzuola - insomma, il corredo - e mia suocera i suoi mobili, ma non tutto. Al confine ci hanno controllato, era tutto chiuso in un vagone. Poi siamo andati a Trieste, e a Trieste ci siamo fermati per un giorno.
Eufemia M.
“Mi ricordo il papà, che dietro ai mobili lui aveva scritto il nostro cognome con tutte le formine in modo che fosse scritto bene, ed eravamo venuti via coi nostri mobili. Si era fatto lui delle valigione con il legno che circonda e le tele, due laterali, usando quelle tele spesse, juta spessa, canapa, canapone, e le aveva pitturate di verde. E quello me lo ricorderò sempre, perché c’era da ridere, per me, adesso. Però era riuscito a portarsi via i mobili, e c’era dei posti apposta per mettere i mobili in deposito. I mobili seguivano poi la famiglia che partiva,quando arrivavano, nella migliore delle ipotesi! Nel senso che siamo andati a Servigliano e i mobili son poi arrivati, non so quanto tempo dopo, ma c’erano già gli uffici che scrivevano queste cose e poi la roba arrivava coi treni e bom.
Assunta Z.
[Siamo venuti via] ufficialmente, con la nave e il passaporto italiano, e questo lo ricordo bene perché avevo quindici anni, [era il 1955]. [Siamo andati] sulla nave da Zara a Fiume, che allora c’era il traghetto, non c’era la corriera che viaggiava sulla costa, si andava con le navi. E c’era tutto il parentado sulla riva che ci salutava e i miei in lacrime, perché li abbandonavamo che poi non sapevi quando torneremo e se torneremo. Mi ricordo questo distacco della nave con le lacrime e con tutti coi fazzoletti in mano che piangevano. Ho fatto Zara - Fiume in nave, poi Fiume - Trieste in Treno. E arrivati a Trieste al confine c’erano tutte ste burocrazie. E una cosa che poi la posso raccontare [è questa]. A Zara noi avevamo un falegname che era amico dei miei, e ci aveva preparato il baule. Nell’intercapedine del baule mio padre aveva messo tutti i documenti perché non si sapeva quando ti fermavano al confine, che a tanti gli han portato via le cose, i nostri bauli [invece] no. I miei han venduto la mobilia - son riusciti a vendere la mobilia - avevano un po’ di soldi e anche i soldi li han messi nell’intercapedine. Perché dico questo? Perché siamo andati a Udine, al campo di raccolta e il papà un giorno mi dice: vien, vien con mi! E andiamo in magazzino. Andiamo in magazzino, e lui aveva uno scalpello in mano insieme a quel coso [strumento] per incidere il legno. E io gli dico: ma cosa fai? Questo baule [il nostro baule] era insieme a tutte le altre valigie e allora sposta le cose, prende il baule e inizia a scalpellare e dal buco tira fuori tutta la documentazione dei miei. Che poi erano i libretti di lavoro, i documenti e quei soldi che si è riusciti a raccogliere vendendo quei mobili, che anche quelli erano pregiati e mi sembra che li han venduti bene. Non si poteva portare oltre, questo baule più le valigie che ci siam portati dietro. Ecco [questo abbiam portato con noi]. Il viaggio non mi ricordo tanto, non ho tanta memoria. Si andava a vedere le città nuove con la gente nuova: Trieste e poi Udine.
Rino P.
[Sono partita] nel ’48 da Dignano a Trieste, in treno. E dall’Italia ci davano anche le carrozze del treno da portarci qualche cosa: mia mamma è riuscita a portare la macchina [da cucire], due grandi bauli che ha messo qualche cosa dentro e ha portato anche il letto, perché quel letto era un simbolo del suo risparmio, [così] ha portato anche le testiere del letto e un armadio e un comò. La camera. E poi anche il lavabo. E’ riuscita a portare quelle cose.
Olivia M.
[Da Pola siamo arrivati a Venezia] e a Venezia siamo rimasti qualche giorno, sulle banchine del porto. Io quel che mi ricordo io è che i militari ci portavano la pasta e la minestra, i militari. Che arrivavano lì con ste marmitte [e dicevano]: quanti siete qua? Tre, due? [E ti davano le mestolate]. Poi non mi ricordo chi ci portava il pane, se erano militari [o se erano altri], e questo a Venezia, ma anche nelle stazioni che si andava, c’era sempre questa roba [del mangiare]. E poi mi ricordo i preti, che avevano un nome. Erano vestiti come dei preti proprio, non come adesso. Erano un aiuto della chiesa che avevano un nome... Pontificia qualcosa... Pontificia Commissione di Assistenza. Loro ci portavano la frutta e anche i formaggini. [Dormivamo] nelle stazioni, e mi ricordo che delle volte si mangiava anche sul treno, perché ti scaricavano lì per tre o quattro ore e poi ripartivi. A Venezia mi pare che forse siamo andati tutti in un deposito a dormire, ma un giorno o due, perché poi siam venuti via.
Franco D.
Da Pola siamo andati fino a Venezia. A Venezia siamo arrivati al famoso molo degli schiavoni. E lì sono poi dopo arrivati anche tutti i mobili, e sono rimasti mesi e mesi sotto l’acqua e sotto il sole, che si il legno si apriva tutto. A Venezia ma anche a Trieste, che c’era il famoso magazzino. E da Venezia treno e treno, che mi ricordo dei formaggini americani, che non li avevo mai visti, quelli triangolari. E poi anche il latte condensato americano ci davano. Mi ricordo questo e il freddo. [Del viaggio in treno] io ancora mi ricordo che ci davano l’uovo in polvere, che con l’uovo in polvere facevi la frittata. So che ci davano il mangiare. E mi ricordo i militari e i volontari della Croce Rossa e poi i preti. Perché mi ricordo dei preti che venivano e chiedevano a me, a lui o al papà: quanti siete? Quattro [rispondevamo], e allora ci davano quattro mele. Quello me lo ricordo, niente da dire, per carità. Anche il caffè [ci davano], perché [mi ricordo] che c’era roba calda, c’era roba calda. Poi [siamo arrivati a] Torino.
Bruno D.
Siamo andati via mi sembra ad agosto [del 1951]: io ero piccolo. Siamo andati via in treno, da Pola fino a Udine. Poi ci hanno preso le impronte digitali a tutti: [uomini, donne], bambini i! Ti prendevano le impronte digitali! Poi ci han messo nei carri bestiame, ci han dato una balla di paglia per famiglia che ci potevi star seduto o se volevi dormire l’aprivi e dormivi lì, e poi ci han mandato in Sicilia. [Abbiamo portato] niente, [solo] un cassone che era di mio papà, che ci aveva messo i ferri di lavoro [lui era falegname] , perché senza i ferri di lavoro era difficile. Ma guarda che controllavano, urca! Sia i drusi - perché noi gli slavi li chiamiamo drusi - sia i poliziotti italiani... Porca rogna, eran peggio i poliziotti italiani che i drusi! Perché i drusi andavi via e dicevano se andate via andate via, guardavano la roba ma non se ne fregava più di tanto. I nostri qui invece eran delle carogne a Udine! Ma non solo a Udine, dappertutto!
Giulio R.
Noi partiamo nel ’49, credo a dicembre... A novembre- dicembre, in inverno. Siam venuti [via] più tardi, perché l’esodo è iniziato nel ’47. Però sa, prima di decidere... Portare via i nonni da lì, e poi [c’era] sempre la speranza che qualcosa cambiasse, che fosse soltanto una paura e nient’altro. Dopo i miei si sono convinti a venire via, perché non cambiava assolutamente niente, ma peggiorava. Siamo partiti in treno fino a Trieste, al Silos, e poi, [sempre] in treno siamo andati a Servigliano.
Assunta Z.
Io parto nel ’47, con la prima nave, col Toscana. Il Toscana si fermava via mare, dove qualcuno aveva da scendere: certi, per esempio sono andati a La Spezia. Mio marito [invece] è venuto qui in Piemonte con la speranza, più ardua, di essere assunto alla Fiat. Io son venuta subito alle Casermette, dopo aver sbarcato a Venezia, e da Venezia, col treno, siamo venuti a Torino. Quando siamo venuti a Torino, c’erano i comunisti che ci davano... Non so perché , ma non ci volevano a Torino. Però tutti siamo stati zitti, cosa vuole.
Gina R.
[Da Fiume] siam partiti di notte, poteva essere dopo mezzanotte. E quindi io mi ricordo questa stazione completamente buia, proprio buia - non ricordo luci - piena di gente. Anche in treno buio mi ricordo, non c’era luce sul treno. So che c’era gente che cantava... Non so canzoni di bastimenti, canzoni di esuli... Mi ricordo questi cori molto tristi e mi ricordo i nonni sulla pensilina e me che piangevo disperata strillando nonna, nonna! Quello me lo ricordo benissimo. Cioè, me lo ricordo proprio: mi ricordo i parenti e le facce che si allontanavano [dopo che il treno era partito]. Come mi ricordo l’arrivo a Udine. Il viaggio di per sé, non so, c’era sta notte, il buio...[Perché] abbiamo fatto Fiume – Udine in treno.
Adriana S.
Da Parenzo a Trieste in viaggio. Ricordo sto fatto, che mi fa piangere sempre, ma si becchi le mie lacrime! Hanno messo [la roba in] questi quattro cassoni e ricordo mia nonna che quando è arrivata in mezzo al mare ha detto: speriamo che sta nave affondi, perché lasciare le proprie terre è terribile. Però mio padre aveva anche scritto di farci portare [insieme ai cassoni] anche la nostra cagnolina, e loro non hanno voluto che noi portassimo via questo cane. Era un volpino, ed io di questo fatto mi ricordo. Avevamo questa cagnolina e il gatto e non ce l’hanno fatta portare. E io ho questo ricordo della cagnolina, anche perché legati a quella cagnolina sono rimasti tanti ricordi. Quindi siamo arrivati poi a Trieste.
Rita L.
Impedimenti a partire
La nostra partenza era già [programmata] dal ’44 in poi, solo che mio papà non lo lasciavano. [Lui] lavorava come geometra al comune di Zara, e siccome la città era tutta distrutta, ai fratelli di mio papà gli hanno dato lo svincolo per venire mia, invece a mio papà non lo davano perché avevano bisogno di lui, avevano bisogno di lui come persone, capisce? Perché le strade erano tutte una rovina e non avevano un tecnico adatto a controllare i lavori. E così insieme a mio papà siamo rimasti.
Alma M.
Era arrivato il momento di dire: ma, cerchiamo di restare? Ma poi alla fine quando anche i nostri vecchi ci han detto ragazzi non si può andare avanti così, allora abbiamo presentato l’opzione al 1 maggio del ’48, tutti quanti. C’era mia suocera, mia cognata - che lei era sposata e noi siamo finiti a Mondovì per il fatto che suo marito aveva la mamma e un fratello a Mondovì, altrimenti non sapevamo neanche dov’era Mondovì, eravamo proprio all’opposto! - e allora con mia mamma e mio marito abbiamo optato. Allora, cosa è successo? Che chi lavorava è stato immediatamente licenziato, e lì avevamo le tessere... E lì, allora, mio marito è stato licenziato, mio suocero è stato licenziato e ci hanno buttati fuori di casa. Io ho lavoravo in un’ impresa che stava andando in liquidazione, ma mi han tenuta perché ero all’ufficio contabilità per fare questa liquidazione, e c’ero io, il ragioniere e il capoufficio. E allora mi han tenuta e io ho lavorato fino a quasi l’ultimo giorno prima di partire, [mentre] invece mio marito e tutti gli altri son stati subito licenziati. [Ci hanno] tolte le tessere, e noi avevamo anche un alloggio abbastanza grande, di quelli dei profughi che erano già andati via . Lo avevamo affittato, ed erano venuti a controllare, e visto che avevamo una camera in più di noi, allora ci avevano obbligato, avevamo i mobili e abbiamo affittato a un militare, che tra l’altro non dava nessun fastidio, aveva l’entrata sulla scala e perciò non lo vedevamo neanche. Ma in quel caso lì, io lavoravo, mia mamma ha cercato mio marito ma non lo trovava, perché questi poveri disgraziati che avevano optato non potevano far crocchio in giro per la città, e allora lui andava a pescare con qualche altro amico o prendeva la barca da non trovarsi in città a girare. Mia mamma è venuta da me e mi ha detto. Guarda, è così, così e così, cosa facciamo? C’ho detto: beh, io vado dal sindaco, dal podestà, insomma, dal capo lì che c’era in comune. E lui mi ha detto: compagna - mi sembra di vederlo ancora - hai deciso di andare in Italia? C’ho detto: si, abbiamo deciso di andare via. [E lui]: allora, la riva è tanto grande, e i tuoi mobili possono star lì, l’alloggio deve essere vuoto. E io dico: allora dateci i permessi, perché non sapevamo, non li avevamo, non avevamo niente. E questo era successo appena presentata la domanda di opzione. Dico: datemi una camera, qualcosa. E lui: arrangiati. E allora, poi, degli amici - che tra l’altro poi loro erano rimasti là perché aveva la suocera - ci hanno preso tutto, cioè quel poco che avevamo deciso di portar via : biancheria, piatti, qualche pentola e mobili, niente, materassi e quelle cose lì. E il resto poi [lo] abbiamo dato via, lo abbiamo venduto e siamo andati in casa di mia suocera, che lei affittava dal padrone di casa - che abitava sopra la sua testa - che le ha detto: no, no, lei rimanga qua. E allora dormivamo lì da mia suocera. E allora poi intanto sono arrivati i permessi per poter partire, mentre che quello di mia madre non c’era, perché la giustificazione era che lei non era capace a parlare italiano, che lei parlava solo croato. E mia mamma non sapeva una parola di croato, mentre sapeva italiano e tedesco, perché aveva fatto le scuole sotto l’Impero austro-ungarico! E così mia mamma è rimasta giù un anno e mezzo, e noi subito eravamo andati a Zagabria al Consolato italiano, anche perché cosa possiamo fare? Si, noi abbiamo fatto domanda, abbiamo fatto ricorso subito perché altrimenti scadevano i permessi. E allora siam stati costretti, e siam partiti al 19 di dicembre del ’48, e mia mamma è rimasta ospite di amici che ci sono ancora, che io con mio marito siamo andati tante volte [a trovarli].
Maria G.
Io mi ricordo a scuola... Ecco, questo aneddoto a scuola. C’era una mia amica che è morta quattro o cinque anni fa... Era nel ’48, e qui c’è uno che è venuto via nel ’48, andavamo a scuola assieme, lui è del ’40 di ottobre e io di marzo. Ci siamo incontrati qua, lui non si ricordava, ma poi dopo, dialogando e contando certi aneddoti poi gli è venuto. Quando siamo in classe questa Maria le ha chiesto una cosa alla maestra, e la maestra ha detto: stai zitta tu e tutti quanti voi che siete tutti optanti italiani, andate fuori di qui! La cattiveria che avevano verso questa gente che andava via. Voi che siete optanti, insomma, non dovevano neanche parlare. E allora mi è rimasta impressa sta parola optante, che venivo a casa e dicevo a mia mamma: mamma, perché ai disi optanti e quando che quela dise che s’è optante la maestre è s’è cattiva? Ancora avevano quei righelli neri e glielo davano sulla mano. E ancora si aveva paura un po’. [E mia mamma]: sta zita, non fate sentir! Che mi diceva mia mamma così. Era una parola proprio brutta sta optante.
Anita B.
Ma poi, per non poter venire via, non mi davano il passaporto, non me lo davano. Poi, respinto su respinto, alla fine ho trovato chi mi portava oltre confine, ho pagato anche. E allora il komandir di Dignano - un altro che non c’è più - le dice a mia mamma: Maria, che non la staga a scampar, perché sul confine la possono uccidere. Sa che c’era [i soldati]... Ch’ella fassa le carte! E io ho presentato al 17 giugno del ’63 tutti i documenti - perché me veniva sempre respinto, respinto, respinto - e al 27 di agosto ricevo il passaporto. Non normale come tutti quelli della Jugoslavia, ma ambasciatoriale, verde, che io potevo andar per tutta l’Europa con quel passaporto. Però dovevo andare via entro otto giorno, dovevo espatriare. Che me fregava a me? Allora arrivo a Pola, prendo questo passaporto, torno a Dignano e dico a mia mamma: mamma, guarda, devo andare via entro otto giorni, devo partire. E’ logico che a mia mamma dispiaceva, però sapeva che prima o poi dovevo andare. Per dirle... Le carte, i documenti, non partivano dal paese, le fermavano tutte lì, perché era la cattiveria, perché la gente va via? Perché la gente ci lascia? Perché in quella volta, dal ’59 al ’63 - che poi due son venuti via anche nel ’64 - c’era gente che andava via.
Anita B.
Io ho [avuto] sei respinti. [Respingevano le domande] perché non volevano che vai via. Magari ti promettevano anche... Io poi ero abbastanza ben vista come lavoro, facevo contabilità. Perché dopo, tra quelli che son rimasti c’erano pochi che non erano analfabeti; specialmente di quelli venuti - noi dicevamo - con le ciabatte. Che sono venuti giù ed erano solo del partito, ma essendo del partito ed essendo partigiani loro comandavano, e poi non sapevano [fare] due più due, e avevano bisogno di noi. Però appena non avevano bisogno sapevano cosa farti. E in quell’anno là che ho potuto andare ad optare...Intanto era tutto in segreto: avevano aperto le opzioni però in segreto. Io, grazie a Dio, ho saputo, e come ho saputo io han saputo altri. Andavamo a far la fila alla sera alle nove o alle dieci, per domani mattina alle otto e mezza. Davanti - come la chiamavano- la questura - un commissariato- stavi in fila tutta la notte, quando non venivano i pompieri a bagnarti. Perché hanno aperto a gennaio, e venivano i pompieri con la gomma e ti lavavano tutti e dovevi scappare, e dopo quando tornavi, la fila non era più quella di prima, e allora si picchiavano, si bisticciavano. Lo facevano apposta. E così, sono andata tre notti, e la mattina andavo a lavorare; tre notti sono andata a fare la file, la mattina andavo a lavorare e ogni mattina [in ufficio] mi dicevano: sappiamo che questa mattina sei andata per optare, guarda che se opti ti licenziamo, subito. Intanto un giorno è andata bene, un giorno è andata bene e il terzo giorno son riuscita a passare in questura, o in prefettura, quel che era lì. Son riuscita a passare e ho detto: adesso fate quello che volete! Però nella mia ingenuità - e oggi non succederebbe - mi sembrava: beh, adesso un mese o due mi mandano via, mi daranno i documenti e poi si tengano il suo lavoro, si tengano tutto. C’erano ancora le tessere annonarie: tutto, alimentari, vestiario, [c’] era ancora le tessere annonarie. La prima cosa che mi hanno fatto quando ho optato, mi hanno tolto la tessera, così mia mamma doveva comperare tutto al mercato nero. Poi mi hanno licenziata, due o tre volte alla settimana mi chiamavano all’UDBA in un altro palazzo, mi mandavano a chiamare. Beh, io andavo come se qualcuno sulla mia testa mi dicesse: vai, vai tranquilla, che a te non succede niente. E mi chiamavano: c’era un segretario lì - non so cos’era - chiudeva la porta, mi faceva sedere e cosa non usciva da quella bocca! Dietro un armadio avevano quei frustini come i fantini con in punta un nodo: su di me non l’hanno mai usato, perché io là dentro conoscevo: ma non che conoscevo perché ero con loro, [ma perché ] lì [c’era] il marito di una mia amica, il fratello di quell’altra, un’amica di mia mamma e allora non si osavano. Però a parole mi hanno fatto tutto e ancora un po’.
Maria Man.
Due ragazzi giovani erano con dei zii, perché il papà e la mamma erano già andati via, e sono andati in bicicletta con due borsoni con [dentro] la roba che han potuto prendere e sono arrivati al treno, lì dove c’era la stazione. Lì stavano le guardie, quelle dell’OZNA - disgraziati - che guardavano chi andava. E uno ha detto in croato - io non lo so - e ha preso le bici e così, gliele ha sbattute giù, che stavano già per salire nel treno ste bici, gliele ha sbattute via. Sti bambini a urlare e a piangere e lo zio fa: state zitti - avranno avuto undici o dodici anni - perché ancora vi fanno restare qua! Han dovuto stare zitti e sono andati via. Non ti facevano portare via tutto. E quando eri dentro il treno - prima di passar di Fiume e andare via - lo andavano pezzo per pezzo a visitare, a guardare le borse, a guardare tutto.
Fernanda C.
Mamma mia, sono andati via tutti nel 1948! Nel 1948 hanno messo le votazioni, perché a furia di spingere in comune, si diceva voglio andare in Italia. E mio padre ha votato per l’Italia e allora per questo siamo stati mal visti dai titini, purtroppo. Ma non solo mio padre, anche gli altri, perché non ci piaceva il regime, è vero. Non ci piace il regime, inutile stare lì, volevamo venire in Italia e siamo venuti in Italia. Han fatto le votazioni: chi vuole rimanere rimane, chi non vuole rimanere gli diamo il passaporto e va via. Mio papà gli han dato il passaporto. Ma cosa è successo? E’ successo che le votazioni [opzioni] sono venute nel 1948, ma loro ci interessavano i maschi, loro ci interessavano i maschi e allora han chiamato mio padre e niente, lo han chiamato in Comune e gli han detto: signor L., se vuole andare in Italia - e mio padre dice si -, però ci diamo il passaporto lei, la moglie e due figlie femmine. I figli no, noi eravamo cinque fratelli maschi, e due femmine. Sette. E allora dice la moglie e due figlie le lasciamo, i figli no, i maschi devono stare qui. Loro ci interessavano i maschi per aiutare alla ricostruzione, ci interessavano i maschi per la manodopera. E gli hanno dato il passaporto dopo dieci anni! Mio padre ha fatto l’opzione nel ’48, ed è partito nel ’58, appena gli è stato accordato di venire in Italia. Dopo dieci anni. A furia di fare domande su domande. Perché il Ministero d’Italia era a Zagabria, e mio padre ha fatto parecchie domande, anche per gli altri, perché lui era perito agrario e sapeva come si scriveva, come si dovevano fare. Faceva tutto, come un notaio oggi. Era conosciuto. A loro interessavano gli uomini che avevano i figli. A mio padre gli han dato anche un lavoro in Comune; è stato otto giorni e poi è andato via. E’ andato via perché aveva della gente non competente, mio padre ha visto le cose e diceva: preferisco stare a casa che avere a che fare con gli scarponi! Ma ti dico [un’altra] cosa: noi essendo nati sotto l’Italia avevamo quella cosa di venire in Italia, e loro ci guardavano con occhio storto, come si dice in istriano. Ti guardavano con occhio storto: dice L., dove vai in Italia? Che noi eravamo famiglia numerosa, eravamo in nove. Dicevano dove vai in Italia a mangiare scarafaggi? Dammi il passaporto che io vado a mangiare scarafaggi, te non ti preoccupare. Io vado in Italia a mangiare scarafaggi, ma che te ne frega a te! Dammi il passaporto! Ti scoraggiavano, ti facevano delle battute e delle frasi e se rispondevi male, ti mettevano anche in galera. Anche mio padre, quando c’erano le votazioni del ’48 ha fatto due mesi di galera. E’ venuto uno dei titini e dice: L., come mai non vai a votare? E mio padre: ma non è mica scaduto l’orario, non sono mica le otto. E l’altro gli ha detto: ah si, si, L. tanto non va a votare perché era fascista, portava la camicia nera. E mio padre gli ha detto: si, ma fino a ieri l’hai portata anche tu! Anche tu avevi la camicia nera! Ha preso due mesi di galera, perché l’ha offeso. Ed era vero, perché era ferroviere, lavorava a Trieste e loro la camicia nera ti costringevano, ti costringevano a prendere la tessera. Era così la costituzione. Se no non lavoravi. L’ha offeso e ha fatto due mesi di galera. Fortunatamente - perché lì c’è la galera che lavori, anche oggi - mio padre ha fatto la galera facendo il cuoco, è andato in galera facendo il cuoco. Si è salvato lì, facendo il mangiare. Dice: sono punito, però almeno sono in cucina e mangio ciò che voglio. Non c’era tanta scelta, [ma] patate e crauti non mancavano! Ha fatto due mesi di galera perché gli ha detto che fino a ieri portava la camicia nera!
Renato L.
Nel ’48 noi siamo venuti via [da Fiume], e ci han mandato via a me, mia mamma e mio fratello. Mio papà lo han tenuto lì e lo han mandato via una settimana dopo, perché se sapevano che noi parlavamo male o questo o quell’altro... Erano sospettosi da matti! Perché loro c’avevano le spie, anche a Trieste. Perché se noi andavamo a dire ah, quei bastardi, ci hanno portato via tutto! Questi qua venivano a saperlo e mio padre non lo vedevamo più. Allora noi zitti, ci hanno messo sul terno e poi lui è arrivato.
Franco S.
Ci hanno fatto la fogna, come si suol dire, mia madre l’han guardata dappertutto. [E’ successo] quando eravamo nel treno, e anche lì una fifa della madonna! Ci han fatto la fogna a tutti, ci han controllato perfino nel buco del culo! Mia madre nella vagina sono andati a cercare che non avesse qualcosa. Perciò eravamo lì, terrorizzati e quando siamo arrivati a Trieste ci sembrava di essere arrivati in paradiso. Mamma mia, un disastro! Avevamo 500 Lire nascoste nelle scarpe di mio fratello, che era piccolino e diceva: ah, c’ho male! E noi [gli rispondevamo]: sta zitto!
Franco S.
Nel 1948 mi son sposata. Prima di sposarmi, quando ho fatto le carte per andare via, mi hanno licenziato dalla Fabbrica Sardine. [Siamo stati] licenziati dal lavoro, sia io che mio marito. Mia suocera e anche mio cognato. Ti licenziavano appena avevi iniziato a fare le carte. Comunque, insomma, era dura.
Eufemia M.
[Quando ha fatto l’opzione] a mio papà no, anzi a mio papà gli han detto: Valentino, non andare via, non andare via; loro avevano bisogno di questa gente. A mio papà grazie a dio non lo hanno [licenziato], ma molti li lasciavano a casa, ti lasciavano proprio nella grande miseria. [C’]era già miseria, poi non portando neanche quei pochi soldini a casa, cosa faceva la gente? Veniva aiutata da chi, dai parenti. Era successo, era successo quelle cose lì.
Elio H.
Son partito io, mio papà, i miei fratelli più giovani. L’altro fratello invece è rimasto col bambino perché non volevano farlo andare via, non volevano, ti ostacolavano il più possibile. Ad esempio, il bambino è nato lì, non puoi partire... Insomma, angherie il più possibile per farti passare la voglia. Ma poi son partiti anche loro. [Da] noi, tutta la famiglia, siamo andati via.
Aldo S.
Mio padre ha fatto [richiesta] per venire via, ma non gliel’hanno dato [il permesso] per venire via. Il perché non lo so. So che mio padre ha fatto [quando eravamo ragazzini] nel ’44 o nel ’45 [la domanda] per venire in Italia, ma a tanti di quelli non gli hanno permesso di venire via. E tanti hanno permesso. Ma loro erano furbi, hanno dato il permesso di andare via a tutti quelli che avevano un po’ di casa e un po’ di terra: gli han detto andate, andate, [mentre] quelli che non avevano niente li han lasciati! E quelle case e quella terra le han prese loro, logico, le hanno ripopolate.
Adua Liberata P.
Io mi ricordo quando mio padre ha venduto le cose che non portava con sé: per esempio mi ricordo ancora il suo trombone lì per terra e aspettava uno che venisse a prenderlo, a comprarglielo, perché dietro non poteva portarselo. Perché noi abbiam portato dietro solo la camera da letto, e neanche la nostra, ma quella vecchia della nonna, perché la nonna ha detto a mia madre: ma cosa vai in giro con questa camera bella, nuova? Sai, classico novecento in noce scuro, elegante, moderna. Dice: nei campi te la rovinano, te la massacrano! Prendi la mia vecchia, così almeno non hai problemi. E quindi abbiamo fatto questo cambio, ma è vero, perché i nostri mobili sono rimasti a Trieste. [Sono rimasti a Trieste] per un sacco di tempo, penso un anno a marcire nel fango in un deposito.
Adriana S.
C’è [anche] questo fatto: gli operai e i tecnici - Tito non era scemo - quando sono andati via i fascisti, son rimasti i lavoratori. E a Tito gli veniva gente dall’interno, gente che arrivava dalla campagna e dalla montagna che non aveva l’istruzione per il lavoro, e di conseguenza gli operai e i tecnici se li son tenuti ben stretti, dovevano prima aiutare a ricreare loro, ma giustamente! [Noi] l’opzione l’abbiam fatta subito quando c’è stata, ma non accettavano immediatamente, l’accettavano in base alle loro esigenze. Mio padre [ad esempio], so che a lui gli facevano ponti d’oro per rimanere, perché era personale in gamba.
Giuliano K.
[Non abbiamo portato] niente, perché se sapevano che portavamo via qualcosa e sapevano che non ritornavamo più, ci sequestravano anche da noi e bell’è fatto. E allora si scappava via: qualcuno scappava la notte, qualcheduno attraversavano il mare - come fanno adesso i clandestini- e arrivavano a Trieste col motoscafo a motore.
Ilario B.
E ricordo che non tutti quelli che avevano fatto domanda per venire in Italia erano stati accontentati, perché c’era stata anche una selezione, c’era anche una discriminazione, anche all’interno di una stessa famiglia, che veniva tagliata: tu si e tu no, all’interno dello stesso nucleo familiare.
Giuseppe M.
Mio marito, la prima volta, è andato via nel 1953 con una barca e sono stati presi e ha preso ventidue mesi di prigione. Io prima non lo conoscevo, l’ho conosciuto io nel 1955, quando è tornato [dal carcere]. E di nuovo [gli] è venuto il pallino che dovevamo tornare in Italia, che lì non si poteva vivere. Lui era un tipo che sapeva aggiustare i motori delle barche, ha fatto di nuovo un complotto [ha organizzato un’altra fuga]: eravamo dodici o tredici, ci siamo messi su una barca e di nuovo ci hanno preso. Lui ha fatto quella volta - la seconda volta - venti mesi [di carcere], e io ho fatto cinque mesi. Avevo diciassette anni. [Ci hanno presi] con la motovedetta, con la motovedetta dei loro, dei croati. Niente, eravamo su questa barca col motore, eravamo in [mare] aperto e [forse] qualcheduno ha fatto la spia, e abbiamo visto che loro arrivavano, i croati con la motonave. Mio marito aveva detto:
varda che arivan, si vede che qualcheduno g’ha fato la spia! Si sentiva [la motovedetta] arrivare da lontano: ci hanno preso, ci hanno messo da loro [sulla nave] e ci hanno portato a Zara di nuovo indietro, in carcere.
Adua Liberata P.
[Portole, il mio paese], piano pianino si è svuotato. [Ad andare via] era più la gioventù. E dopo che è andata via la gioventù, la vecchiaia [gli anziani] sono morti e adesso c’è tutte le case che cadono giù! [La gente andava via] perché andavano meglio, [andavano in cerca di un] miglioramento. Noi eravamo giovani, e già prima avevamo tentato di andare oltre il confine... Un mio parente, [ad esempio], lui è scappato, proprio. [Si scappava] di notte, si andava oltre il confine a piedi. Poi se ti prendevano facevi il giro: andavi a Capodistria, poi da Capodistria si andava a Sesana, da Sesana si andava a Pola e poi da Pola ti mandavano a casa. Facevi un quindici venti giorni di questo qua [di questa trafila]. La prima volta, la seconda volta no, ei te mettevan dentro per un mese o due. [Qualcuno riusciva a scappare], ma gliene son stati tanti di morti però, eh! Tanti sono morti scappando. Gli sparavano. Una volta c’erano dei ragazzi che erano tutti quanti di Pisino, di Albona, erano in diciotto, e qualcuno - credo proprio quello che li portava oltre [confine] - ha fatto la spia. E allora sono arrivati vicino a Piemonte, un paese, e sul confine li aspettavano e li hanno ammazzati tutti. Le dico ancora una cosa... Che non si doveva scappare via, perché se tu scappavi, ti mettevano in galera i genitori. Ah, si, si.
Guido C.
Io avevo tre bambini piccoli, ma non mi lasciavano andare perché dicevano che io sono croata: respingevano l’opzione e niente, ho dovuto aspettare finchè hanno voluto loro. Io mi chiamo P.-e, il mio cognome è P.-e e non ha proprio niente di croata. Ma, come dire, se uno mi dava un pugno, io cercavo di dargliene dieci. Se io avevo fatto uno sgarbo, che magari a me sembrava di non averlo fatto, quello si vendicava, [diceva]: quella non va via e basta. Ha capito? Quindi a me mi han respinto, ma non solo io anche ad altre famiglie. Poi c’era il consolato [italiano] a Zagabria, e lì cercavano di aiutare sta gente [che voleva andare via].
Gina P.
[A] mio papà gli è venuta due volte respinta [la domanda] per madre lingua jugoslava. Noi avevamo bisogno del passaporto provvisorio per venire in Italia, perché senza questo non potevi venire. Mio papà come poteva essere madrelingua jugoslava che lui ha fatto le scuole italiane? E così gli è venuto [respinto], anche ai miei zii; poi loro si sono stancati, perché quando ti veniva due o tre volte [respinto] la gente si arrendevano, capisce?
Elio H.
Abbiamo fatto le opzioni, ma le abbiamo fatte qua in Italia; noi siamo scappati clandestini, di notte. Allora era così, invece poi gli altri potevano venire dopo... Infatti poi mia nonna - la mamma di mia mamma - e la sorella [di mia mamma] son poi venute dopo. Anche un'altra sorella di mia mamma e la mamma e il papà di mio papà son venuti dopo, ma non tanto dopo. Metti che son venuti via nel ’48-’49 loro, non tanto dopo. Però potevano venire tranquilli, con l’opzione, mentre invece noi abbiamo poi fatto l’opzione qua in Italia.
Aldina P.
Dopo la guerra, arrivati nel nuovo regime, noi che eravamo cittadini italiani già da tempo, alcuni non han voluto cambiare e andare in Italia, e son rimasti lì dicendo che quella era la loro terra e quelli erano i loro poderi. Invece mio padre ha sempre ritenuto di essere italiano e di voler venire in Italia, visto che con il regime di allora non era compatibile. Noi, per conto nostro, abbiamo cercato di venire via subito dopo la guerra, ma non siamo riusciti: chi aveva potere, chi aveva possibilità economica si imbarcava, veniva via e qui [in Italia] non è passato nemmeno per i campi profughi. Altri, invece, [come] nel nostro caso, non son potuti venire via perché non ci permettevano [di partire]: infatti loro [gli jugoslavi] a coloro che erano nella posizioni chiave - almeno per quel che so - non permettevano di venire via. Sono venuti via in parecchi, ma quelli che erano nelle posizioni di lavoro che potevano continuare le attività, non gli permettevano di venire via. E in questo senso a noi non ci hanno permesso di venire via. Anche con l’opzione, perché poi c’è stato il periodo dell’opzione, mio padre ha votato per venire via in Italia, ma noi siamo stati [tanto], siamo venuti via nel 1955!
Rino P.
Nel ’45 o nel ’46, si sono aperte le votazioni [opzioni], e allora lì la gente sono andati tutti a votare per andare via, quasi tutti. Mio padre non è andato perché non stava tanto [bene], non aveva tanta salute e aveva detto: io in giro per il mondo non vado più. Però respingevano le domande, subito non le davano a nessuno, [le davano] solo a chi volevano loro, solo a chi non gli interessava, più di tutto. Lì nel mio paese in quegli anni, nei primi anni, l’avevano data a un italiano che in tempo di guerra era militare lì e si era sposata con una del paese, e poi c’era un altro, un vedovo, che aveva i figli a Trieste.
Guido C.
Io ricordo a Valle quando partiva la nostra gente, con quel po’ di roba che le lasciavano portare. Magari disfavano i letti per fare i bauli e mettere la roba dentro, e c’era sempre la guardia popolare che controllava cosa c’era in questi bauli. E cosa trovavano in questi bauli? Solo miseria, solo miseria.
Antonietta C.
Non potevamo andare via tutti insieme, perché sapevano che non ritornavamo più. E allora ci han tenuto a mia madre che era nativa di là e di provenienza di là, e han tenuto anche me che ero il più piccolo. E gli altri due [fratelli], son venuti via insieme a mio padre mentre il terzo era già qua.
Ilario B.
La partenza
Allora, sull’esodo le dico un particolare. [Vista] questa faccenda di portare vie dei ragazzi giovani, un viceparroco [di Degnano] ha preso un po’ di ragazzi, di cui uno era mia fratello e li ha portati in collegio a Oderso, vicino a Treviso, da quelle parti lì nel Veneto. Dice: cerchiamo di salvare sti ragazzi, e allora è partito con sti ragazzi. Dopo non mi ricordo quanto che mio fratello era via con sto prete mia mamma dice [a mio papà]: Alessandro, perché non andiamo a veder dov’è che g’han portà sto piccolo? Sapevamo [che era] a Oderso, in un collegio di suore. Son partiti e sono andati a Oderso e son rimasti contenti, lo han trovato bene, in mezzo alle suore, con tutti i suoi paesani... Nel ritorno, a Trieste, a mio papà gli prende male, male: un attacco di ernia. Allora l’ernia era una cosa [grave] [e lo hanno] operato. E allora mia mamma aspetta che lo operano. In quel mentre è stato che chiudevano le frontiere, chi dentro è dentro chi è fuori è fuori, e mia mamma ci aveva lasciato a me a mia sorella lì [a Dignano]. E dice: ah, cosa faccio?! Allora mio papà si era ripreso dall’intervento e mia mamma cosa ha fatto? Ha lasciato ancora all’ospedale mio papà che si facesse la convalescenza, e ha preso e ha detto: io vado di là, che c’ho ste due creature ancora... Insomma, [avevamo] tredici o quattordici anni, e lì siamo state bloccate. Noi però abbiam fatto subito domanda per optare per l’Italia, abbiamo aspettato un anno o un anno e mezzo, [fino a che] abbiamo avuto il passaporto e la qualifica e siamo partiti in regola nel ’48, a settembre.
Olivia M.
Son venuto via che avevo otto mesi, nel ’47. Erano i primi di novembre del 1947. Mio papà è arrivato dopo, perché essendo partigiano, una roba e un’altra... Poi è riuscito a venire via via mare, il resto non so di preciso, non so. So che mio papà mi aveva detto che era scappato col peschereccio. Abbiamo portato via zero. Abbiamo portato via il trasferimento [il documento di trasferimento] di mia mamma, che lavorava lì alla Fabbrica Tabacchi, che sperando di avere un posto da qualche parte se l’è portato dietro, e poi, fortunatamente, l’ha avuto. E mio papà si portava dietro invece la sua esperienza di pescatore.
Giuseppe S.
[Siamo partiti] nel ’47, nell’aprile del ’47. Mi ricordo che ci hanno dato il permesso di uscire dopo due anni, perché non tutti potevano uscire quando volevano. Allora mio papà in previdenza di questa opzione, cosa ha fatto? Ha chiesto il trasferimento, ed è andato a Genova, così non ha dovuto optare; era statale e lo mandavano, poteva farlo. E invece noi abbiam dovuto fare l’opzione. Ovviamente per l’Italia, io non sarei mai rimasta lì, assolutamente. Fatto sta che chi partiva dopo un anno, chi dopo due, a seconda di come si svegliavano al mattino. E come si svegliavano al mattino ti davano il permesso di portare fuori qualcosa: se avevano voglia portavi, se no no. Mi hanno fregato anche la fisarmonica, li avrei strozzati!
Livia B.
[Io parto] il 28 novembre del 1948. [Ho un ricordo] terribile, terribile. Ricordo di essere vestita con un cappottino blu, tutti e cinque eravamo ben vestiti. Ricordo che avevamo tutti le ciabattine fatte da mia nonna con la soletta di stoffa, di maglia, di tessuti, perché dentro ci avevamo messo le collanine d’oro. Ci avevamo messo le collanine e i braccialetti - del battesimo, penso che siano stati - perciò avevamo i vestitini con sotto queste ciabattine. E sotto invece eravamo vestiti un po’ leggeri, non eravamo vestiti pesanti, perché la mia nonna si era aggiustata a fare i cappottini, perché sapeva che venivamo in Italia e che faceva freddo. Non che non facesse freddo anche lì, ma il mare mitigava. E ricordo che siamo partiti di pomeriggio. Da Fiume siamo arrivati a Sistana, non so le ore che ci abbiamo messo, perché è andato tutto bene. Eravamo cinque: la mamma e questo zio che è venuto con noi, e ha lasciato la moglie in Jugoslavia, perché se no non lo lasciavano venire in Italia, avevano paura che facesse la spia. Invece aveva la moglie lì, e doveva tacere, se no...Però i comunisti di Tito, aspettavano queste persone fasciste al confine, per picchiarli. Un suo cognato - questo lo ricordo, che sarebbe il fratello della moglie di mio - ha comunicato che mio zio veniva in Italia con cinque bambini e la sorella. Quando siamo andati a Sistana che han fatto vedere i passaporti, l’opzione il visto e tutto, era tutto ok. Ci fanno anche una visita [perquisizione], perché tutti quanti siamo stati visitati, dal bambino all’adulto. Ricordo che mia mamma era indisposta - guardi, avevo sette anni, ma lo ricordo sempre perché mi ricordo poi l’incidente di dopo-, e ci hanno visitati così, palpati, e sarebbe andato tutto bene. Questo treno era un treno merci, e noi eravamo fermi nel treno merci tra il gabinetto e la carrozza, che era una carrozza di legno, con le panche, non che ci fosse nient’altro, anzi quelle dove eravamo messi era forse già la prima classe. E ricordo che mio zio dal finestrino - qui c’è il binario e c’era mia zia dall’altra parte- ha fatto segno [come per dire] tutto ok. Io ricordo lo stridolio di quel treno, guardi, e ci siamo tutti fracassati [alla frenata]. E mia mamma fa: perché ferma? E non pensavamo neanche lontanamente che eravamo noi la causa del fermo. Non so le ore che siamo stati fermi, ma, guardi, so che sono state tante le ore! Poi ci han fatto scendere, ci han portato prima in una guardiola e poi ci hanno spogliato: hanno messo i fratelli da una parte con lo zio, e noi tre sorelle con la mamma [dall’altra]. Ci hanno spogliati tutti nudi, anche la mamma, che la mamma gli ha detto al milite: guarda che sono indisposta. E lui ha detto che non gli interessava. E lei gli ha detto: guarda che te lo dico per te, che sei giovane. Anche io sono giovane, però, insomma... Quello [me] lo ricordo. L’unica cosa è che non ci hanno fatto togliere le ciabattine: noi sorelle non dovevamo parlare, perché sapevamo che avevamo le catenine dentro, perché la nonna [le aveva messe], perché aveva paura che non avessimo per mangiare, e così diceva: vendi e qualcosa prendi. E non ci han fatto togliere le ciabattine. E alla più piccola, Claudia, le facevano male i piedini, e la mia mamma [le ha detto]: no, devi tenere le ciabatte, perché se no prendi freddo, già siamo nudi. E, insomma, a questo titino o le abbiamo fatto pena, o che cosa non so, e insomma non ci han fatto togliere le ciabatte, e poi ci siamo rivestiti. E non han trovato nulla di cosa cercavano, perché questo che aveva fatto fermare [mio zio], [lo aveva fatto] perché è logico, lui era comunista croato, e l’altro era fascista italiano. Ed erano sempre in lotta. Noi credevamo proprio che lo picchiassero, ma invece non è stato picchiato, perché la polizia titina non aveva trovato nulla addosso a mio zio, e lui era integro, perché veniva in Italia con noi. Anche se l’avevano picchiato, qualcosa, perché parlasse, ma lui non ha detto niente, si è comportato da grande persona e dopo qualche ora il treno ha dato il fischio e siam partiti. Come abbiamo superato Gorizia il treno si è fermato. E penso che si sia fermato per darci aria, perché penso che eravamo tutti sfiniti. E si è fermato non in una stazione, ma in un dirupo. E siamo tutti scesi, e pensi che c’era la neve, mi ricordo di veder la neve. Un freddo! E poi la prima fermata ufficiale è stata Udine.
Nirvana D.
Siamo partiti nel ’48. Dicembre del ’48: io ho fatto San Nicolò a Trieste. Il ricordo è sempre quello di un bambino piccolo. Il ricordo di un bambino piccolo che è andato sulla barca con tutti e con tanti, e che ha fatto un lungo viaggio. [Noi siamo stati] fortunati, certo! Noi siamo tra quelli che hanno portato via anche parte della mobilia. E l’abbiamo lasciata nel porto franco a Trieste, in quel magazzino che oggi sta per diventare museo. Lì c’erano anche molte masserizie di altri che l’avevano portate. Poi, quando siamo andati in Toscana, li abbiamo trasferiti. E poi successivamente a Torino. Quindi loro hanno fatto il giro [con noi], e quelle masserizie noi le abbiamo ancora, e dietro c’è scritto il nome, il cognome e il numero del collo stampato con la vernice a testimonianza. Il nostro esodo non è stato drammatico: non siamo stati né mitragliati, né abbordati, però è stato triste. Perché ? Perché i nostri genitori piangevano, perché i nostri nonni piangevano, perchè tutti quanti guardavano andando via, lungo il mare, la loro casa e la loro terra, e capivano, pensavano - anche se la loro speranza era quella di poter tornare un giorno- che forse non sarebbero tornati più. C’era ottimismo e pessimismo, come dappertutto. Molti esuli hanno lasciato le chiavi nella toppa della casa. I nostri genitori - e questo lo ricordo bene perché a Trieste lo ripetevano in continuazione - [dicevano]: noi non abbiamo fatto niente a nessuno, tutte le nostre famiglie. Noi non abbiamo fatto del male, né a quelli di prima, né a quelli di adesso, e non riusciamo a capire per quale motivo abbiamo dovuto abbandonare tutto. I presupposti per rimanere non c’erano. Cioè quando ci han tolto quello con cui vivevamo e di cosa vivevamo, evidentemente non potevi che pensare [di andare via]. Poi era un loro consiglio, dato come può dartelo un soldato in tempo di guerra: vattene via almeno ti salvi la pelle. Quindi è questo il concetto. Noi bambini, che con una giocata, con un girotondo, con uno scherzetto dimenticavamo tutto, siamo stati presi per mano da uomini e donne nel pieno della maturità, dalle famiglie che sapevano [quello] che abbandonavano e che non sapevano cosa sarebbe successo.
Fulvio A.
Ah, io non vedevo l’ora di venir via perché volevo vedere mia sorella e mio fratello che erano a Trieste! Loro son stati a Pola fino al ’47. Noi si doveva andare via anche noi nel ’47, cioè mia mamma, mio papà, io, mio fratello prima di me e una mia sorella più piccola. Poi però mio papà ha detto: ma no, poi magari cambiano le cose - perché già nella guerra del ‘15-18 son stati profughi e dopo tre anni son tornati -, e poi sa, lasciare la casa... Mio papà non era mica giovane quando siamo venuti [via], aveva cinquantuno anni quando siam partiti di là, e mia mamma ne aveva quarantanove. Beh, allora li vedevamo vecchi, anche per il modo di vestire, ma non erano vecchi affatto. A cinquantuno anni cosa vieni [a] fare? Dove ti pigliano a lavorare a cinquantuno anni? Era dura. Poi siamo partiti nel ’49 perché mia mamma a tutti i costi voleva venire via. E io - come le dicevo - non vedevo l’ora di venire a Trieste per vedere mia sorella. Che poi una di queste è finita in Argentina. Come tanti.
Argia B.
Io quello me lo ricordo bene. Noi siamo partiti a gennaio del 1949. Nel ’49, bisognava optare: se uno non accettava la cittadinanza jugoslava optava per la cittadinanza italiana, e poi faceva la domanda e quando arrivava l’autorizzazione per partire veniva. E noi siamo partiti a gennaio del ’49, e mi ricordo perché avevo compiuto gli anni in viaggio; io nato a gennaio avevo compiuto gli anni a gennaio, quello lì me lo ricordo. Abbiamo lasciato tutto lì, anche se non è che avevamo tanto... [Avevamo con noi], niente, la valigia di cartone, e tutto il resto c’era quello che abbiamo spedito ed è rimasto un pochettino nel Silos di Trieste. Quelle poche cose che c’erano... può darsi che ci sia anche qualche cosa di valore, non lo so! Si portava quello che si poteva, non è che si poteva portare una casa dietro!
Mario M.
Siamo partiti nel maggio del ’50. Io mi ricordo che mio papà ha venduto tutto quello che poteva racimolare, tutto quello che poteva vendere, e siamo venuti via. I meridionali avevano la valigia, e noi avevamo più o meno la stessa cosa: una valigia e una scatola con qualche cosa. E mi ricordo che eravamo - c’erano anche delle altre persone - tutti quanti nascosti su un treno merci. Nascosti, proprio con la paura che se ti prendono...Almeno, mi hanno sempre detto che se ti prendevano ti fucilavano, adesso poi non so com’è, se è vero. Avevamo uno scatolone, forse una scatola con qualcosa, perché mia sorella è riuscita a portare un orologio, un pendolo che avevamo in casa, tutto smontato. Probabilmente [mio padre] è riuscito a racimolare quelle due o tre cosette e invece che avere una valigia aveva una scatola di legno, però non avevamo nient’altro.
Elvio N.
Io parto la notte di San Martino del 1950. Io sono partito in treno insieme a qualche altra decina di persone che avevamo quella sera, come dire, il permesso di andare a Trieste. [Dietro] si poteva portare i propri effetti personali, per cui mia madre, che ha penato una vita per farsi la mobilia - a rate e una cosa e l’altra - ha dovuto disfarsene prima, così, per quattro soldi e via!
Otello S.
Io son partito nel ’50. Non [con] la prima [ondata], [perché ] il primo esodo è stato nel ’48. Siamo partiti in treno. Sono venuti a casa la milizia, han detto: questo butta via, questo butta, questo butta via. Io avevo un casino di libri, romanzi, avevo i libri che non si potevano leggere: Jack London e quei libri lì, che sotto il fascismo non si potevano leggere. Io avevo ancora quei libri là, li avevo nascosti, e poi anche diversi romanzi. Son venuti a casa e han detto: questi libri buttarli via, e han preso i loro. Puoi mettere questo, puoi mettere quello e siamo andati via con una valigia e con un cassone di roba.
Aldo S.
Io son partita dieci anni dopo, [nel 1957]. Ero minorenne - allora [la maggiore età] era a ventuno [anni] -, e mio papà era un grande invalido e non voleva andare via da casa: era già stato in America e poi son tornati, mia mamma aveva la mamma anziana e così allora diceva a me e mia sorella che quando avremmo potuto optare solo noi, [potevamo] andare dove vogliamo. E abbiamo aspettato le opzioni del ’51.
Maria Man.
[Parto] nel ’63, a giugno. Perché io faccio parte del folclore, [della] filodrammatica, anche adesso. Mio marito è via, e non ricevevo sue notizie da mesi. Nel ’63 andiamo a Rovigno, che c’era una rassegna di tutte le filodrammatiche dell’Istria. E questa recita che facevo io era intitolata Caccia notturna. Io spedisco a mio marito [una lettera] dove dicevo: ‘ndemo a Rovigno, speremo de prender el primo premio... Io gliele scrivevo le lettere, però io non ricevevo niente, nessuno scritto. Sapevo dov’era nel campo, ma non ricevevo le lettere. Andiamo a Rovigno, facciamo la filodrammatica, prendiamo il primo premio, io con un bel mazzo di fiori, il diploma, e quando scendiamo a Dignano dalla corriera, a mezzanotte, mi prelevano. Tre col tesserino, fanno vedere a tutto il gruppo e dico: si, sono io, Anita B. E io sono andata con questa gente in una Fiat di quelle tipo balilla - nera, mi ricordo - morta di paura. Poi la sera la città la vedi diversa; mai andata a Pola di sera, io! E tutto questo gruppo è andato giù, mia mamma mi aspettava - perché avevo la bambina che era nata giù, quella volta - e han detto a mia mamma: l’Anita non c’è, s’è venuti due dell’UDBA e l’han portata via. Si figuri lei mia mamma! Che da quella volta mia mamma non è stata mai più bene. E allora io arrivo all’UDBA a Pola, che sarebbe dove c’è gli affari interni, la polizia. E cominciano a interrogarmi: perché la gente va via, perché mio marito è andato via, perché tutti scappano... E che ne so io della gente? Mio marito è andato via per cercare qualcosa di meglio, ma io parlavo per mio marito, non per gli altri. Perché c’era un periodo che la gente scappava. Dal ’60 c’è tanta di quella gente che è venuta via da matti! Nel ’59-’60, e poi nel ’63 che è andato [via] mio marito, alla fine del ’62. E allora, perché e per come, io gli ho detto così. Poi mi fa, in croato: cosa vuol dire Caccia di notte? Io traduco la parola, ma loro cambiano l’inversione di notte. E allora io dico: no! Caccia notturna! E allora lì mi son incominciate ad aprire tutte le lampadine. Ho detto: ecco perché non ricevo le lettere di mio marito, perché voi le sequestrate quando arrivano. Si intitola Caccia notturna, non Caccia di notte! Allora loro collegavano che in quella caccia di notte io ero andata a Rovigno e dovevo scappare con la barca, dovevo partire. Guardi la cattiveria e la malizia che c’era! E io non ho parlato più croato, io da allora non ho più parlato croato. Se mi domandano qualcosa è logico, ma fare un dialogo non l’ho mai più fatto. E lui ha detto: parli croato. No, non so parlar più croato! Non so chi mi ha dato la forza, io guardi l’avrei ammazzato, avrei preso qualcosa e l’avrei ammazzato. E ho detto: ah, per quello non ricevo le lettere! E lui: stai attenta a quello che parli! No, è lei che deve stare attento, e non mi dia del tu a me, perché non ha mai mangiato in piatto con me! Proprio una cosa... E lui mi dice stia attenta! No! Lei stia attento, vada a prendersi l’interprete perché io il croato non lo so più, no parlo più il croato, basta! Insomma, ti mettiamo in prigione! Mi mettete in prigione ma mi darete da mangiare, perché c’ho una bambina e non può vivere la bambina da sola. Insomma, vede che non può andare avanti con me e mi dice: adesso te ne puoi andare. No, lei mi ha prelevato, e adesso mi riporta a casa. Non posso andare di qua a piedi, undici chilometri di notte all’una. Lei mi ha preso e lei mi porta, fino a casa, mi apre anche la porta. E se mi diceva ancora qualcosa non so che cosa facevo! Poi questo se ne va, lascia socchiusa la porta e passa un paesano, che guarda dentro e mi dice: ma che ti fai ti qua? Ma cosa ne so io, va a domandare ai tuoi amici cosa che faso qua, che s’è tuta matta sta gente! E se ne va. Arriva un altro e viene dentro e, parlando in italiano, mi dice: signora guardi, adesso la accompagniamo a casa - e sarà meglio che mi accompagnate a casa, parlavo in dialetto, non in italiano - e poi le ho detto: si figuri se mi dovevo scappar con la barca, lo vede cosa ho? Non ho neanche un fazzoletto, ho solo i fiori che ho preso come premio! Si, dice, l’accompagniamo a casa, scusi, e così. E allora poi mi dice: domani mattina lei vada dal komandir, che sarebbe il capo della polizia di Dignano, vada lì da lui. Si, si, facile, abita vicino a me, non c’è problema. Mi ha accompagnato a casa e sono arrivata a casa. L’indomani alle dieci vado da lui: c’è sua moglie e le dico: c’è Giovanni? Si, entra. Perché erano amici con mio papà, si ricordava. Vado dentro, mi siedo e sua moglie va via, e gli dico: belle porcate fè! Me mettere en prison perché son andà a fa resita, perché mio marì s’è via, ma cosa gh’è v’enteresa a voi che mio marì s’è andà via! S’è andà perché qua non g’hè stava ben. Punto. Domandate a lui perché . E allora lui mi fa: sa cosa Anita, quan ti ciapi la letera de tuo marito, ti me la porti che noi la leggemo. Io mi alzo: cosa g’ha dito? Ma lei s’è matto! Se mi ciapo sta lettera, lei non la vede mai più, perché questa s’è mia. E se mi non la g’ho de ciapar, che la ciapi lei, ma non che lei me la levi de le mie man! Buongiorno. E sono andata via. Da quella volta ho ricevuto le lettere.
Anita B.
Siamo partiti a gennaio del 1947. E’ successo che gli Alleati ci hanno chiesto chi voleva scegliere [di] andare via o [di] stare lì, e ci han dato questo famoso codice da scrivere su tutti i mobili che volevamo, intendevamo e speravamo di portarci appresso in Italia, ecco. Son poi arrivati, eh! Bisogna dirlo! E [a Pola] si sentiva tutto battere i chiodi di qua e di là, perché c’eran casse piene di roba con sto codice. Non mi ricordo come [la nostra roba] l’hanno portata al porto di Pola, non lo so. E invece noi siamo partiti con quello che avevamo in dosso: valigie non esistevano, [avevamo] i famosi sacchi piegati così [a fazzoletto]. E poi ci ricordiamo l’imbarco sulla Toscana, mi ricordo sti materassi con questo odore...Perchè erano materassi con le foglie di granoturco dentro, pagliericci. Un [letto] a castello che io ero l’ultimo e toccavo sul suolo del piroscafo! E io mi ricordo l’imbarco: c’erano i vecchi che ci salutavano, e noi eravamo lì, tutti insieme. E poi aspettare, aspettare, aspettare... E urla di qua e urla di là, e non so di chi, di come e di quando... Freddo, tanto freddo. Perché a Pola quando fa freddo, fa freddo... Noi tutti in pantaloni corti, siamo arrivati qui [a Pinerolo] alto così di neve! Il freddo di Pola, d’inverno... Io l’unica volta che sono andato d’inverno, ho patito da maledetto. Un freddo che ti entrava nelle ossa, perché lì c’è il borin, una piccola bora. Comunque ricordo freddo e urla.
Bruno D.
Son partita nell’ottobre del ’46, dopo che ha avuto il visto mia mamma siamo partiti. Mio papà è stato a Udine, non veniva più a Fiume, naturalmente. Mia mamma andava a trovarlo. Subito [è andato via], perché l’han mandato via dal lavoro; come sono entrati i croati, gli han detto: o con noi, o via. E lui ha detto arrivederci. E poi il direttore italiano [delle poste] di Udine gli ha detto: signor C., venga su, venga ad Udine. Poi se voleva stare a Udine poteva stare, lo han fatto scegliere, o Udine, Roma e Torino. E’ venuto col lavoro [a Torino], direttamente col trasferimento. Poi abbiamo dovuto impacchettare la roba, e il direttore [della Posta di Fiume] veniva sempre a bussare: signora C., quando va via lei? Non ancora, e mancava due giorni. L’ultima ora prima di andare via, mia mamma ha lasciato ancora le tendine della cucina, perché da lì si vedeva la finestra di dove lui provvisorio abitava. E lui diceva: questa non va via! E veniva sempre a bussare. E mia mamma diceva: questa casa me l’ha data la posta, e io non ci vado via, sto ancora qui. Poi all’ultimo momento le ha tolte [le tendine] e siamo andati via. E mi ricordo che siamo andati al portone, di faccia c’era casa Balilla - perché Fiume è tutta a scalinata, su e giù come [i posti] di mare - e allora c’era una scalinata e noi dovevamo andare giù, e io piangevo, non volevo andare. E dicevo a mia mamma: andiamo a casa! Non possiamo - diceva - papà ci aspetta a Udine. Io non volevo, e allora mi son girata - e questo me lo ricordo - e ho detto: ciao casa, io ti amo. Ho lasciato tutto lì, ho lasciato ancora un gioco, mamma torniamo indietro, e piangevo! E lei mi tirava e io avevo la mia borsa e non volevo; me lo ricordo, ho pianto per tutta la strada fino alla stazione. Alla stazione dico: mamma, senti, torniamo indietro. Non possiamo! La roba, non abbiamo potuto portare tutto via, abbiamo portato solo via la camera da letto, e basta. La cucina, la macchina da cucire, la radio, tutto è [rimasto] lì. Allora mia mamma per non lasciarli lì, li ha dati alle zie. Però mia zia - anche lei - un anno dopo son venute via, e così è andata persa. Era la macchina da cucire ancora di mia nonna. Ancora grazie che abbiamo portato la camera, qualcuno non ha portato niente. Io non mi ricordo mia mamma come ha fatto, si vede che sarà venuta a prenderla con un camion. So che poi alle Casermette è venuto un camion e ci ha riportato la roba. Avevamo proprio il nostro letto, l’armadio, la camera. E non ci hanno voluto dare più niente, solo la camera.
Fernanda C.
Eh, la vita sul Toscana era dura! Abbiam messo un giorno da Pola a Venezia, e mi ricordo che io facevo la fila, mia mamma mi lasciava, per il caffè latte, [mentre] lei andava a prendere il pane con mio fratello. [E poi ricordo l’imbarco], ore e ore su sto molo a Pola. Ore e ore lì, [con la gente che ti diceva] non perderti, stai qua. Erano tutti nervosi, anche papà e mamma, che uno andava e chiedeva cosa succede, ma dove andremo? Eh, dove andremo, boh!
Franco D.
Io sono venuta via nel ’60. Poi le cose sono migliorate, ma comunque la nostra gente hanno continuato a scappare. Mio marito è venuto via anche lui...Siamo continuati ad andare via, la gioventù ha continuato a scappare. Tanti partivano anche di notte. E di notte li prendevano alla frontiera. Tanti venivano presi, tanti andavano per mare...Tanta gioventù nostra scappava, tanta, tanta. Tra cui siam venuti anche noi: mio marito ha fatto il militare e poi è partito. [Si partiva di nascosto], col passaporto e poi non tornavi più. Io avevo mia sorella che abitava in Belgio col marito, sono andata col passaporto turistico, però poi quando sono arrivata là, ho chiesto il passaporto permanente, come lavoratrice all’estero, che allora me l’hanno rilasciato. Poi ci siamo sposati e abbiamo preso la cittadinanza italiana e siamo venuti in Italia.
Antonietta C.
Siamo partiti nel ’51, e sentivo dire che era già molto tardi. Ed i miei chiedevano a qualcuno: ma voi venite? No, non veniamo. C’era qualcuno indeciso, ancora. Mio padre non era deciso assolutamente, mia madre probabilmente non insisteva, forse lei sperava. Si sperava sempre di stare meglio, di questo anche mi ricordo. Dicevano: eh, ma vedrai, si starà meglio, ci sarà il lavoro, anche per i bambini, e invece poi si peggiorava, le cose peggioravano dopo la guerra, con Tito. E allora siam partiti, quasi soli, c’era solo qualche famiglia con noi. Era già un bel po’ che aspettavamo quel visto, si chiamava così allora. Poi è arrivato e allora ci siam messi d’accordo con queste due o tre famiglie e siam partiti al mattino presto. [Ma] solo noi quattro siamo partiti, tutti i miei parenti son rimasti. [Mi ricordo] che mio padre aveva fatto qualche cassa, aveva acquistato [dei bauli] per mettere dentro le pentole e tutte quelle cose che potevano servire subito, aveva portato anche il fucile da caccia, poi però l’aveva venduto. Mi ricordo i miei parenti, qualche amico... Però io ero felice, ma non perché andavo via da casa mia, ma perché andavo in un posto nuovo. Anche adesso mi piace girare moltissimo dappertutto, quindi mi ricordo che dicevo alle mie amiche: io vado in Italia, vado in Italia! Siamo partiti con il treno, da Pisino a Udine. Poi lì ci siamo fermati in una caserma militare.
Adriana S.
[Io e mio marito] ci siamo sposati e poi abbiamo fatto lo svincolo. Non l’opzione che è un’altra cosa, che [le opzioni] sono venute prima, questo si chiamava svincolo: c’era qualcosa da pagare per venire in Italia. E siamo venuti in Italia, siamo partiti nel 1956 [o] nel 1957. Abbiamo portato le valige e basta, solo le valige. Mi ricordo valige grandi con dentro quella poca roba e basta. Il resto è tutto rimasto lì alle persone che son rimaste in casa.
Adua Liberata P.
Nel ’49 in seguito all’opzione in Istria se rimanere o andare, i miei genitori hanno scelto di andare [via] lasciando praticamente tutto quello che avevano. La casa, tutti i beni e gli animali: erano contadini, come la maggior parte [dei montonesi]. [Siamo partiti] con un carretto e quattro stracci. Il viaggio era via terra con un carretto e poi su un camion che doveva avere masserizie di diverse famiglie e tutto quello che ci stava, ma proprio il minimo indispensabile, perché non è che si faceva un trasloco e si andava in un’altra casa, si andava sa iddio dove!
Giuseppe M.
Noi partiamo nel ’53, e arriviamo con sta nave e i nostri quattro cassoni in croce [a Trieste] perché mia nonna aveva il fratello che era a Trieste. Arrivati a Trieste mia nonna gli ha detto:
s’è morto quel porco de Stalin? E lui - che era un socialista - le ha risposto: era meglio che morissi tu! Lui era un grosso stalinista, però abitava a Trieste! [Con noi] c’era solo la nonna, che era la mamma di mio papà. Invece da parte di mia mamma sono rimasti i suoi genitori, e infatti per lei è stata molto dura. Mia mamma ha dovuto scegliere, lei non voleva venire via, non voleva. Però amava mio padre [e alla fine ha deciso di andare via]. Siamo partiti in cinque, abbiamo fatto l’opzione e siamo partiti. Mio padre ha fatto l’opzione, ma mio padre e mia madre volevano rimanere, eh! Mio padre e mia madre non avrebbero mai pensato di andare via di casa.
Rita L.
Io son partito [da Fiume] il 23 dicembre [1945]. Siamo partiti io e mia madre e siamo arrivati fino a Sappiana, che c’era ancora la resistenza dei tedeschi che mitragliavano il treno e siamo rimasti fermi. Che da Sappiana ad andare a Trieste ci sono ancora trenta chilometri, trentacinque, e mia madre con quaranta centimetri di neve mi ha portato in spalla. Mi ha portato in spalla fino a Trieste. Che io avevo le scarpette da tennis, perché se dicevamo che andavamo via succedeva [il finimondo]. Perché lei aveva chiesto il permesso per andare solo fino a Trieste, e invece poi da Trieste siamo venuti qui [a Graglia]. Siamo andati alla Post-bellica di Trieste, hanno fatto il visto, e siamo venuti a Graglia che mio papà aveva già preparato la casa, [perché ] papà è scappato prima, perché non voleva stare sotto il regime comunista.
Ilario B.
[Parto] nel ’50. Col treno. Una valigia, sul treno. Ci hanno caricato sul treno e ci hanno portato a Udine che c’era un campo di smistamento. [Abbiamo portato con noi] solo quella roba che potevi mettere nella valigia, [perché ] dovevi lasciare lì tutto, non potevi portare via quello che volevi. Qualcuno che aveva la possibilità di soldi ha contrabbandato, ma [in generale] chi aveva soldi se li era mangiati prima: se avevi dei soldi te li mangiavi durante la guerra per mangiare, e dopo la guerra per vivere, per sostenerti. Non c’era la ricchezza, nessuno ha portato via ricchezza. Hanno portato via le ricchezze quelli che son scappati prima. Io ho degli amici, anche figli di un conte polesano...Noi eravamo in caserma ma loro che son scappati via [cioè] i fascisti, gli insegnanti e compagnia bella, son stati trattati con i ponti d’oro, come i nostri quando sono andati là. Cioè, chi regna vive e chi no la prende nel sedere, è la regola!
Giuliano K.
Penso di essere partito nel ’50. Nel 1950-1951, perché ho iniziato la seconda elementare, ed è quella l’unica scuola che ho ripetuto in Italia, perché per la storia dell’esodo, due mesi tondi tondi li perdi: lì eravamo in seconda poco più delle aste, qui erano già più avanti! La seconda elementare l’ho ripetuta, ed ero già a Tortona. [Sono partito] con un camion pieno di masserizie fino a Trieste. Poi a Trieste siamo scesi, ci hanno sbaraccato lì, e poi ho un vuoto tremendo: io di Udine non mi ricordo [niente] , mi ricordo da Tortona in poi.
Guerrino B.
Io parto da Fiume il 26 ottobre del 1950. [Partiamo] io, il papà e la mamma. Dove c’era la ferrovia [la linea Trieste-Fiume] son venuti tutto il mio vicinato a salutarmi. E’ stato proprio una [tristezza]... Perché io non volevo venire in Italia, le dico la verità, ero troppo attaccato alla mia terra. Anzi, quando ero al campo profughi che vedevo qualche nave jugoslava, dovevano sempre tenermi d’occhio, perché io a tutti i costi [avrei voluto prenderla]. Io ero attaccato a mia nonna Ida, una cosa pazzesca, e io volevo ritornare. Non mi piaceva, come dire, io sognavo sempre la mia terra, le mie pietre, quel mio mare.
Elio H.
Io parto [nel 1958] in treno da Rovigno e vado a Trieste. Da Trieste vado poi a Udine, al campo profughi. Come soldi davano non mi ricordo quanto che si poteva portare e poi venivano i doganieri a casa, a vedere nei bauli. Io avevo un mucchio di romanzi e me li hanno non presi, ma proprio buttati in un sacco e buttati in acqua. Insomma, quello che gli sembrava a loro non lasciavano, ma come biancheria e materassi lasciavano. Che poi è andato a finire tutto a Trieste, al porto [e son diventati] stracci. Sono riuscita [a nascondere delle cose], come no. Mia mamma - poverina - mi aveva dato un po’ di soldi, ed ero riuscita a cucirli nei pantaloni di mio marito, perché - adesso è diverso - una volta i pantaloni avevano la fodera qua [davanti], e allora piano, piano ho cucito e son riuscita a portare quel che mia mamma mi aveva dato. Perché io con tre figli non ho fatto la fame - mio marito lavorava sodo e aveva anche una bella paga, lavorava in mare- ma quello si, son riuscita: sa, proprio scemi [non eravamo]!
Gina P.
Da Valle sono andato via nel ’46, a dicembre. I primi di tutti, siam venuti via quattro famiglie. Io ero a Fiume per nascondere che dovevo partire. [Sono andato a Fiume] Per lavorare, [per] far finta che non dovevamo andare via. Perché mio padre aveva paura che l’arrestassero se si va via. E mi dice: te fai finta che non dobbiamo andare via e vai a Fiume a lavorare con loro. E dopo un po’ - dopo otto giorni- mi hanno telefonato e mi han detto: vieni subito a casa che la nonna sta male. Perché eravamo già d’accordo che la parola d’ordine era quella. Allora ho preso il treno, e ho messo una notte ad arrivare a Valle, [che sono] cento chilometri [da Fiume]: dalla sera che son partito, sono arrivato la sera dopo. Son cento chilometri! E di là siam partiti con la corriera da Valle, le donne, noi al mattino in bicicletta, quattro uomini. E gli altri quattro son partiti con la corriera da Valle e ci siam trovati a Pola: eravamo quattro famiglie. E siamo arrivati a Pola, e non so neanche dove ci han portato, tanto piccolo che ero, diciamo, perché non pensavo neanche a ste cose. [Ci han portato] in un caseggiato, ed eravamo dieci-dodici famiglie tra Valle e Dignano. E così siamo rimasti là fino al secondo scaglione della nave, che ci hanno portato a Venezia. Siamo partiti nel ’47, qualche giorno prima di febbraio, col Toscana, con il secondo scaglione e poi siamo arrivati a Venezia.
Pietro S.
[Sono partito] gli ultimi di marzo i primi di aprile del ’47. Sono partito [in bicicletta] con una mia sorella e invece mio papà, mia mamma e un’altra mia sorella, sono partiti di notte - alle due di notte mi ricordo- a piedi fino a Dignano. Lì hanno preso il treno - treno bestiame - e sono arrivati a Pola. Lì a Pola c’era gli americani e allora lì c’era la prima assistenza: davano da mangiare, da vestire, da dormire, davano tutto. Poi lì a Pola siamo stati, non mi ricordo più quanti giorni - pochi giorni però - e poi gli americani ci hanno spedito a Trieste con la nave. Sono riuscito a portare nella sella , sa che c’è il tubo, ecco, in quel tubo sono riuscito a infilare il certificato catastale della mia proprietà. Poi quando sono arrivato a Pola l’ho tirato fuori, sono riuscito a tirarlo fuori, rompendo la bicicletta, s’intende! Sono riuscito a tirarlo fuori e questo atto catastale ci è servito per dimostrare alle autorità italiane che noi eravamo proprietari.
Giovanni R.
Noi siamo venuti via nel ’47, nel gennaio del ’47. [Siamo partiti] da Pola, [però] siamo andati via un po’ alla volta, mica tutta la famiglia insieme! Io mi ricordo solo che siamo andati con papà in bicicletta, che era freddo, [era] gennaio. Eravamo sulla canna della bicicletta io e mia sorellina e siamo andati a Pola, che c’era la nave che ci aspettava. Poi dopo tre o quattro giorni è venuta la mamma con mio fratello e mia sorella che erano più grandi, [ma] non si poteva andare [via] tutti insieme. Ma non solo noi, tantissime famiglie, moltissime famiglie da tutte le parti: da Fiume, da Spalato, da Zara, da tutte quelle parti lì siamo venuti via. Da Dignano, da Valle, da Pola, da Parenzo e da tutte le parti. Ci aspettavano per portarci tutti via.
Aldina P.
[Con noi abbiamo portato] il pianoforte che suonava mia sorella, e pochissima altra roba, [e cioè] la stanza da letto dei miei genitori, qualche piccolo mobile...Ma non avevamo neanche mica tanta roba da portare via, non c’erano le case guarnite come le abbiamo adesso. Comunque, fondamentalmente, abbiamo portato via la stanza da letto dei miei genitori e il pianoforte.
Gianfranco M.
Parto che mia madre mi dice: partiamo domani mattina e siamo partiti sempre dal porto di Pola, sulla Toscana: eravamo il quinto scaglione, se non mi sbaglio, o il quarto. Ci siamo trovati con mia madre dentro la nave, dove portavano le merci, con una coperta, buttati per terra a dormire. Abbiamo fatto tre giorni [di viaggio] per arrivare a Venezia, perché ogni tanto dicevano: stiamo facendo attenzione alle mine, perché [c’] erano le mine nel golfo, quindi piano piano, nebbia, un casino, una paura della Madonna! Siamo arrivati a Venezia [e] poi mi son trovato sul treno che mi han portato a Torino: c’era già il treno pronto [per Torino], come quelli che andavano in Germania, la stessa roba. La destinazione era Torino: ti mettevano un affare [sul petto] come quelli che erano in campo di concentramento, una scritta, Torino-Casermette. Arriviamo a Torino, camion e Casermette.
Luigi B.
Le motivazioni
Perché [siamo andati via]? Perché non essendo croata, ed essendo che entrava sto Tito, una dittatura che ti proibiva di essere... Non eri più te, dovevi essere croato, dovevi ragionare come loro e fare la strada che dicevano loro. Mio papà l’aveva detto: mi son fiumano, son italiano e io con voi non voglio [avere] niente a che fare! Questa è una storia che dura da una vita, che volete entrare [a Fiume]. Siete entrati, siete riusciti? Bene! E mio papà diceva: qua rischiamo. Perché anche alla posta lo tiranneggiavano per quel po’ che è restato, poi l’hanno sbattuto via senza una lira in tasca. Poi è riuscito a recuperare a Udine dal direttore italiano. Essere italiani per loro era un odio, era un odio per gli italiani. E lo dicevano pure. [Ad esempio una mia zia], zia Irma, quando sono andata una volta a salutarla prima di andare via, [c’era un croato] che ci ha detto cosa faceva e dove andava. Lei era anziana, poverina, e le ha risposto in croato, perché era l’unica che sapeva qualche parola. E poi le ho detto: zia, cosa ha detto quello lì? Ha detto che io che sono vecchia e te che sei una bambina, potremmo anche morire, che tanto non serviamo a stare qui a Fiume, che tanto i fiumani s’è gente stronza! Lei me lo ha detto così, quello che aveva scoperto che aveva detto lui. [Noi siamo andati via] per sta tirannia, perché non si poteva. Mio papà non poteva stare senza lavoro, prima di tutto. E poi ci tiranneggiavano: volevano prendere il nostro alloggio, e dove andavamo? Mia mamma non lavorava, io ero piccola, come si faceva? Porci italiani ci hanno detto, scrivilo! Sai cosa facevano i ragazzi, i ragazzini più grandi? Quando hanno messo la foto di Tito, che dovevamo riverire in croato - io non so, perché non sapevo il croato -, loro la strappavano e le guardie le correvano dietro. Ma le facevano correre, i ragazzi correvano, neh! Una volta erano sopra un tetto, e mente attaccavano quei manifesti, gli han tirato giù non so che cosa in testa - non so se acqua o che cosa - e non son riusciti a prenderli. Era proprio ste cose... I ragazzi poi son sfegatati a quell’età lì, sai tredici, quattordici anni, che dovevano andare via e non li lasciavano andare. Han strappato tutti i manifesti, e tanti sono finiti in galera. E dimmi se li han visti uscire? Gli stessi amici han detto: non l’ho mai più visto. Tirannia era. Un tiranno contro un popolo inerme. Che oramai il popolo aveva perso, perché devi tiranneggiarlo?
Fernanda C.
[Durante la prima ondata] erano andati via, tutti i ricchi, tutti nomi famosi che poi sono venuti anche qui in Italia. [Era la popolazione] più abbiente, perché temevano che Tito confiscasse tutto e che non potessero lavorare più come avevano lavorato. A vendere, comprare, negozi, di tutto un po’. Infatti io quando leggo su qualche articolo, o anche sui libri di queste paure della gente che partiva di notte con le masserizie che scappavano, io non mi [ritrovo]. Non so, o [era] tutta gente benestante che aveva paura che venisse loro confiscato tutto, oppure paura dei partigiani... Sopra casa nostra a Lucento, abitava una signora che aveva una panetteria grandissima ad Orsera: loro erano ricchi, proprio. Infatti chiamava mia madre e le diceva: venga su, venga a vedere che lenzuola che avevamo, di lino, asciugamani tutti ricamati, Cioè, noi non ce l’avevamo, eravamo una famiglia modesta, ma non avevamo tutto quello che avevano loro. Loro anche i piatti avevano portato, anche i mobili, anche i mobili erano belli, cioè, era gente ricca. E poi c’erano anche dei contadini lì vicino a mia madre che possedevano tante terre. E anche quelli son venuti via. Per cui non c’era soltanto la paura. C’era senz’altro la paura di non possedere più. Quindi secondo me il denaro [e] la perdita dei beni ha influito molto, senz’altro.
Adriana S.
Le maestre [ad esempio] son le prime che se ne sono andate, perché erano cattive con i ragazzi sloveni, perché li bocciavano, magari meritatamente, ma potevano anche aver un po’ più di attenzione. Quell’uno o due che son rimasti, son poi stati portati via dai partigiani. Uno l’hanno ucciso, che era impiegato non ricordo se in Posta o in stabilimento, e un altro non so neanche che ruolo aveva, era friulano e l’han portato via. E quello si pensava proprio che portandolo via come l’avevano portato via aveva fatto la spia o qualcosa del genere, senz’altro. E uno l’avevano ucciso, che era una persona mite e tutti dicevano: che strano che l’abbiano ucciso, per quello che lo conosceva la gente nei dintorni. E dicono, se è vero o no [non lo so] che gli han tagliato un dito per togliergli la fede. Vero, non vero? Questo invece, questo signore qui non si è mai saputo dove è andato a finire. Ma il podestà, i dirigenti dello stabilimento [dell’Eternit], il direttore, il vicedirettore, i responsabili e il caposquadra che erano italiani sono andati via subito : del mio paese, specialmente prima di noi, prima della fine della guerra sono andati via quelli che erano più dalla parte dei fascisti.
Romana B.
[Siamo andati via] per la mancanza di prospettive per il futuro. Perché , io vedo oggi cosa succede. Se un uomo di trent’anni o di quarant’anni perde il lavoro, e non ha il lavoro, e la sua casa magari non ce l’ha e gli dicono che deve andare in un’altra, o deve dividerla con altri, solo se ha una stanza o due in più. Ed è un fenomeno che vorrei discutere questo, perché è un fenomeno che si sottovaluta. Ricordiamoci che nella Russia, in cinquant’anni di comunismo, in un alloggio grande stavano anche due o tre famiglie e loro era questo il sistema che volevano imporre a delle famiglie abituate ad avere la casa di sotto, di sopra le camere e sopra il solaio. Per loro era tre posizioni da dare alle famiglie. Ora, non erano le famiglie dei tuoi vicini, o le famiglie di quello lì che ti è simpatico o antipatico ma che parla come te e che mangia come te, ma erano famiglie di gente che non aveva niente al loro paese, che non era tornata. Erano quelli che erano venuti a cacciarci via, e non potevano tornare a casa loro perché avevano una casa, un lavoro o un’attività. Non avevano niente, quindi si fermavano nei nostri paesi e si impossessavano delle nostre cose. Quindi già gli dovevi cedere buona parte della casa. Ma non solo, non avendo mai lavorato nella loro vita, non potevano portare in campagna gli animali e accudirli, e lavarli e pulirli e dargli da mangiare: non erano capaci. Un motopeschereccio non lo sapevano pilotare, guidare, non sapevano come buttare le reti e come raccoglierle, non sapevano come alimentare le viti e quando fare il raccolto, dargli zolfo e farlo diventare vino. Questo lo dico perché negli anni successivi al nostro esodo, in Istria per vent’anni praticamente l’Istria è stata disabitata, deserta e abbandonata. Se noi andiamo oggi in Istria, vediamo che da quindici anni a questa parte, sono state rimesse le colture delle viti, le colture degli ulivi e tutto quanto. E diciamo meno male, perché è una terra bellissima, è la nostra terra, anche se oggi è abitata da altri, resta sempre così. E’ una terra che merita, avere lo sviluppo: chi oggi pianta le viti, farà del buon vino, come sempre, chi oggi ha degli ulivi farà dell’ottimo olio. Quindi, quella volta, vedendoti privato di tutto ciò... Mio nonno aveva il forno, gli hanno tolto il forno e sti due vecchietti di cosa dovevano vivere? Gli han portato via anche i sacchi di farina. Anche i tedeschi gli avevan portato via i sacchi della farina per fare il pane, non glieli hanno portati via solo i titini, sia ben chiaro! Qui non si tratta di calcare la mano nei confronti di un sistema o di un regime, ma di atti e di gesti che vengono fatti.
Fulvio A.
Io penso che... Insomma, era cambiato completamente il sistema... Lavorare, lavorare in privato e tutte quelle cose lì... Non è che si poteva lavorare in privato, non si lavorava in privato, c’era tutte cooperative: uno doveva lavorare se aveva qualche cosa per la cooperativa, e poi gli davano qualche cosa. Ma noi mancando la prima fonte di guadagno, il capofamiglia - che non c’era - noi che cosa facevamo? Quattro maschi e mia mamma... Non c’era nessuna via di uscita, non c’è n’era. Cosa si poteva fare? Aspettare che diventassimo grandi per fare cosa? Non so, i pescatori, di nuovo. Tant’è vero che mio fratello aveva fatto un pochettino anche lui il pescatore, per un breve periodo dopo che era mancato mio papà, però... Cioè l’unica speranza era quella, però non c’erano vie di sostegno che uno poteva creare delle famiglie o cercare di migliorare la propria posizione, perché non c’erano i presupposti proprio. E allora si andava, e si è seguita la massa. Poi, oltretutto, avevamo dei parenti che erano già venuti in Italia: il fratello di mia mamma, la sorella di mia mamma che era andata a Udine - che loro erano partiti nel ’43, quando c’è stato le prime cose, erano partiti - e allora non c’era motivo di restare.
Mario M.
Allora, una delle ultime cose che mio padre mi ha detto prima di perdere la ragione - e mi dispiace di non averlo intervistato prima, però è così, ogni volta che mio padre parlava di esodo [gli dicevo] adesso basta -, una delle cose più chiare è stata: ah, siamo andati via per darla retta a quelli di Pola, ma dovevamo rimanere. Invece, andando più indietro nel tempo, ricordo l’astio che aveva verso queste persone che secondo lui erano pezzenti. E una delle cose che più gli era rimasta dentro [era] che per esempio venivano a controllare quello che avevano. E allora lui che fossero andati col manico di una scopa ad aprire la botte e a vedere quanto vino [c’]era dentro, era una cosa inconcepibile. Però, voglio dire, parlando anche con altre persone e non solo con mio padre mi diceva: ma scusa, c’era fame, se non controllavano quelli che avevano qualcosa cosa facevi?
Mario B.
[Siamo partiti] nel 1948, era di settembre. Perché mio padre fa: stare lì, questi ci chiedono di lavorare per loro, e cosa faccio qui? Cosa le do da mangiare ai cinque figli? E poi non stava a questa lingua che noi dovevamo imparare: io, italiano devo imparare e andare sotto di loro? Ma come, mi prendono tutto e cosa faccio qui? E poi: ma come, sono italiano e devo cambiare cittadinanza e parlare il croato? No, da Tito non ci stiamo! Ma subito. Tutti quelli che sono andati non han mai pensato di [ritornare]. Si, magari se cambiava, se ritorna italiana si, altroché . Se no no, Sotto di loro no! Come, da essere padroni ad andare sotto uno che ti comanda! Andare come una cooperativa, perché loro prendevano tutto e lui doveva lavorare per loro. E’ per quello anche. Loro prendevano: quello che è mio è tuo, era così. E mio padre: no, io non ci sto, io sono italiano e devo optare per quello lì? No, no, io sono italiano e rimango italiano. E ha deciso di partire.
Maria Mn.
I miei sono venuti via nella primavera nel ’49. Non mi hanno raccontato nulla, [mi han detto] che son venuti via e basta. Il loro problema era di sopravvivere, di venire via da quel terrore che c’era lì, e non gli importava sapere se hanno ragione o torto. Io, per sentito dire, mi ricordo che dicevano che quando sono arrivati i compagni - i drusi [termine di uso corrente diffusa tra la popolazione italiana per indicare gli jugoslavi] - i terreni di proprietà venivano utilizzati da tutti. Tutti dovevano lavorare insieme, chiaramente, perché l’ideologia comunista era quella. Se può essere considerata giusta come ideologia, in realtà la gente non lavora con solidarietà se devono produrre, guadagnare e mangiare. E’ questo che è difficile fare accettare. Quindi andavano tutti a lavorare nei campi, c’era chi guadagnava e chi dormiva, e dovevano alla fine dividere tutti assieme, e il proprietario del terreno non ci guadagnava assolutamente niente, anzi, a volte pativa più la fame degli altri. Ecco, questi discorsi io mi sentivo dire a volte da nonni che avevano abbandonato [Valle]. Perché là non si poteva più vivere in questa maniera, ti portavano via tutto, avevi le cose in casa e non erano più tue. E allora han detto: piuttosto che star qua andremo via. E poi loro sono andati via perché loro non esistevano più come italiani, dovevano farsi drusi, e loro non volevano. Loro erano italiani, mio padre e tutti [quanti]. Anche io: quando mio marito per scherzo mi dice te sei jugoslava... Non mi dire che sono jugoslava per favore, ma proprio mi arrabbio in una maniera incredibile! E’ più forte di me, la mia italianità io proprio me la sento.
Ginevra B.
Mio padre si sentiva italiano. Era già due anni che si era messo sta divisa e non so, non ho mai capito il perché . E non ho mai avuto tempo di chiederlo il perché si è messo sta divisa, penso quando era la Repubblica di Salò, nel ’43, perché fino al ’43 lavorava alla Sapri, e quindi non ho mai avuto tempo di chiederglielo, perché è morto poi giovane. Ma penso perché lui aveva paura che... Noi dicevamo e tutti gli dicevano: vai via te, lascia qui la famiglia, tanto alla famiglia nessuno gli farà niente. E mia madre diceva: no, io non sto qui senza marito, lascio i figli qua e il marito che va via, no, no. E lui diceva: no, non si sa mai cosa gli potranno fare, per ritorcesi, non si capisce. Sai, durante la guerra... Quelli del posto no, perché quelli del posto che erano tutti nel bosco, perchè erano tutti partigiani, gli avevan garantito che non succedeva niente: anche se stai tu qua non succede niente, noi ti conosciamo, non hai mai fatto niente. Ma la gente che veniva da fuori... Che poi è successo così, perché quelli del posto [non hanno mai fatto nulla]. Cioè, se non avevano proprio odio o astio contro qualcuno perché gli aveva fatto un torto, se no è stata tutta gente che è arrivata poi dall’interno, che è venuta dalla montagne, dalla Serbia. E quelli non è che stavano a guardare in faccia se avevi fatto o non avevi fatto, avevi la divisa, eri della milizia e ti avrebbero ucciso. Ecco, questo è il motivo per cui siamo andati via. Beh, questa era la paura, sai, spirito di conservazione, diciamo. Però, si pensava di andare via e di ritornare. A parte che avevamo la nonna che abitava nella stessa casa, abbiamo lasciato tutto in mano sua, però c’era paura per la propria incolumità.
Antonio V.
[E’ partita] solo la nostra famiglia, solo noi. Anche perché noi avevamo intenzione di optare per l’Italia, gli altri se ne fregavano, dicevano: beh, se arrivano gli altri pazienza. Noi siamo andati via convinti di tornare poi. Una delle ragioni per cui non abbiamo preso niente è perché noi eravam convinti un giorno di tornare, non c’era ragione, perché lì attorno ci volevan tutti bene. [Però] siccome mio padre era stato trasferito a Fiume perché arrivavano i partigiani, lui ha detto: voglio mica che mi ammazzino la famiglia! Poi noi avevamo un’identità italiana più di altri che abitavano intorno a noi. Ed è stato quello, soprattutto quello.
Sergio V.
Beh, [ci ha fatto partire] la spinta della paura, si sa. Anche perché non ci hanno fatto del male, però tormentavano un po’ mia mamma che c’erano i miei fratelli via. Eh, la tormentavano un po’. A mio papà no, perché lui sapeva rispondere e una volta è finito nelle grane e mi ricordo che mi mamma una sera mi ha mandato a cercarlo. Erano che giocavano alle bocce nel locale di mio cognato, e uno si è avvicinato a mio papà e - sa com’è nei paesi che bevono, una cosa e un’altra- le ha detto: cosa fai tu qua, bacolo? Perché noi la polizia civile, cioè quelli arruolati dagli anglo-americani, siccome erano vestiti di nero, al mio paese li chiamavano i bacoli, che sarebbero gli scarafaggi. Lì c’era una guardia popolare - una guardia di Tito, insomma - che ha sentito questo e ha fermato mio papà e gli ha chiesto perché questo signore gli diceva così. E mio papà gli ha risposto in slavo, perché mio papà per fortuna sapeva lo slavo; lo aveva imparato con i servi del nonno, che aveva dei ragazzi che facevano i vaccai e mio papà con loro ha imparato lo slavo. E mio papà le ha parlato in slavo a questo poliziotto, a questa guardia popolare, e questo paesano si è risentito e ha detto a mio papà: perché parli così che io non capisco? E mio papà òle ha detto: d’ora in avanti dovremo parlare sempre così, e dovrai impararlo anche tu. Però lo hanno portato poi al comando, e lì è venuta fuori una storia che il mio bisnonno aveva tenuto a cresima uno... Eh, insomma, la cosa si è risolta poi così, però si, quella sera mia mamma si è spaventata, perché mi ricordo - ero ragazzina - che mi aveva mandato, al buio, a cercarlo, e non c’era. E allora mi aveva mandato dal komandir a vedere e poi, piano piano, mi hanno fatto sedere fuori e poi dopo siamo venuti a casa. [Mia mamma] la stuzzicavano le vicine di casa, perché le dicevano: tu c’hai i figli a Pola, tu così, tu colà... Mia mamma era una timida, non era capace di difendersi, e lei diceva: che colpa ne ho io se i miei figli han voluto [andare a Pola], mica li posso trattenere. Se han voluto andare... [Siamo andati via] un po’ per paura, e poi anche il fatto che cambiavano tutte le regole. Vedevo mia mamma: le dava fastidio, ammiravo mio papà perché era un tipo che sapeva rispondere, mentre mia mamma mi dava fastidio alle volte. Perché dicevo: mamma, accidenti, ti dicono tutto così, ma un ‘altra volta chiudi la porta del cortile così non ti diranno più niente. [Queste cose] nella mia testa le dicevo. Si, cambiava tutto il sistema, perché cominciavano a dire che non ci sarà più la religione - e mia mamma era una donna di chiesa, lei tutte le messe, prime e seconde funzioni e ancora se ce ne fosse stato lei andava -, la gente si è spaventata un po’ per quelle cose anche. Poi anche per le campagne: incominciavano a dire che bisognava mettere tutto per le cooperative e allora uno che aveva tanta roba diceva: possibile, io c’ho la roba dei miei vecchi che non ha niente, e le cooperative... Cioè non entravano ancora nell’ottica che forse con le cooperative si poteva lavorare lo stesso. Cioè, la gente era spaventata anche per quello. Tutte queste cause. Però, sinceramente, non hanno fatto mai niente. Si, dicevano, davano la battuta, mia mamma pativa perché erano i suoi figli - è ovvio -, però non è mai successo niente. Io con le ragazzine lì intorno si giocava, si stava insieme lo stesso, come se non fosse mai successo niente.
Argia B.
[La gente] andava via perché la politica era brutta. Han cominciato a dire: allora, la gente tutti quei che g’ha campagne, deve lavorare per la cooperativa - perché hanno fatto le cooperative, facevano il piano quinquennale -, quelli che avevano pecore [anche]: tutto era per la cooperativa. E allora, io che lavoravo, dovevo dare tutto a te e io tenermi solo magari due uova in più, che poi la gente ha detto no, non vado a lavorar per loro, gli lascio tutto. Addirittura gente che s’è n’è andata lasciando tutto: appena ammazzato il maiale lasciando tutto appeso, proprio per andar proprio via. Perché dicevano: io con tutto il mio devo venire da te con una pentolina che mi dai un mestolo di minestra? Allora quella era la paura. E quando son venuti via, convintissimi erano la maggior parte che dopo quindici giorni se ne sarebbero ritornati a casa, ritornati indietro. Invece non è stato così ma erano convinti, quando sono andati via, che dopo poco sarebbero ritornati. Che qualcuno è partito anche con la chiave di casa. [Il motivo è stato] economico, [poi c’era] la paura, la politica che io proprietario di tanto devo dar tutto a te. Io che proprietario di tutto devo chiedere a te il permesso de mangiare un pezzo di pane. E quello era la paura. Mi ricordo una qui di Gallesano, che il fratello - ora è morto - era militare nel battaglione di Pino Budicin, lo avrà sentito. Allora era andato in Slovenia come militare, e lui ha detto a sua mamma: mama, andeve a far le opzioni, perché se no mi scampo via de qua, e anche se ei me masa non vengo en prison. E allora il papà gli ha detto: ma no, qualcosa cambierà, ma non tuto. Papà, se ti voti, se no mi scampo, va a far le opzioni. E allora hanno optato e han lasciato mucche, vacche - perché eran contadini - e tutto. Per dire, ecco, quella era la paura, che la gente aveva paura. E la paura la faceva lo stesso paesano, quelli che si sono convertiti in titini. [Faceva paura] la politica che dimostravano. Per esempio, io che ero più povero, ti comandavo a te che sei più ricco; tu devi venire sotto di me, non io a te. E allora quello, la gente che aveva negozi e tutto... Devo dar tutto? No! Allora prima di metterli in mano a loro hanno detto: lasciamo tutto, e sarà quel che dio volerà, e così son venuti via.
Anita B.
Ma, io credo che le cause dovrebbero essere secondo me infinite. Il problema era solo di vedere quali momenti erano decisivi, principali e decisivi per produrre questa decisione, questa volontà di andare e di restare. Allora, ci fu intanto un esodo nel ’43, diciamolo subito: subito dopo la caduta del fascismo se ne andarono subito i fascisti più incalliti e quelli che erano più coperti di responsabilità criminali, senz’altro. Per cui rimasero i più puliti, già nel ’43. Nel ’45, nel ’46, ’47, ’48, fino al ’54, se ne andarono senz’altro tutti quelli che sono stati colpiti in un modo o nell’altro, ferocemente, sia nei beni - nelle proprietà, perché son state nazionalizzate -, sia negli affetti, perché potevano avere qualche infoibato. Quelli là se ne sono andati senz’altro per quei motivi là. Poi ce ne saranno sicuro un bel numero che se ne sono andati perché difficilmente avrebbero accettato che quella propria terra diventasse jugoslava: loro erano italiani, dovevano vivere in terra italiana, con gli italiani punto e basta, e quindi tanto valeva unirsi al proprio popolo. E via di questo passo, fino ad arrivare alle cause singolari, proprio private.
Claudio D.
Siam partiti tutti, si. Come famiglia noi tutti, poi alcuni parenti sono rimasti. Il nucleo familiare che era di sei persone - in quanto mio nonno era morto da poco -, l’alternativa era - perché già si vivevano le pressioni titine o comunque jugoslave -, l’alternativa era... La casa, perché avevano già detto: quella casa lì per voi è troppo grande, la dividiamo in tre. A voi viene una parte, un’altra parte a un’altra famiglia croata, e la terza parte a una famiglia croata che noi mettiamo dentro. Poi le terre: ovviamente, non era previsto che uno avesse terre sue e neanche la casa, perché la casa era dello stato, e quindi l’alternativa era o vivere lì, perdere tutto e non sapere cosa fare, oppure partire. In quel momento era forte la propaganda italiana, ma l’obiettivo dei miei non era fermarsi in Italia. Specialmente dopo essere arrivati in Italia e dopo aver vissuto non bene per un certo periodo. [Allora] han fatto domanda per andare negli Stati Uniti, per cui l’esodo è stato un atto quasi obbligatorio, perché c’erano vessazioni di tutti i tipi. Arrivati in Italia, beh, il fatto che ti mettano in una caserma in mezzo ai campi...Perché oggi passi in via Guido Reni, in via Veglia, ma lì non c’era nulla, era un ghetto - come io l’ho sempre definito -, per cui la gente stava lì viveva come poteva vivere, e c’erano migliaia di persone che sono arrivate lì - per fortuna, dico io, altrimenti dura sarebbe stata - e l’inserimento in Piemonte e in Torino non è stato facile.
Sergio M.
[Noi siamo andati via] per l’italianità. Perché , guardi, cantavano in slavo [dicendo] dove andate adesso, e questo lo capivo io. Qualche druso [cantava].
Gina R.
Mio papà è andato via per paura. Siamo andati via tutta la famiglia insieme. Solo mio fratello no, perché mio fratello quando è scappato via dai tedeschi è andato in Italia, e lui non era venuto a casa, era già in Italia al campo [profughi] di Mantova.
Giovanni R.
Ma, [la gente] se n’è andata perché non gli piaceva quel tipo di vita, non gli piaceva quel tipo di regime. Il partito comunista non gli piaceva. Noi, essendo nati sotto l’Italia - i nostri genitori, non io - c’era il papà che era il capo e dice: no, non mi piace questo tipo di vita. E poi, parlando chiaramente, abbiamo visto i risultati: li infoibavano quelli che erano italiani, li hanno infoibati tutti. Poi la paura... Chi si è salvato pace all’anima sua e si è salvato, e chi no è stato infoibato. La paura c’entrava per andare via, e certo! Perché i nostri genitori e quelli che siamo venuti via non gli piaceva quel regime lì. La storia è quella.
Renato L.
Quando c’è stata la famosa risoluzione del Cominform, lì si è cominciato le angherie, la prepotenza. Perché quando lei vede che cominciano a buttare in acqua qua e là, cominciano a picchiare quell’altro, è brutto. Perché loro dicevano: o sei con noi, o sei contro di noi. E allora lì è diventata una confusione, perché quando vedi che picchiano quello, bastonano quell’altro, la gente cosa fa? Prende paura e va via, scappa. Ad esempio io... Mio fratello era cominformista, perché lui credeva nel comunismo, e poi ha sbagliato. Ad esempio, si dipendeva dall’Unione Sovietica, ed era un assurdo, perché noi dell’Unione Sovietica non conoscevamo un tubo, però l’idea era quella. E allora, praticamente Tito diceva: o sei con noi o sei contro di noi. Non puoi stare estraneo. E di lì è cominciato le angherie tremende, da matti. Hanno perseguitato. Le dico un esempio. Uno che era con me partigiano che forse lo avrà sentito nominare, il famoso Spartaco - che poi è morto in prigione - ... Ad esempio io una sera vado al ballo, arriva lui e un altro, il famoso Cio, e [mi dicono] te sei un traditore. Ma, disgraziati! Eravamo insieme! Traditore! Mi cominciano a malmenare e mi buttano fuori; mi buttano letteralmente fuori dal ballo. Poi un’altra volta mi mandano a chiamare in ufficio e con la pistola messa sul tavolo mi dicono: te non vai via, te devi restare qua. E cosa posso dire? Te mi imponi quello che vuoi te, e allora no, mi dispiace. In questo caso vado via. A malincuore, perché io non volevo andare via dal mio paese, ma vado via. Perché avevo un bel lavoro, stavo bene, però loro avevano tutta l’intenzione di imporre alla minoranza italiana, che poi nell’Istria erano la maggioranza, anche se qualcuno dice che la maggioranza era slava... Loro volevano che noi facciamo le valigie e che ce ne andiamo fuori, e infatti siamo andati fuori. Gliel’ho detto, [noi siamo partiti] perché ci son state delle angherie. Magari per motivi politici, perché mio fratello era cominformista ed era già nemico loro, e di conseguenza pagavamo anche noi con le angherie le conseguenze come famiglia. E allora noi siamo stati obbligati ad andare via.
Aldo S.
Eh, da quello che ho sentito[a farci partire] è stato per il fatto di questi comunisti, che avevano paura tutti di questi comunisti. Era uno spauracchio, sono partiti per un fatto politico. E poi anche tutti i parenti venivano via, e loro [i miei genitori] sarebbero rimasti praticamente da soli - c’è solo uno zio che si è rimasto di là -, perché la maggior parte dei parenti sono venuti via. E lo hanno fatto anche per quello, per non restare da soli.
Irene V.
[Siamo partiti] perché non volevamo essere comunisti, posso gridarlo?! Non volevamo essere comunisti! Eh, cavolo! Volevamo essere italiani, noi ci sentivamo [italiani]. Guarda, io ti dirò una cosa: che nessun italiano sente il patriottismo quanto lo sentiamo noi, nessunissimo. E ti dirò un’altra cosa: anni fa quando Trieste dopo cinquant’anni è tornata all’Italia, era andato Fini a Trieste, e l’ha detto in televisione: io non ho mai visto tante bandiere italiane già dal Veneto prima di arrivare a Trieste, pensa! Hai capito? Noi ci sentiamo italiani, c’è niente da fare. Più di tutti voi, più di tutti voi! Ce lo sentiamo dentro questo, capito? Ci hanno portato via tutto, ci hanno sbattuti fuori. Non è come il meridionale che lascia la sua casa e viene a lavorare qui, ma poi ha la sua casetta laggiù e va giù quando vuole; noi no, hai capito? Ci hanno proprio mandato via di brutto. Dalla nostra terra ci hanno mandato via. Figurati!
Livia B.
[Perchè siamo partiti?] Ma, intanto ci si sentiva condizionati al massimo, almeno io, e parlo per me, non vedevo l’ora di andarmene via. Dico, sarà quel che sarà, tra il campo profughi e il cavallo, ma almeno potrò dire crepa se mi veniva da dire crepa, capisci? Poi niente, era diventato asfissiante il clima politico, nel senso cha a un certo punto, tutto doveva essere organizzato come voleva il partito. Non c’era una vita sociale autonoma, venivi inquadrato e basta. Il lavoro, si, andava bene, però dovevi stare attento a cosa leggevi. Non potevi dire niente, perché a un certo punto incontravi chi riferiva ed era finita. Ma, voglio dire, nella Russia hanno fatto così, non è che ci sia stato molto diverso, eh!
Otello S.
[Siamo partiti] per un vivere diverso e per le idee diverse. Ma, più che le idee - a parte il fascismo e il comunismo -, eravamo tutti cristiani, religiosi, e lì hanno cominciato a chiudere [le chiese]. Per i nostri vecchi, forse, è stato anche quello, e cioè il fatto di chiudere le chiese, di quasi nasconderti se andavi a messa. Mancava tutto: al mattino alle quattro o alle tre dovevi andare a metterti in fila per prendere qualcosa, non c’era niente. E poi il fatto di cominciare questo attrito, questo odio per gli italiani, e perché ? Perché ? Tante volte ci penso, e dico: avessimo avuto ventidue o ventitre anni prima di andare via forse le nostre idee sarebbero state più chiare, più mature. Eravamo troppo giovani e quella vita non ci apparteneva, non andava bene per noi. Avevamo già sofferto, avevamo avuto un’infanzia di disagio e di miseria e pensavamo qualcosa di più, perché per venire via senza sapere né cosa, né come... Perché chi è andato via che aveva un appoggio è andato via - io dico sempre -ha fatto benissimo, pur forse non avendo completamente le idee di andare via. Poi [c’è stato] anche questo succedere di cose, capitate anche tante assieme, senza nemmeno poterti [rendere conto]... Hai cominciato a vedere gli amici se ne vanno, i parenti se ne vanno, tutti se ne vanno e infatti io i miei li ho sparsi un po’ dappertutto. E anche mio marito, da Dignano i suoi sono andati via subito nel ’47, e buona parte si è poi fermata a Monfalcone. Come da Monfalcone poi son venuti giù, che poi poveracci hanno fatto una brutta fine. Cioè, è tutto l’insieme: fascisti non lo eravamo, comunisti non lo eravamo, eravamo cattolici. Almeno la mia famiglia e la famiglia di mio marito.
Maria G.
[Siamo partiti] per non stare sotto loro! [Noi siamo] italiani, e stiamo con loro che parlavano croato e facevano finta di non sapere l’italiano? E mio zio diceva: parla l’italiano, che lo sai! Eh, guardi!
Maria D.
Allora, mia mamma non era fascista, e mia mamma non amava Tito, proprio non lo amava. Mia mamma non amava il comunismo. Lei diceva sempre: tu non sai i danni che portano i due estremi, e questo vale per il fascismo e per il comunismo. Così diceva mia mamma. Lei l’ideologia comunista non le piaceva, non le piaceva il fascismo, e credeva molto nell’avverarsi in Italia di una cosa più pulita, e forse è proprio per quello che è andata via. Lei cercava non il benessere solo economico, ma il benessere di pace, di non avere più il contrasto di guerra. Ecco, è quello che mia mamma cercava, però poi non l’ha [trovato].
Nirvana D.
[Siamo andati via] forse per star meglio...Anche per paura, perché sotto il regime di Tito non è che si stava bene, a sentir loro [i miei genitori]... Perché era un dittatore, pretendeva troppo dalla gente. Cioè, han cercato di vivere meglio, diciamo. Tutto lì.
Giuseppe S.
[Siamo partiti] perché eravamo italiani. Italiani sfegatati noi diciamo, e non vedevano via di scampo, perché c’era veramente da aver paura di quello che ci aspettava. Guardi che [uno] non doveva avere delle colpe o aver fatto del male, bastava che un vicino di casa dica all’UDBA o all’OZNA - non mi ricordo più se era prima uno o poi l’altro - guarda quello lì, così e così e basta: di notte ti venivano a prendere, e non si sapeva più dove eri, né vivo né morto. Questo succedeva.
Maria Man.
A me l’hanno venduta in questa maniera: dicevano che se andando sotto Tito non sapevano come andava a finire, venivano tutti quanti padroni loro [gli slavi] e loro non avevano più niente, e quel po’ che avevi te lo prendeva tutto lo stato e tu non eri più padrone di niente. E penso che sia stato quello [il motivo]: loro avevano paura che stare sotto di loro si stesse male, e allora hanno pensato bene di tagliare la corda e di venire via. A me così l’hanno venduta.
Elvio N.
E’ [stata] proprio la paura a farci andare [via]: era il regime, proprio questo regime di terrore che faceva andar via. La paura [li ha fatti andare via], loro volevano la libertà, non potevano stare con la paura addosso. Bisogna poter esprimere le proprie idee e le proprie opinioni, e lì non le esprimevi, perché ? Perché ti prendevano e ti portavano via. C’erano i vicini di casa, e di punto in bianco vedevi che quello non c’era più. Lei si immagini una persona che è continuamente sotto stress, che non puoi fare niente che hai paura che ti chiamino - ma perché facevano così - l’OZNA. Cioè, la gente aveva paura, [avevano] creato questo regime di terrore. Che era un terrore reale. Che poi come dice la moda [sia] diventato un terrore psicologico mi va bene, però il terrore psicologico, comunque, ha la sua influenza, perché quando tu hai paura... Certo che non potevano con i mitra sparare a tutti, però [si arrivava al punto che] mancava uno, mancava l’altro, il vicino di casa [ti chiedevi] dove l’hanno portato, giravi e avevi sempre questa paura, chissà cosa dico e cosa faccio. Cioè, non vivi più, una situazione invivibile. I miei genitori mi hanno trasmesso questo clima di terrore e di diffidenza: non sapevi dove andavi, nei negozi se parlavi con gli amici non sapevi... Il silenzio, ecco, il silenzio e questa grossa angoscia. Quindi [il discorso] era venire qui [in Italia] ed avere la libertà, in modo che lì [in Istria] si sistemino le cose e noi torneremo a casa nostra felici e contenti.
Rita L.
Io penso [che le persone siano partite] non per grandi motivi, [ma] perché andava [via] uno, andava anche l’altro, uno tirava l’altro. C’erano quelli che non volevano stare sotto quel dominio e giustamente, per carità, [andavano via]. Perché nel mirino erano sempre quelli - come dire - che avevano più campagna e più potere, erano più nel mirino. Quelli, proprio, sono andati via dalla disperazione. Però anche quelli poveri, sono andati via perché uno tirava l’altro, uno tirava l’altro.
Antonietta C.
Io tante volte ho chiesto a mia madre il perché siamo andati via. Beh, non me l’ha mai saputo dire! Purtroppo mio padre è morto che io avevo sedici anni, e queste domande non ho mai potuto fargliele. Mia madre non ha mai spiegato...Non è stata forse una decisione [tutta loro], lo ha forse deciso più mia sorella in funzione di suo fidanzato, che poi è diventato suo marito. Loro erano giovani e non volevano stare lì. Mia madre è venuta via non dico controvoglia, ma con parecchio sforzo più dei giovani. Ed è rimasto lì suo fratello, che era quattro anni più vecchio.
Gianfranco M.
[Siamo andati via] perché stavamo stretti sotto questo regime. Gli italiani, la maggior parte, ci sentivamo molto stretti, nel senso che [vedevamo] questo grande cambiamento negli uffici, nella quotidianità [dove] erano sempre più loro che avanzavano e tu perdevi [peso]... Io personalmente mi sentivo stretta, [più che altro dal punto di vista] identitario...Perché noi eravamo contadini e i miei fratelli sono ancora contadini, quindi non è che cambiava molto. Quando mio papà nel ’52 – dopo quattro anni – è uscito dalla cooperativa, noi abbiamo ripreso – con fatica – le nostre proprietà, che abbiam perso tutto il bestiame, tutti gli attrezzi. Ha perso tutto mio papà, tutto. Perché la cooperativa voleva dire dare tutto quello che avevi a quello che era come te, a quello che come te si metteva dentro. [Il sistema delle cooperative] è andato bene per chi non aveva niente, per chi non aveva del suo. Ma due o tre come mio papà che hanno messo tutto, hanno perso tutto. [C’]era un certo obbligo [di entrare in cooperativa], ti forzavano. Ecco anche perché la gente scappava. E qui devo colpevolizzare mio papà devo dirlo, perché la realtà è una sola e bisogna ammetterla. Tu dovevi andare in cooperativa. Quindi questo ha forzato tanta gente ad andare via; tanta gente nostra è andata via per questo motivo, e perché li facevano andare a fare l’autostrada, a fare la ferrovia, perché li facevano andare in queste cooperative: tanta gente è scappata anche per questo. Tanta, tantissima.
Antonietta C.
C’era la dittatura fascista prima e la dittatura comunista dopo. E io, naturalmente, la dittatura fascista non l’ho provata, me l’hanno raccontata, ma la dittatura comunista l’ho provata: ecco perché poi mio papà essendo italiano è venuto via. [E’ venuto via] anche perché avevano un criterio, avevano un sistema di vita che era slavo, che era importato e che per noi era diverso dal modo di essere nostro. E allora abbiam detto: no, noi vogliamo l’altro modo, il modo - per dire - occidentale e non quello del regime, che ci imponeva determinate situazioni e determinate cose. [Ricordo che] ai tempi le radio non c’erano, c’era la galena, ed era un apparecchietto così piccolo con dei fili, eran le prime radio. E cercavi le stazioni - grr,grr che non si riusciva mai a prendere - e mio papà cercava le stazioni italiane. E allora quando lui arrivava a casa dal lavoro diceva: ah, ah, galena! E andava a cercare notizie in italiano, perché c’era una [stazione] radio che trasmetteva da Pescara o da Ancona [e diceva]: italiani, vi chiama la patria! E c’era dopo la guerra questa stazione che trasmetteva e mio papà era sempre attaccato a questa galena, perché voleva continuare l’italianità. Anche perché lui non si è [adattato, cioè] noi non abbiamo preso come altri [la cosa di dire]: beh, sono arrivati i nuovi che ci governano e ci adattiamo al nuovo sistema, ci aggiustiamo. Per i miei non era così, perché lui voleva lavorare, voleva produrre, per darci economicamente un avvenire. Mio padre sapeva - tramite anche gli epistolari - che in Italia chi veniva via trovava lavoro facilmente, trovava sistemazione e allora, come dire, per noi c’era l’italianità alla base di venir via. Perché i miei si sentivano italiani.
Rino P.
Nel ’45 è entrata la Jugoslavia, il partito comunista. Non le dico che essere italiani, e stare sotto di loro, era una cosa pazzesca e nessuno voleva stare sotto Tito. Io siccome che avevo il fidanzato, avevo una scelta dura da fare, ma dura: ero figlia unica, e dovevo lasciare la mamma, oppure lasciare il fidanzato. Non è come al giorno d’oggi che [si] cambia, una volta quando avevi l’anello era una cosa seria, capisce? Allora, insomma, dopo tanto, dopo tante lacrime, ho fatto le carte per venire in Italia. [Quindi] il motivo era che mio marito con sua mamma e mio cognato andavano via [e io] o mi lasciavo, o partivo. Si può dire che sono andata via per amore. Se no io sarei rimasta anche lì, perché a me piace tanto.
Eufemia M.
[Siamo partiti] perché non si poteva resistere più, né con la gente del paese, né con nessuno. Ti maltrattavano, se facevi una cosa che non andava bene a loro, ti venivano, ti prendevano e ti potevano buttare nella foiba. Ad esempio, mia mamma la volevano buttare nella foiba per il fatto che non voleva la fotografia di Tito in casa. E non è che era Tito che le diceva di fare questo, lo facevano i medesimi paesani, quelli che erano del partito. E non si poteva vivere più in quella maniera, come si faceva? E han deciso allora di venire. E poi c’era l’Italia che ci chiamava, perché eravamo italiani. [Ci chiamava] perché quella volta anche qua non è che era tanto le acque belle! Ci chiamavano perché sapevano che noi potevamo fare una votazione e salvare l’Italia, quella volta. C’è stato odio personale, odio delle famiglie, odio fra paesani, [c’è stato] di tutto, un odio tremendo. [Un odio] di paese, perché non è che Tito abbia detto te devi trattare male questo o devi trattare male quello. Erano i medesimi paesani che si facevano del male uno con l’altro. E’ venuto tutto proprio per odio, odio, odio.
Aldina P.
Noi siamo andati via di là per la questione che da padroni siamo diventati schiavi, e allora ai miei non gli piaceva quella cosa lì. Noi eravamo proprietari: eravamo proprietari di [piantagioni] di tabacco a Rovigno e a Valle, mio padre era un socio della Fabbrica Tabacchi di Rovigno e di Valle, poi avevamo tanta campagna, tanti boschi. Praticamente noi eravamo proprietari, e quando sono arrivati quelli di Tito non si era più proprietari, perché hanno espropriato tutto, si è passati schiavi. Che al mattino bisognava trovarsi tutti in piazza - i contadini si trovavano tutti in piazza -, e poi man mano questo gruppo andava a lavorare qua, questo gruppo andava là, e allora praticamente si era schiavi. E la gente si è rotta le scatole e sono andati via.
Giovanni R.
Il motivo [per cui siamo partiti] è questo, [e cioè] che si comandava un po’ di terra e volevano già darle metà della roba a loro, fare le parti, le cooperative. E allora mio padre dice: schiavi eravamo prima sotto il fascismo - che lui non ha mai preso la tessera, non l’ha mai voluta, non siamo mai andati in colonia, eravamo sei fratelli, non siamo mai riusciti ad andare in colonia perché mio padre non ha mai preso la tessera del fascismo- e allora dice, fascista non sono, comunista neanche e allora andiamo all’avventura! E siamo andati all’avventura. Il motivo è stato la terra, e dietro di noi son venuti poi tutti, perché dice: se quei poveretti sono andati via, vuol dire che qualche cosa c’è. Perché ci conoscevamo tutti nel paese, uno a uno.
Pietro S.
Eravamo trattati da fascisti, da porci. [C’era] odio, ci odiavano. Magari sarà stato anche reciproco, perché anche io se vedevo un croato che mi maltratta [non è che ero contenta]. Cose queste - che mi dicevano mio papà e mia mamma - quando c’era Francesco Giuseppe non succedevano. Poi obbligavano i ragazzi ad andare nelle scuole croate, cioè avevano la scuola italiana ma era d’obbligo andare anche nella scuola croata così che piano, piano cercavo di eliminare quella italiana. Poi io son venuta via... Io son venuta via per il trattamento, perché per loro eravamo tutti fascisti, porci fascisti. Loro venivano da padroni, da trionfatori perché avevano vinto la guerra. L’Istria l’hanno ceduta perché ? Perché la Jugoslavia ha vinto la guerra e l’Italia l’ha persa, è vero? E’ stata così. Quello che noi abbiamo sofferto, era che eravamo a casa nostra e non eravamo padroni del nostra casa. Ed eravamo tutti fascisti [per loro], ma di quei fascisti che ammazzavano: non di quei fascisti che uno aveva la tessera perché gli hanno dato il lavoro. C’era odio proprio, che poi è diventato un odio personale: quello che ti credevi amico una volta, era diventato nemico.
Gina P.
Io penso che la maggioranza di noi ha fatto questa scelta [di partire] non per motivi politici. Qualcuno che era coinvolto col regime fascista è scappato, indubbiamente. Ci sono questi eh! Io ho conosciuto qualcuno, che me lo diceva mia mamma e mi ha detto: questo è scappato, combinazione era del paese suo, però... Lei me lo diceva, io non so come faceva a saperlo mia mamma, però in campo mi parlava di questo.
Guerrino B.
[Perché siamo venuti via?] Prima di tutto perché sa, quando finisce le guerre si fanno anche i trattati: mio papà ha iniziato a lavorare all’azienda nel 1924, e quando il Tito gli dice guarda che io ti posso pagare la pensione dal giorno che ho preso possesso di queste terre... Uno per quello lì, e poi uno perché mia mamma a tutti i costi voleva venire via. Mia mamma più che mio papà, mia mamma. Se non vai via te - queste parole me le ricordo - prendo il figlio [e vado via]. Perché anche mio papà era attaccato ai suoi fratelli e tutte quelle cose lì. Se non vieni via te, prendo l’Elio e vengo via con lui. E dopo son venuti via, anche papà ha capito, perché dice: io non posso regalare a nessuno ventuno anni di servizio, dal ’24 al ’45, è vero? Dice, cosa faccio? Regalerebbe lei venticinque anni di servizio?
Elio H.
[Siamo andati via] per la nazionalità italiana. Quella è stata la prima cosa. E poi anche perché vedevi certe cose che non andavano. Perché poi quando è venuto Tito, tutte le guardie erano padreterni, sembravano tutto loro, capito? E ti sentivi proprio una nullità. E’ stato anche quello, ti sentivi una nullità. Era un mondo nuovo che non l’accettavamo, lì non lo accettavamo.
Olivia M.
[Partire] è stata una scelta, perché non potevi vivere con quel sistema lì, era un sistema di paura, di fifa, di terrore. Poi la gente nostra è stata mescolata con la gente che veniva [dall’interno], anche brava gente a cercare lavoro sulla costa perché c’era fame nera. E non potevi integrarti, allora non potevi integrarti.
Giuliano K.
Mio papà era calabrese: lui è stato trasferito nel ’38 e c’era l’Italia lì nel ’38. Poi si è sposato con mia madre che era di là e lui non sarebbe venuto via, perché lui faceva il capostazione, ed era ben voluto da tutti.. Invece mia madre ha insistito parecchio per andare [via], perché lei non si trovava: parlava sempre dell’Italia. Per cui è mia madre che ha voluto venire [via], perché diceva [che] non ci sarà avvenire per i figli. Lei voleva venirsene via per i figli, perché non c’era possibilità di [crescita]. [Mia mamma] non vedeva nessuna possibilità , [non vedeva] un futuro per i figli. E poi mia madre, nonostante non abbia mai avuto nessun motivo, con gli slavi ce l’aveva, diceva sempre: sti comunisti... Ecco, [diceva] sti comunisti!
Adriana S.
Vado via col passaporto turistico, quella volta, [nel 1961]. Da Portole vado fino a Trieste, perché a Trieste avevo tutti i parenti. Son venuto a Trieste [dove c’era] mio cugino che veniva sempre in Istria [e mi diceva] vieni lì che poi faremo, che poi vedremo. Eh, il motivo [che mi ha fatto partire]... L’Italia era il motivo, sempre! La guardavamo sempre come la nostra patria, è inutile star lì [a discutere]! Noi siamo andati via per l’Italia... E poi [siamo andati via] perché vedevamo che in Italia il vitto era migliore, vedevamo quei ragazzi che appena andavano via si compravano le Vespe, venivano con le Vespe ben vestiti e ben sistemati. Poi il lavoro c’era, c’era lavoro [in Italia] tanto che volevi e noi eravamo abituati a lavorare, lavorare pesante in campagna e non ci dava fastidio lavorare nelle fognature o negli scavi dove che c’era da lavorare. Fare i muratori, i manovali, su quello non avevamo paura! E poi anche lavorare in fabbrica: quello per noi era un gioco!
Guido C.
Due sono i motivi [per i quali siamo partiti]. Principalmente [mia madre] si sentiva molto, molto nazionalista italiana, si sentiva italiana. E poi c’era anche l’altro motivo, valido anche quello, e cioè il futuro a questi figli. [Diceva]: qui lui [cioè mio padre] è via, non mi passa niente, non c’erano leggi che c’erano gli alimenti e cose del genere, [e quindi diceva] cosa faccio io in un paese italiano che poco per volta sta diventando jugoslavo, dove devo dimenticare l’italiano, in più con due figli e sono già emarginata così? E bom...E’ [stata] una scelta di vita principalmente, più che politica. Assolutamente non era politica. La parola giusta nel caso di mia mamma è ritorno a dove c’è l’Italia: hanno spostato il confine e io vado di là.
Guerrino B.
[Dal mio paese] sono andati via [soltanto in due], in quei primi anni. E invece dopo, piano, piano, hanno incominciato a lasciare sempre più, ma già si parla del 1959-1960. Tanto dopo sono venuti via da noi. Cosa che c’era [cosa succedeva] a Rovigno, Pola,
beh, quei là s’è andai via subito, nel ’47. Son andai via con le navi, con ste robe lì. Ma tutti quanti lo sapevamo che andavo via.
Speremo che cambia, dicevamo, speremo che cambia, speremo che vanno via , speremo che torni [l’Italia], perché ogni tanto se leggeva sul giornale de Italia, che forse passerà sotto l’Italia. [C’era sempre la speranza], si, sempre! Mio cognato, lui era del ’19 ora è morto, ha detto: io ho sempre speranza che tornerà Italia. Si pensava quello. Quando sono andati a optare, si pensava che basterebbe optare e che percentuale, si vince percentuale e che vince e ritorna di nuovo l’Italia. E invece no.
Guido C.
Anche io ho chiesto [ai miei genitori] perché [siamo andati via]. [Mi hanno risposto che sono partiti] perché sono arrivati i comunisti, i titini, i quali erano contro la religione, contro l’ordine precedente costituito e quindi con anche negli occhi la violenza che aveva preceduto tutto questo. C’era poi una comunità oramai disgregata, e quindi si sarebbero trovati in minoranza in un posto in cui sono nati e dove la maggioranza erano della comunità italiana, la maggioranza, non il 100%. E quindi la scelta era una scelta dettata visceralmente, io penso, da motivi politici e religiosi. Politici e religiosi perché il fascismo aveva seminato certe cose, la chiesa altrettanto e quindi sono state queste due motivazioni che hanno superato di gran lunga l’interesse economico, vale a dire il patrimonio, la casa, l’attività, le mucche e il loro essere contadini. E difatti io ho chiesto diverse volte a mia madre: ma perché [siete partiti] , potevate restare lì’, aspettavate un po’ e comunque avevate una casa e i vostri animali. No! Perché lì era cambiato tutto, bisognava consegnare il raccolto alla cooperativa, cominciavano a cambiare le regole della proprietà privata; insomma, un cambiamento così radicale loro non potevano affrontarlo, non se la sentivano, non erano in grado e non eran capaci. [Un altro elemento è stato poi che] in quel momento c’è stato anche un effetto panico totale [che ha contribuito a prendere la decisione di partire]: tu parti, tu vai via? Si, vado via anche io. E allora cosa facciamo qua? Qua van via tutti...Anche perché l’arrivo di questi nuovi abitanti, di questi nuovi occupanti dell’Istria, creava un grosso disagio di socializzazione, anche perché li vedevano ostili. Cioè non era una popolazione che arrivava lì e si inseriva in un tessuto che prevedeva questo, assolutamente. Era un arrivo con violenza, un arrivo imposto, traumatico.
Giuseppe M.
Dalla parte di mio marito erano [una famiglia] di contadini che vivevano con la terra, e lui non sopportava che gli portassero via la terra le cooperative, [perché ] dovevano tutto dare nelle cooperative, e lui quello non lo sopportava, e allora [ha deciso di andare via]. [Poi] lui non sopportava gli jugoslavi, la mentalità di loro. Non li sopportava, lui aveva la sua mentalità, lui doveva scappare. Non perché aveva fame, lui non è per questo che è venuto via. Lui è venuto via per i comunisti, non sopportava il comunismo, parliamoci chiaro! Lui non poteva sopportare loro, diceva che doveva andare via. [Non sopportava] il comunismo come modo di vita: le cooperative e tutto quello, a lui non gli andava in testa, non [lo] sopportava. E io che l’ho sposato sono andata [con lui] e l’ho seguito. Quello era il motivo, ecco.
Adua Liberata P.
Volevamo andare in Italia, perché per noi l’Italia era la salvezza. I croati noi non li volevamo, non volevamo stare più là. Mia mamma voleva venire via di più [di noi], perché vedeva che mio papà era maltrattato. Poi mia mamma ha voluto venire via per noi figli, e [poi siamo partiti] perché partivano tutti e partivamo anche noi, una massa. Partivano tutti e uno dice: ma come, vanno tutti via, la città è tutta distrutta e cosa faremo qua? Tutti siamo andati via, quasi. Son rimasti in pochi, e quei pochi che son rimasti si sono adattati e poi sono arrivati tutti gli altri e hanno occupato le case nostre. Case nostre! E poi se ne sono impossessati.
Alma M.
Prima di tutto il terrore che non potevi esprimerti, non potevi fare niente, non avevi [libertà], poi non si trovava da mangiare: eravamo terrorizzati da questa gente. Che tra questi qui c’era gente che non sapeva né leggere né scrivere e se gli eri antipatico ti prendeva e ti spaccava tutto, ti portavano via, comandavano loro. Loro erano gli eroi che avevano vinto la guerra... Il terrore, si, si, [è stato] il terrore [a farci partire].
Franco S.
Mio papà è venuto via per noi [figli], perché chi è rimasto lì? I comunisti! Chi era comunista è rimasto, principalmente, ed è poi rimasto chi aveva dei terreni: quelli son rimasti. Ma i cittadini andavano via. Perché poi ci han detto, che noi mandavamo i pacchi giù alla nonna che non avevan niente, un fracco di soldi hanno speso mio padre e mia madre, erano poi loro che ci dicevano sta roba. E poi venivano maltrattati: allora, se io, cittadino, rimanevo a Pola, non trovavi posto di lavoro, perché se c’era un posto e si presentava uno slavo e un italiano, dicevano loro, il posto era per lo slavo, mica per l’italiano.
Franco D.
[I nostri genitori] conoscevano benissimo la situazione, senz’altro... Non c’erano i mezzi di informazione che ci sono adesso, però la voce popolo correva: si sentiva dalle campagne cosa combinavano i titini, era una paura matta! [Quindi a farci veni via è stata] la paura, si, si. La paura e non il voler essere italiani. Perché , parliamoci chiaro, mio papà e anche mio suocero, hanno fatto mezze scuole austro-ungariche e mezze scuole italiane e non so che pensieri e che cultura avessero in testa, però... Si, si, la paura. Io e mio fratello non abbiamo patito granché , ma i miei... Io penso a mio padre, dire vado o non vado, ho due bambini piccoli, e con tutto quello che succedeva... Penso che i miei genitori abbiano pensato così.
Bruno D.
[A far partire la gente] secondo me, di base, è stata la paura di quello che sentivi in funzione di quello che i cosiddetti titini stavano facendo nella parte da Zara in su. Come le voci dei fascisti che circolavano di quello che facevano e di quello che poi effettivamente hanno fatto. Perciò lì secondo me la bilancia a seconda di che parte tira il vento pesa. Io avevo una zia che era titina, era delle brigate, perciò la vedevamo: lei ogni tanto veniva a Pola e poi ripartiva. Loro, di primo acchito... Cioè per loro, di primo acchito, tutti quelli che erano italiani erano fascisti, perciò li facevi fuori. O eri comunista, cioè i primi comunisti, e ti schieravi dalla loro parte - e tanti sappiamo la fine che hanno fatto, cioè i 3.000 [di Monfalcone] che sono andati [a Goli Otok] - e perciò io penso che lì ognuno tira l’acqua al suo mulino. Io so comunque di racconti di gente che dicono che loro hanno fatto cose sporche, come penso abbiano fatto anche abbastanza cose sporche gli altri. Perciò non saprei a chi dare la colpa. Io la colpa grossa la do ai nostri politici che sono stati incapaci di puntare i piedi e di fermare tutto quanto a Fiume invece che farli arrivare fino a Trieste. Che se poi qualcuno non diceva basta arrivavano fino a Padova o a Venezia! A farci andare via è stata, per una parte, la paura. Poi mio papà era un democristiano di suo, perciò lui non è mai stato fascista. Era un democristiano di suo, perciò lui era anticomunista. Suo fratello era comunista, gli altri due fratelli e infatti loro sono rimasti là. Altri due fratelli [invece] son venuti via: uno è andato in Australia e invece noi siam venuti qua in Italia. Cioè, di principio era l’ideologia politica: o sei legato a loro, o non sei legato a loro. Noi anche, di seconda motivazione, eravamo nati italiani, ed è difficile per uno che è nato in una nazione dire da domani mattina sono di un’altra nazione. Non so quanto [sia possibile]: poi c’è chi ritiene a queste cose e chi ci tiene meno. Questa è una mia idea, naturalmente, anche perché , sa [la Jugoslavia] era un mondo nuovo, ma era anche - e questa è una cosa che non bisognerebbe dire - un mondo di barbari, nel senso che era un mondo di ignoranza che veniva su allo sbaraglio. Difatti li hanno trascinati da tutta la Jugoslavia e del resto noi sappiamo che la Jugoslavia o la ex Jugoslavia è una confluenza di uno scarto d’Europa. Cioè, di base, uno è venuto via un 25% per idea politica e un 75% perché era italiano.
Franco V.
Siamo andati via, credo, per la libertà di vivere come si viveva prima. E poi il fatto di vedere che uno se ne va, l’altro se ne va, l’altro se ne va ti fa dire: ma io sto sbagliando a stare qua!
Assunta Z.
[Siamo partiti da Fiume nel 1948. Siamo andati via] sicuramente perché [i miei genitori] si sentivano italiani, mio padre soprattutto. Lui proprio detestava la situazione che si era creata. Loro hanno aspettato fino a quando hanno potuto optare, perché mi sembra che hanno optato solo nel ’48. Perché prima non potevano. [Mio] zio Odino è scappato, invece no, chi è partito nel ’48 è partito in seguito a una scelta, a un’opzione e quindi è partito regolarmente in treno, con i suoi mobili e le sue cose.
Adriana S.
[Siamo andati via perché ] mio padre non voleva stare sotto il regime comunista. Solo quello. Perché lui c’aveva il lavoro, gli davano anche il lavoro, lo tenevano, però lui sotto il regime comunista non ci voleva stare.
Ilario B.
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Esuli giuliano-dalmati prima della partenza da Zara
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Donne sul molo del porto di Zara
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Partenze per l'Italia sul molo di Zara
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