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I Centri Raccolta Profughi Agg

Arrivati in Italia portando con sé il minimo indispensabile, gli esuli giuliano-dalmati si trovano a vivere nella condizione di profughi, senza essere in grado, nella maggior parte dei casi, di provvedere autonomamente alla loro sopravvivenza. La sistemazione di questa enorme massa di persone, "cui occorre provvedere a dare un tetto" unitamente "a tutta l'assistenza igienica, sanitaria, alimentare e morale" [ASCT, Fondo ECA], diventa quindi per gli apparati governativi italiani un problema concreto da affrontare con una certa urgenza e risolvere nel minor tempo possibile. La soluzione individuata per garantire una rapida ed adeguata accoglienza, è quella di affidare la sistemazione dei profughi giuliano-dalmati a campi e centri di raccolta. Strutture che all'inizio del 1947 - come si legge in una relazione redatta dalla direttrice del centro di raccolta delle Casermette di Borgo San Paolo di Torino - ammontano a "92 unità, dislocate in 43 città italiane" [ASCT, Fondo ECA], per poi aumentare negli anni successivi, quando sono almeno 109 i campi profughi attivi sull'intero territorio nazionale. Al loro interno i profughi giuliano-dalmati si trovano a convivere con altre categorie di persone come "i prigionieri di guerra che fanno ritorno in patria, i profughi stranieri, gli italiani rimpatriati dalle ex colonie africane e dalle isole greche" [C. Di Sante, 2008], i sinistrati e gli sfollati di guerra e i cittadini più indigenti e bisognosi. Per poter ospitare un così vasto numero di persone, la autorità italiane riutilizzano strutture in disuso già esistenti come ospedali, caserme, scuole, conventi, colonie, stabilimenti industriali dimessi, ma anche ex campi di concentramento e prigionia già usati dai nazifascisti per l'internamento dei civili e dei prigionieri di guerra (è il caso, ad esempio, della Risiera di San Sabba a Trieste, del campo di Fossoli a pochi chilometri da Modena, di quello di Laterina in provincia di Arezzo e di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza).

Nei campi, all'interno dei quali la permanenza si protrae per diversi anni, i profughi giuliano dalmati arrivano dopo il compimento di una trafila ben collaudata che dopo una prima e breve sosta nei locali del Silos di Trieste, un edificio di grandi dimensioni ubicato a pochi passi dalla stazione ferroviaria ed utilizzato in passato come deposito del grano, prevede il trasferimento a Udine dove, tra il 1947 e il 1960 [E. Varutti, 2007] è attivo in via Pradamano un centro di smistamento dal quale, dopo una sosta di pochi giorni, i profughi partono per il campo di destinazione, assegnato non in base alle preferenze dei singoli individui ma alle disponibilità ricettive delle varie strutture della penisola.

Indipendentemente dalla loro localizzazione sul territorio nazionale, il denominatore comune caratterizzante tutti i centri di raccolta, la cui gestione è affidata al Ministero dell'Interno e a quello dell'Assistenza Post-Bellica che operano in totale collaborazione con le autorità comunali e gli Enti Comunali di Assistenza, sembra essere la precarietà che caratterizza le condizioni di vita all'interno di tali strutture, dove interi nuclei familiari vivono in box di pochi metri quadrati separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da semplici barriere di compensato. Una promiscuità che porta, quasi automaticamente, i profughi a vivere in una condizione di costante incertezza, scandita dall'affiorare di una serie di gravi disagi legati non solo agli ambienti malsani e alle precarie condizioni igieniche, ma anche alla la mancanza pressoché totale di spazi intimi e personali con la conseguente condivisione obbligata degli spazi abitativi, e all'isolamento dal contesto cittadino, dal momento che i campi al cui interno sorgono asili nido e scuole elementari, refettori e cucine, infermerie e biblioteche, esercizi commerciali e luoghi di svago, finiscono per essere un mondo a parte, totalmente estraneo al resto della città, dove la quotidianità è scandita da ritmi, tempi e regole proprie.

Arrivati in Italia portando con sé il minimo indispensabile, gli esuli giuliano-dalmati si trovano a vivere nella condizione di profughi, senza essere in grado, nella maggior parte dei casi, di provvedere autonomamente alla loro sopravvivenza. La sistemazione di questa enorme massa di persone, "cui occorre provvedere a dare un tetto" unitamente "a tutta l'assistenza igienica, sanitaria, alimentare e morale" [ASCT, Fondo ECA], diventa quindi per gli apparati governativi italiani un problema concreto da affrontare con una certa urgenza e risolvere nel minor tempo possibile. La soluzione individuata per garantire una rapida ed adeguata accoglienza, è quella di affidare la sistemazione dei profughi giuliano-dalmati a campi e centri di raccolta. Strutture che all'inizio del 1947 - come si legge in una relazione redatta dalla direttrice del centro di raccolta delle Casermette di Borgo San Paolo di Torino - ammontano a "92 unità, dislocate in 43 città italiane" [ASCT, Fondo ECA], per poi aumentare negli anni successivi, quando sono almeno 109 i campi profughi attivi sull'intero territorio nazionale. Al loro interno i profughi giuliano-dalmati si trovano a convivere con altre categorie di persone come "i prigionieri di guerra che fanno ritorno in patria, i profughi stranieri, gli italiani rimpatriati dalle ex colonie africane e dalle isole greche" [C. Di Sante, 2008], i sinistrati e gli sfollati di guerra e i cittadini più indigenti e bisognosi. Per poter ospitare un così vasto numero di persone, la autorità italiane riutilizzano strutture in disuso già esistenti come ospedali, caserme, scuole, conventi, colonie, stabilimenti industriali dimessi, ma anche ex campi di concentramento e prigionia già usati dai nazifascisti per l'internamento dei civili e dei prigionieri di guerra (è il caso, ad esempio, della Risiera di San Sabba a Trieste, del campo di Fossoli a pochi chilometri da Modena, di quello di Laterina in provincia di Arezzo e di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza).

Nei campi, all'interno dei quali la permanenza si protrae per diversi anni (nel 1963 sono 8.493 i profughi ospitati nei quindici centri ancora attivi) i profughi giuliano dalmati arrivano dopo il compimento di una trafila ben collaudata che dopo una prima e breve sosta nei locali del Silos di Trieste, un edificio di grandi dimensioni ubicato a pochi passi dalla stazione ferroviaria ed utilizzato in passato come deposito del grano, prevede il trasferimento a Udine dove, tra il 1947 e il 1960 [E. Varutti, 2007] è attivo in via Pradamano un centro di smistamento dal quale, dopo una sosta di pochi giorni, i profughi partono per il campo di destinazione, assegnato non in base alle preferenze dei singoli individui ma alle disponibilità ricettive delle varie strutture della penisola.

Indipendentemente dalla loro localizzazione sul territorio nazionale, il denominatore comune caratterizzante tutti i centri di raccolta, la cui gestione è affidata al Ministero dell'Interno e a quello dell'Assistenza Post-Bellica che operano in totale collaborazione con le autorità comunali e gli Enti Comunali di Assistenza, sembra essere la precarietà che caratterizza le condizioni di vita all'interno di tali strutture, dove interi nuclei familiari vivono in box di pochi metri quadrati separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da semplici barriere di compensato. Una promiscuità che porta, quasi automaticamente, i profughi a vivere in una condizione di costante incertezza, scandita dall'affiorare di una serie di gravi disagi legati non solo agli ambienti malsani e alle precarie condizioni igieniche, ma anche alla la mancanza pressoché totale di spazi intimi e personali con la conseguente condivisione obbligata degli spazi abitativi, e all'isolamento dal contesto cittadino, dal momento che i campi al cui interno sorgono asili nido e scuole elementari, refettori e cucine, infermerie e biblioteche, esercizi commerciali e luoghi di svago, finiscono per essere un mondo a parte, totalmente estraneo al resto della città, dove la quotidianità è scandita da ritmi, tempi e regole proprie.

Testimonianze

La vita nei Campi Profughi

[A Cinecittà] ci sono andato recentemente. L'anno scorso si poteva anche visitare Cinecittà: ... [Leggi tutto]
[A Cinecittà] ci sono andato recentemente. L'anno scorso si poteva anche visitare Cinecittà: [l'iniziativa] era intitolata Cinecittà si mostra. Si andava e poi si visitava con la guida. Si faceva un giro e si visitava: io ho rivisto anche il Padiglione numero 5, quello più grande, dove Fiorello ha trasmesso il suo recital recentemente. Il campo era... Eravamo negli studi, che lì avevano tramezzato tutto quanto. C'erano tramezze di compensato e dentro questo campo c'erano oltre 1.000 persone, solo lì. Ma noi, complessivamente, saremo stati in 3.000, ecco. Ma poi c'era anche gente dell'Africa Orientale Italiana che era in attesa di essere chiamata, però non si sapeva ancora niente. Si stava lì e si aspettava di essere richiamati. [A Cinecittà arrivo] nel '45, appena finita la guerra, sarà stato maggio. E sto lì dieci mesi, tanto! Sto lì in attesa di essere chiamato. Lì c'era l'assistenza di un campo profughi, [perché lì] era un campo profughi: c'era il rancio, ci davano il rancio come i militari, avevamo addirittura una gavetta, una gamella. Al mattino [ci davano] il latte in polvere, ci davano qualche formaggino o qualcosa di marmellata, ma insomma non era tanto sostanziosa la questione! Il sussidio no, [non l'avevamo], non avevamo niente! Vivevamo con quello. Mia sorella ad esempio ha cercato di trovare un lavoro, [e poi lo ha trovato]: è andata a servire in una famiglia di Roma e mi aveva lasciato in campo profughi, siccome non poteva portarsi dietro [anche] me. Allora mi ha lasciato all'assistenza delle donne che erano nella mia camerata, eravamo in sei nella nostra camerata tramezzata. Però queste qui per un paio di giorni non hanno detto niente, poi sono andate alla direzione e hanno sollevato il caso, e allora la direzione ha mandato a chiamare un mio zio e allora lui è venuto [dal Veneto] e l'ha riportata lì [in campo]. Poi ha trovato qualcosa dentro il campo.
Ernesto S.
[Il campo di Aversa] era una caserma, ma non era alta come a Tortona, che sono casermoni di due o ... [Leggi tutto]
[Il campo di Aversa] era una caserma, ma non era alta come a Tortona, che sono casermoni di due o tre piani. Là erano tutte case basse, ognuno aveva la sua stanza e poi c'erano anche le strade: sembrava un villaggio, bello! Era bellissimo! Poi appena si entrava, in centro, c'era un bel giardino. No, no, come campo era bellissimo. Eravamo abbastanza dentro. Poi c'era il direttore, c'era l'infermeria, c'era anche una specie di ospedalino. C'era tutto! No, no, a me come campo mi piaceva. C'era [anche] la scuola, e infatti io la prima e la seconda l'ho fatta lì, ma ero già grandina, perché spostandoci da una parte all'altra perdevamo anche gli anni scuola, eh! Le camere erano dei cameroni grandi e le pareti non erano di mattone, erano fatte di compensato. Noi avevamo un bello stanzone grande, poi c'era il corridoio che divideva e noi lì sul corridoio avevamo fatto la cucina. Ed eravamo solo due famiglie che si entrava da quella porta lì. Noi e un'altra famiglia che era della Puglia, avevano dei figli, noi eravamo piccoli e ci siamo trovati bene. Poi fuori c'era un bello spazio da giocare, c'erano le fontane - anche perché l'acqua non c'era in casa - e in più c'erano i servizi fuori in questo cortile. Ed eravamo noi greci, poi c'erano fiumani e molti pugliesi, c'era un po' di tutto. Ma non so come mai loro si trovavano lì sfollati. Però eravamo misti. C'erano anche profughi dalle isole greche. [...] Ti davano un sussidio ma non mi ricordo di quanto. I primi anni ci passavano il cibo e invece poi davano i soldi, ma non mi ricordo la cifra.
Adriana D.
[Alla Caserma Sanguinetti di Venezia], mi ricordo che si mangiava in delle gamelle di alluminio, su ... [Leggi tutto]
[Alla Caserma Sanguinetti di Venezia], mi ricordo che si mangiava in delle gamelle di alluminio, su dei tavoloni, visto che eravamo tanta gente. Qualcuno ci dava da mangiare, [perché] nel posto che ci avevano assegnato non c'era la possibilità di cucinare. Qualcuno ce lo faceva - soldati o chi fossero non lo ricordo - e noi si mangiava pranzo e cena. [Era] una caserma nuda e cruda, una roba preparata il giorno prima, cioè [avevano] deciso il giorno prima di mettere lì questa gente. Era una caserma dove tutta la nostra nave Toscana, è stata scaricata lì. Ed eravamo tanti eh! ,[In caserma] noi giovani stavamo magari fuori, [anche se] faceva freddo, perché quando siamo arrivati non era bel tempo. E io mi ricordo poi di un cortile dove giovavamo, però se vogliamo parlare di intimità e queste cose, non c'erano proprio per niente. Si era tutti insieme, c'era sta coperta ma comunque si sentiva scoreggiare e qualunque roba!
Gianfranco M.
Io ero abituato a seguire una certa disciplina, perché ero stato nelle colonie e quindi una ... [Leggi tutto]
Io ero abituato a seguire una certa disciplina, perché ero stato nelle colonie e quindi una disciplina ce l'avevo. Quindi qui nel campo dovevo seguire più o meno una certa disciplina - anche se non ero vincolato alle marce - e quindi mi ero più o meno abituato a questo tipo di vita. Certo che uno più anziano ha trovato difficoltà. Le difficoltà maggiori non erano nostre che eravamo ragazzi, ma erano soprattutto dei genitori che dovevano adattarsi. Quelli abituati a coltivare la terra dovevano magari abituarsi a fare il manovale, a fare qualsiasi mestiere. Per noi il campo era una palestra, c'era l'incontro di tanti ragazzi e allora si prendevano i giochi dell'uno e dell'altro e si imparavano. Si socializzava di più, ecco. E poi eravamo tutti nello stesso ambiente. Per i giovani non era un problema, il problema era per le persone più grandi.
Ernesto S.
[Il campo di Centocelle] erano degli edifici a un piano: un quadrilatero circondato da edifici a un ... [Leggi tutto]
[Il campo di Centocelle] erano degli edifici a un piano: un quadrilatero circondato da edifici a un piano. E' come un serraglio, con tante porte e poi delle divisioni interne. Cioè, tante porte però, per cui tu entravi in una di questa porte, ma non avevi un alloggio, avevi soltanto un pezzo. E iservizi erano in comune. Il luogo di svago per noi era il cortile. Una piccola infermeria doveva esserci, perché so che lì ad esempio ci han fatto l'antivaiolosa. E quella me la ricordo bene, perché so che lì sono andata da sola senza nessuna paura e senza nessuna preoccupazione a farmi fare questa antivaiolosa e poi mi sono gonfiata così [tanto], mi è venuta la febbre a quaranta, e quindi me la ricordo benissimo. Quindi si, si, le vaccinazioni c'erano. E ricordo anche - questo si - che poi a un certo punto ho preso la varicella - che c'erano le epidemie, figurarsi in un posto del genere! - e che mia madre mi ha nascosto, perché altri bambini che avevano preso la varicella sono finiti all'ospedale, e all'ospedale si son presi pure la scarlattina e quindi sono tornati dopo un sacco di tempo in condizioni miserande! E quindi lei ha nascosto me e la mia varicella e mi ha curato lei!
Adriana S.
[Da Cinecittà], siccome non ci chiamavano, ci hanno poi trasferito in un altro centro di ragazzi, ... [Leggi tutto]
[Da Cinecittà], siccome non ci chiamavano, ci hanno poi trasferito in un altro centro di ragazzi, ad Assisi. E lì c'erano solo ragazzi della quarta sponda. [Questo centro] era in un convitto nazionale che si chiamava Convitto Nazionale degli Orfani dei Maestri Elementari, ed era libero durante quel periodo. E anche lì [siamo stati un po' di tempo] in attesa di essere mandati [in Libia]. Niente, siamo stati sei mesi ancora lì e poi questi zii del Veneto son venuti a prenderci e siamo andati lì in Veneto da parenti, ma da altri zii. Io di zii ne avevo un sacco...Le famiglie numerose venete! Poi un anno dopo, nel '47, abbiamo saputo che la nostra famiglia era rientrata dalla Libia e che si trovava nel campo profughi di Napoli, alla Canzanella. E io e mia sorella ci siamo messi in viaggio per Napoli, e [siamo stati alla Panzanella] per una notte. Non so in che zona era, era una caserma.
Ernesto S.
Siamo arrivati nel campo profughi di Aversa. Ci avevano dato una stanza che sarà stata cinque ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati nel campo profughi di Aversa. Ci avevano dato una stanza che sarà stata cinque [metri] per cinque. Il campo profughi di Aversa, era stato costruito come ospedaletto militare, ma non era costruito in muratura o in mattoni. Era fatto in telai di legno, e le pareti erano fatte con la calce o con la paglia: aveva dei muri sottilissimi! Ma lasciamo perdere come erano fatte le pareti...Il campo era fatto che c'era un corridoio e poi delle stanze. C'erano tanti caseggiati chiamati baracche, e in ognuna di queste baracche c'erano cinque o sei stanze, e in ogni stanza c'era un'entrata da una parte e un'uscita dall'altra e c'era la stanza per la famiglia e nient'altro. [Nel campo] c'erano i profughi della Venezia- Giulia, i tunisini italiani, i greci, gli eritrei, i somali, tutti. Avevamo un sussidio di pochissime lire. C'era l'infermeria, c'era il bar, c'era gli spacci dove si vendevano le cose. [Era] l'organizzazione dei profughi stessa che aveva messo su [queste cose]. Che so, gli alimentari, andavamo a comprarli da uno nel campo. C'era un altro che aveva un bar, e va bene, ci andavamo a ballare la sera, era una stanza. Ci siamo dati da fare, si cercava di tenersi su con il morale. Poi, purtroppo, erano amicizie che duravano poco, e poi ognuno cercava la sua strada e se ne andava: una famiglia partiva per l'Australia, una per il Canada, l'altra andava a Milano. Ci si perdeva, così. I servizi erano esterni, in comune tra tutti. Per cui noi non eravamo abituati a questa situazione, a questo stato di cose, perché si dormiva tutti in una stessa stanza: là si cucinava, là si mangiava, là si dormiva. Per cui appena vennero fuori i bandi di assegnazione delle case, i miei fecero domanda e gli diedero una casetta piccola, due stanzette e un bagno e una cucinotta. [Una casa] ma proprio piccola, piccolissima, più piccola delle case del Villaggio di Santa Caterina.
Nicola G.
[A Bari Vecchia] si dormiva in terra, ci davano un po' di minestra, una pagnotta e tira a campà! ... [Leggi tutto]
[A Bari Vecchia] si dormiva in terra, ci davano un po' di minestra, una pagnotta e tira a campà! Poi dopo quindici giorni o venti - non mi ricordo bene - ci hanno imbarcato su questi treni: alcuni sono rimasti a Bari, ma la maggior parte ci hanno imbarcati su questi treni merci e per arrivare a Bologna ci abbiamo messo tre o quattro settimane. [Ci avevano destinato a Bologna] perché a Bari c'era questo comitato che comandava lo smistamento di queste famiglie profughe. Quando siamo arrivati a Bologna alla stazione, c'erano dei camion che ci hanno caricato e ci hanno portato in un'altra stalla, che avevano appena tirato fuori i cavalli...E puzzava! C'era ancora la merda lì...Si capisce, non volevamo stare lì...Eravamo circa 300 famiglie, e dopo due ore abbiamo deciso di andare a occupare qualcosa. Fortunatamente abbiamo trovato alcuni bolognesi che ci hanno detto: lì c'è una scuola, andate a occuparla. E difatti così abbiamo fatto. Mi ricordo che mio papà si è messo [in] prima linea. Siamo partiti e quando siamo arrivati lì, sono arrivati tre camion inglesi di soldati coi fucili che ci hanno detto: questo lo prendiamo noi! Abbiamo dormito tre giorni per terra, fuori, e poi mi ricordo bene che è arrivata una rappresentanza [dello stato] italiano e ci hanno riportato in un'altra caserma, sempre a Bologna. E siamo stati circa un mese a Bologna, una cosa spaventosa! Non c'erano gabinetti, non c'erano letti,[stavamo] per terra, con una coperta che puzzava di merda di cavallo.
Andrea D.
[A Bologna] eravamo al centro di Bologna, mi ricordo [che la caserma in cui stavamo era] vicino ... [Leggi tutto]
[A Bologna] eravamo al centro di Bologna, mi ricordo [che la caserma in cui stavamo era] vicino alla stazione, non tanto lontano. E difatti mi ricordo che c'era tanta gente che, diciamo, gridava insieme a noi e diceva: sono italiani anche questi! E difatti eravamo italiani. Eravamo solo famiglie da Patrasso. A Bologna siamo arrivati nel'45, e poi ci hanno imbarcati e ci hanno concentrati a Firenze [in] via della Scala 9, me lo ricordo sempre, vicino a Santa Maria Novella, alla stazione, vicino alle cascine. Lì era un vecchio genio , una caserma militare, ed eravamo andati là dentro: cimici e cose che non ti dico! Avevamo le coperte con gli spaghi e ognuno faceva il suo piccolo all'oggetto, con una stufa di carbone, che non ti dico...E lì c'era tutto: il gabinetto era una cosa schifosissima, e ci davano un mestolino di riso e patate e un po' di caffelatte la mattina e due pagnottine e nient'altro. Niente altro! Son stato quattro anni a Firenze, fino al '49. Era un campo profughi, e lì dentro c'erano molti che erano venuti da Tripoli, molti erano slavi, altri anche dalla Francia. [Ma] la percentuale più grossa eravamo di Patrasso, molti erano di Corfù.
Andrea D.
A Bologna poi sono arrivati anche profughi dell'Istria. [...] Era un campo profughi di smistamento. ... [Leggi tutto]
A Bologna poi sono arrivati anche profughi dell'Istria. [...] Era un campo profughi di smistamento. Lì a Bologna tutti sono stati pochissimo in questa caserma militare. Lì era tutto libero, era una mangiatoia di cavalli e tutti stavano con la paglia per terra, uno dietro l'altro, uno dietro l'altro. C'erano centinaia e centinaia di persone, creda. Era in centro a Bologna, una caserma, che vicino c'erano dei giardini.
Luigi V.
[A Brindisi] c'era il centro di accoglienza dei profughi greci. Noi siamo andati lì a chiedere, [e ... [Leggi tutto]
[A Brindisi] c'era il centro di accoglienza dei profughi greci. Noi siamo andati lì a chiedere, [e han detto che dovevamo andare a Firenze]. Anche lì c'era il centro [di raccolta profughi], le casermette di Firenze. Ed era proprio di fianco alla stazione di Santa Maria Novella, proprio di fianco. Adesso mi sfugge il nome... Era una grande caserma [nella quale eravamo] tutti greci. C'erano questi gruppi [di profughi greci] che si spostavano: tanti [ad esempio] sono andati giù, in Sicilia, altri in centro Italia, mentre a noi invece ci han mandato a Firenze. Ma un gruppo enorme, tutti di Patrasso. Poi a un certo punto anche noi di lì siamo partiti via, perché non c'era lavoro. A quei tempi lì a Firenze non c'era come oggi il turismo da poter inserirsi, non c'era lavoro. La richiesta di lavoro dov'era? In Piemonte, e allora da Firenze - dove ho fatto due o tre mesi di asilo, sempre in campo profughi - siamo venuti in Piemonte.
Luigi P.
[La struttura di Bologna] era una caserma. Una caserma militare dove c'erano le mangiatoie dei ... [Leggi tutto]
[La struttura di Bologna] era una caserma. Una caserma militare dove c'erano le mangiatoie dei cavalli, anche se dirle precisamente non so dov'era. E lì è stato nel mese di dicembre: mi ricordo che faceva un freddo cane, è nevicato...E poi mia sorella Nicoletta ha preso il morbillo, e siccome comandavano gli inglesi - eravamo sotto gli inglesi allora - ci hanno sequestrati e ci hanno messo in un palazzo, all'ultimo piano, in quarantena. E lì siamo stati bene, perché era riscaldato. Non c'erano materassi, ma dormivano per terra sulle coperte che ci avevano dato loro. E siamo stati quaranta giorni, fino al 6 di gennaio 1946, alla befana. Poi il 7 di gennaio 1946 ci hanno caricato di nuovo sui treni, sui carri bestiame, e ci hanno mandati a Novara. Alla Caserma Perrone di Novara.
Luigi V.
A Bologna c'era l'UNRRA, c'erano gli americani. Io ad esempio non avevo un paio di pantaloni ... [Leggi tutto]
A Bologna c'era l'UNRRA, c'erano gli americani. Io ad esempio non avevo un paio di pantaloni lunghi, mi hanno fatto entrare dentro una camera dove c'era una montagna di roba per uomini. Poi c'era un'altra stanza [di vestiti] da donna. E ti facevano entrare dentro e ti dicevano: scegli quello che vuoi! [Era così] a Bologna e anche a Novara [era] lo stesso. Un cappotto non ce l'avevamo, non avevamo niente e faceva freddo. Allora c'era l'UNRRA, che era una società americana per gli aiuti all'Europa, eccetera, e dava vestiti, scarpe e tutto quanto. [Poi] ci davano un sussidio di 70 lire al giorno.
Luigi V.
La percezione è questa, e cioè che uno [in campo] cresce più in fretta [perché] non c'è giovinezza, ... [Leggi tutto]
La percezione è questa, e cioè che uno [in campo] cresce più in fretta [perché] non c'è giovinezza, e vuol dire tanto. Cioè, passo dalla fanciullezza all'età adulta. Cioè, io a quindici anni andavo già a lavorare. Per le persone adulte [invece] secondo me il campo era la fine di tutto. Era la fine di tutto perché i ragazzi fino a dieci vent'anni vivono, fanno l'amore, giocano. Ma una che c'ha cinquant'anni come mio padre, che viene portato via da casa sua e viene messo in cattività, è come vivere come un animale. Ricordiamoci questo, non c'è paragone [tra giovani e adulti]. E' la fine di ogni sogno e di ogni speranza, perché quando mia madre si lamentava [di] qualcosa, cosa diceva mio padre - buonanima-? [Le diceva]: cosa piangi, che abbiamo cinque ragazzi in casa! Cavolo, cinque ragazzi! E ti trovi a cinquant'anni in campo con cinque figli che non hai niente! E qualcuno può essere morto, lentamente, di crepacuore. Cioè, io ho visto piangere diverse volte mia madre, però piangeva da sola, di nascosto, senza farsi vedere. Sa, i giovani si adattano: lei prenda un ragazzo di dieci anni, si può adattare in qualsiasi modo, ma un uomo di cinquant'anni, come fa ad adattarsi?
Luigi B.
Siamo stati lì [a Udine] un mese, prima di essere smistati a Roma, a Centocelle. E lì i ricordi ... [Leggi tutto]
Siamo stati lì [a Udine] un mese, prima di essere smistati a Roma, a Centocelle. E lì i ricordi sono anche abbastanza nitidi. Mi ricordo che prima abbiamo abitato in una parte di Centocelle sulla destra. C'era questo grande cortile con tutte queste casermette intorno. Era un campo profughi che era stato usato - credo- anche per altre situazioni. Perché poi hanno costruito l'EUR per le Olimpiadi, e poi tutte queste case dell'EUR, belle e nuove, a chi le han date? Ai profughi! Quindi a Roma hanno avuto più sedere! Vabbè...Comunque, [lì a Centocelle] prima c'era una parte con stanzoni di legno, cioè stanze divise con tramezze di legno imbiancate a calce per i pidocchi. E quindi siamo stati lì per qualche mese, e poi invece ci siam trasferite dall'altra parte del campo dove invece c'erano sempre muretti divisori bassi, ma in muratura, non di legno. Quindi erano veri e propri pezzi di stanze, anche se, naturalmente, la parte alta era non chiusa per la ventilazione e anche per la luce. Perché erano stanzoni divisi. E quello che io mi ricordo è che mia madre era furibonda, perché diceva che ogni tanto passava qualcuno che da sopra i tramezzi diceva: buongiorno! E magari mentre tu ti stavi cambiando, quello passava e guardava...Guardava dappertutto, dentro tutte le stanze. Cioè, non c'era molta intimità da questo punto di vista. [Nel campo poi] c'erano le scuole, però io non ero ancora in età scolare, e quindi non ho frequentato nulla, non sono andata all'asilo. Però mi sembra che ci fossero delle scuole. Poi lì, ad esempio, mia madre guadagnava qualcosa lavorando come sarta, e quindi da questo punto di vista aveva sempre qualche soldo. Poi ti davano da mangiare. E il mangiare avevi due possibilità: o te ne facevi un po' tu se avevi dei soldi, o altrimenti c'era la mensa del campo. Cioè, la mensa... Il solito gamellino con cui andavi a prenderti la roba. E mia madre col fatto che riusciva a tirare su qualche soldo, di solito cucinava lei. E quindi avevi la possibilità di mangiare per conto tuo della roba preparata da te. Se invece non avevi soldi, mangiavi quello che c'era. E c'era gente che andava in giro a fare lavoretti. Per esempio mio padre, nel primo mese in cui è rimasto con noi, mentre girava per ministeri per cercare di farsi riconoscere il suo trasferimento in un comune italiano, è andato a Cinecittà a fare la comparsa.
Adriana S.
Al campo di Firenze c'era la mensa... Si andava con una pignatta e si prendeva: eri in quattro in ... [Leggi tutto]
Al campo di Firenze c'era la mensa... Si andava con una pignatta e si prendeva: eri in quattro in famiglia, e ti davano quattro porzioni, quattro panini, quattro mele. E questo era così a Firenze. Che a Firenze siamo stati tre o quattro mesi. Poi siamo andati a Tortona, noi. Tortona, provincia di Alessandria. E anche lì, siamo stati alla Caserma Passalacqua, oggi Comune di Tortona, rifatto a nuovo. Anche lì, però, non eravamo solo greci, eravamo misti coi veneti. Veneti e greci. Con tanto di entrata con il picchetto e tutto. Per un periodo avevamo le stesse cose: dormitorio, divisi, mensa. Poi dopo un anno - un anno buono! - ci hanno dato dei soldi. A ogni famiglia e a ogni persona, davano 300 lire e dovevi aggiustarti. Ti davano un sussidio, un sussidio. Questo e via. E a Tortona ho fatto le elementari.
Luigi P.
[A Verona stavamo in un posto che] forse era alla Manifattura Tabacchi. [Stavamo] in un casermone, ... [Leggi tutto]
[A Verona stavamo in un posto che] forse era alla Manifattura Tabacchi. [Stavamo] in un casermone, ma non so, perché ero piccolina. Io però nei campi rimango fino al '59, perché poi ci han dato le case a Tortona, poi mi son sposata nel '62 e son venuta a Torino.
Adriana D.
Avere qualcosa prima [e poi, all'improvviso] trovarsi insieme ai profughi di qua e di là, per i ... [Leggi tutto]
Avere qualcosa prima [e poi, all'improvviso] trovarsi insieme ai profughi di qua e di là, per i nostri genitori è stato un affare, [un trauma], troppo grande. Sa, come mi raccontava mia suocera, che [in Grecia] avevano gli aranci, avevano gli olivi, beh, trovarsi là [in campo] è stato durissimo. Quando noi - con mio marito - siamo andati la prima volta in Grecia, le abbiamo portato i mandarini e lei si è messa a piangere, perché erano i mandarini delle sue piante. Lei si è messa a piangere, poverina!
Elisabetta D.
[Dopo essere stati a Bologna] noi siamo andati a Verona, siamo stati un po' a Verona in una ... [Leggi tutto]
[Dopo essere stati a Bologna] noi siamo andati a Verona, siamo stati un po' a Verona in una fabbrica di tabacchi. Mi ricordo che c'erano le stufe a legna in mezzo [alla camera] e noi dormivamo lì. Noi siamo stati un po' lì. Siamo stati alla Manifattura Tabacchi - così la chiamavano - e lì era stato allestito un campo per i profughi. E vivevamo là, nei capannoni di lavoro di tabacco, nella fabbrica, dentro. Siamo stati lì un po'. E poi mio papà ha conosciuto una signora che aveva un'osteria. Lui gli ha detto la nostra storia, le ha raccontato da dove venivamo, e allora lei ci ha dato un tavolo di legno della sua osteria, perché noi non avevamo il tavolo, mangiavamo inginocchiati sopra il letto. [Lì alla Manifattura Tabacchi di Verona] era tutto diviso con le coperte: c'erano questi capannoni divisi con le coperte. Da Verona ci hanno mandato in bassa Italia, ad Aversa, in campo. Era un ospedale militare e han messo dentro noi con le coperte. Da Verona ad Aversa siamo andati in treno, che questo treno qui era bucato sopra e faceva freddo. E c'erano i miei cugini di Milano che hanno trovato delle cose da bruciare e abbiamo fatto il fuoco nel treno. Ad Aversa siamo stati un po' di anni. Era un ospedale militare e dentro ci davano da mangiare, davano la minestra: andava mia mamma con la pentola e ci davano da mangiare. Poi veniva l'UNRRA che ci dava i vestiti, ci portavano i vestiti. Mia sorella - la terza - si chiamava Adriana - invece di darci i vestiti da femminuccia, ci davano i pantaloncini dei bambini perché si sbagliavano [...]. Le camere erano di cartongesso, ogni famiglia aveva la sua stanza, però si sentiva tutto. Eravamo noi greci e anche altri, che cominciavano ad arrivare profughi da tutte le parti. Mio papà è morto ad Aversa, e noi siamo stati lì fino al '56. [...] Dopo Aversa ci siamo spostati, abbiam fatto domanda per venire a Tortona abbiamo chiesto il trasferimento per venire a Tortona. [Abbiamo scelto Tortona] per fare lavorare i ragazzi [cioè noi figli], perché là c'era miseria nera. Io sono arrivata qui alla Caserma Passalacqua e siamo rimasti lì fino a che non ci hanno dato le case.
Elisabetta D.
[Quando siamo arrivati a Bari e siamo] scesi dalla nave, ci portano via subito e ci mandano a ... [Leggi tutto]
[Quando siamo arrivati a Bari e siamo] scesi dalla nave, ci portano via subito e ci mandano a Bologna. Ci portano coi treni merci a Bologna. E lì era una caserma. Siamo stati in una caserma e dormivamo coi materassi per terra e abbiam passato la notte là. Eravamo tutti greci in quel momento là. Eravamo più o meno nel gennaio del '46, i primi mesi del '46.
Luigi B.
[Il campo è stato], brutto perché rimani scioccato a vedere quelle coperte e quelle famiglie, che ... [Leggi tutto]
[Il campo è stato], brutto perché rimani scioccato a vedere quelle coperte e quelle famiglie, che poi c'erano anche famiglie un po' disagiate. Cioè, ci è voluto tempo prima di abituarsi. Ma noi eravamo anche piccoli ed era diverso. I grandi però... per loro è stato difficile. Però non [per tutti, forse]. Io ad esempio mi ricordo mia mamma che uscivano, si mettevano sotto i portici - perché là [intorno al cortile del campo] erano tutti portici - e stavano tutti insieme a chiacchierare, ricamare e lavorare. Però si, l'impatto è stato più difficile per l'adulto, perché noi bambini [ci divertivamo anche]: c'era tutto quello spazio, chi giocava a palla, chi [ad] altro e alla fine - devo essere sincera - anche quando c'erano le feste, non sono mai mancati i giocattoli. Le feste non sono mai mancate sia per i bambini e sia per i grandi. Però l'impatto per i grandi... E quello si sa, quando uno lascia casa sua [è sempre brutto].
Elena G.
[L'asilo del campo di Firenze] aveva quei banchi di legno, di quelli alti, con il piano inclinato e ... [Leggi tutto]
[L'asilo del campo di Firenze] aveva quei banchi di legno, di quelli alti, con il piano inclinato e il suo calamaio. Ma lunghi eh! Dove ci si sedeva sei, sette, otto bambini. E avevamo quelli, per l'asilo. Mentre per noi, nel campo, ci avevano dato delle brande di tela, quelle brande da militare di tela che si agganciavano, e poi delle coperte della marina o dell'esercito, scritte in bianco [con la scritta] esercito italiano. Mi ricordo che da una coperta mia mamma mi ha fatto il cappotto: il cappotto con una coperta dell'esercito italiano! [C'erano le] camerate dove stavamo tutti insieme, non eravamo divisi. Cioè, ci si divideva a famiglia con delle coperte. C'era una famiglia dove c'erano cinque, sei o sette letti e poi ci si metteva una coperta che divideva. Questo ricordo.
Luigi P.
Io penso che le persone si abituano quasi un po' a tutto. Cioè, perché in quei momenti lì non c'è ... [Leggi tutto]
Io penso che le persone si abituano quasi un po' a tutto. Cioè, perché in quei momenti lì non c'è più intimità, che intimità vuoi che ci sia? Uno vive alla giornata. Alla sera ci davano la luce alle sei, quando diventava buio, durante il giorno non c'era la corrente e non si poteva attaccare i fornelli elettrici, altrimenti saltava il contatore, anche perché in ogni camera c'era la valvola. Allora veniva un addetto del campo con la scala alta due metri per fare contatto, perché la luce ce la davano loro. Alla sera alle otto e mezza c'era il radio giornale, e chi aveva la radio? Nessuno! Allora fuori tra gli alberi si sentivano le notizie, sotto le piante. Poi c'era una chiesa dentro interna dove uno andava alla messa, c'era un'infermeria - sempre a disposizione è logico- c'era chi distribuiva la legna, chi dava via la posta. Niente, si viveva alla giornata. Poi c'erano anche le suore che guardavano i bambini.
Luigi B.
[Alla Caserma Passalacqua] c'eravamo noi e i giuliani. E lì la vita era tutta completa: matrimoni, ... [Leggi tutto]
[Alla Caserma Passalacqua] c'eravamo noi e i giuliani. E lì la vita era tutta completa: matrimoni, battesimi, chiese, vacanze, che ci portavano anche in vacanza in Liguria a noi bambini. C'era una specie di assistenza: c'era il gruppo che partiva per il periodo estivo e ci davano questa possibilità. Io ero un ragazzino... Certo i genitori e quelli più anziani ne hanno risentito.
Luigi P.
Mah, alla mia età non era niente pesante, era tutto un gioco, capisci? Nuova gente, nuove ... [Leggi tutto]
Mah, alla mia età non era niente pesante, era tutto un gioco, capisci? Nuova gente, nuove conoscenze. [...] Per i miei genitori [invece] era una tragedia. Dopo una vita che hanno sgobbato tutti e due per farsi una casa, trovarsi in mezzo a una strada senza più nulla, con una famiglia numerosa... Mio padre ci è andato una volta in Grecia nel '54 - che siamo andati insieme - e poi non ci è voluto più andare. Non ci è voluto più andare non perché ce l'avesse con i greci, ma perché ha troppi ricordi, troppi. E io quando vado, tutte le volte mi metto a piangere. Ce la padrona di casa, quella che ha comprato casa mia, che mi fa entrare e mi offre anche i cioccolatini. E io le ho detto: signora, se dovesse un giorno vendere la casa, mi avvisi, mi dia un colpo di telefono. Io le offro qualcosa più degli altri, le ho detto. Ma io la casa non la vendo, mi ha risposto...Poi ho parlato con i miei fratelli, che mi dicono ma chi vuole più andare in Grecia?! C'è mio fratello Andrea che non è più andato in Grecia da quando siamo venuto in Italia. Né la Nicoletta, né [le mie altre] sorelle. E' andato solo [mio fratello] Michelino una volta, e basta. In campo poi mi son fatto degli amici nuovi, gente che non parlava nemmeno la mia lingua. Io quando son venuto, si, parlavo l'italiano perché ero andato a scuola italiana, ma non lo parlavo come lo parlo adesso l'italiano eh! Capisce? E allora ho incominciato a parlare veneto come parlano loro [della Venezia Giulia], e ho incominciato a capire un po' il tortonese, che è difficile capirlo il tortonese eh!
Luigi V.
Noi siamo stati una notte a Bari, abbiam dormito una notte in una scuola dove andavano i bambini ... [Leggi tutto]
Noi siamo stati una notte a Bari, abbiam dormito una notte in una scuola dove andavano i bambini che ci han messo lì a dormire, e poi la mattina ci han portato a Bologna. Ci han preso e ci han portato lì. Da quello che mi dicevano era una stalla di cavalli, dentro a una caserma, che dormivano per terra, ma non so come si chiamava.
Elisabetta D.
Noi non abbiamo mai avuto la doccia, e mi ricordo questi bei secchi d’acqua [coi quali] mia mamma ... [Leggi tutto]
Noi non abbiamo mai avuto la doccia, e mi ricordo questi bei secchi d’acqua [coi quali] mia mamma ci faceva lavare. Poi ci metteva il borotalco, mi metteva a letto, ci serviva la cena a letto. Questi sono i ricordi [di quando avevo] sette-otto anni ed ero al campo di Monza.
Rita L.
Io non me ne rendevo conto, ma ho visto tanti di quei seni di donne che allattavano e non ... [Leggi tutto]
Io non me ne rendevo conto, ma ho visto tanti di quei seni di donne che allattavano e non allattavano, che andavano a fare la doccia di notte... Non c’era privacy... C’era i gabinetti come in una caserma, e le ragazze in età di fidanzato o uscivano alle quattro del mattino a farsi la doccia, o se no prendevano l’acqua calda, la scaldavano col fornello e [si lavavano] tra le coperte, non è che c’era tanta igiene, eh! Non c’era privacy, la privacy era una parola sconosciuta in quel periodo.
Guerrino B.
[In campo profughi la vita] era per i nostri vecchi grama... Per noi i’era la scuola, il mangiare e ... [Leggi tutto]
[In campo profughi la vita] era per i nostri vecchi grama... Per noi i’era la scuola, il mangiare e i divertimenti, perché era come vivere adesso in campeggio! C’era sto campo enorme, [giocavamo a] pallone tutto il giorno! Andavamo dai salesiani a giocare a pallone, con quelli dei salesiani: chi aveva il tiro più forte buttava il pallone oltre muro, rubavamo il pallone e fin quando il pallone resisteva giocavamo in caserma! Per noi era un posto di divertimento. Per i nostri vecchi può immaginare... Come quello che lascia il meridione e viene qua, o viceversa, o come quello che emigra... Può immaginare, per chi lascia la propria terra è sempre dolore.
Giuliano K.
[In campo] giocavamo a pindolo, che sarebbe un manico di scopa con un pezzo che gli fa due ... [Leggi tutto]
[In campo] giocavamo a pindolo, che sarebbe un manico di scopa con un pezzo che gli fa due punte che poi salta e lo tiri. Poi giocavamo a cerchio, a nascondere e a quelle cosa là. Si giocava a quei giochi lì, tra ragazzi. Per noi bambini è il campo profughi] era un gioco, non si sentiva la difficoltà. Ricordo che nei mesi estivi le donne si riunivano sotto i portici, a gruppi di tre o quattro e parlavano. Parlavano e intanto davano un’occhiata ai figli e ai nipoti e parlavano di cose nostalgiche. E di sogni, sognavano ad occhi aperti. Gli argomenti erano quelli.
Guerrino B.
In campo si faceva amicizia, andavamo fuori a far la spesa, passavi i giorni e passavi il tempo. ... [Leggi tutto]
In campo si faceva amicizia, andavamo fuori a far la spesa, passavi i giorni e passavi il tempo. Che allora non si guadagnava noi, avevamo quel desiderio di venire via dal campo e di comprarci una casa. Questo parlo di Chiari, invece a Monza sono andata a lavorare. A Monza lavoravano tutti: se lei andava alla mattina non trovava nessuno in campo! Lavoravano nelle case, ma la gioventù no: ci sono stati tanti ragazzi che sono andati anche alla RAI a lavorare, perché i tempi erano cambiati e la gente si era fatta un altro concetto [dei profughi istriani]. Molti dei nostri lavoravo nelle fabbriche, mentre i dalmati tanti erano muratori, ma era il periodo che costruivano anche a Milano. Certo [il quotidiano in campo profughi aveva aspetti brutti], perché bisognava andare nel gabinetto dove andavan tutti. E quello quindi neanche lo nomino, perché abbiamo provato tutti brutti momenti, insomma. Però stanchi di là, stanchi della vita che si faceva là, anche se avevo la casa a Rovigno io non sono rimasta traumatizzata [dai campi]. Perché me l’aspettavo, perché mia mamma me lo diceva: guarda che ho provato io tre anni ad essere profuga -che lei era stata profuga durante la guerra del ’15-’18 -, guarda che non è bello... Però lei, poverina, è morta, ma veniva [a trovarmi], invece poi [con] mia sorella, mio cognato e mio papà ci siamo ricongiunti, sono venuti in Italia.
Gina P.
A Latina [di profughi giuliano-dalmati] ce n’erano tanti: c’era gente di Dignano, di Valle, di ... [Leggi tutto]
A Latina [di profughi giuliano-dalmati] ce n’erano tanti: c’era gente di Dignano, di Valle, di Parenzo. C’era tanta gente. [Il campo] era una caserma, che una volta andavano i soldati. Era in mezzo alla città. In campo non c’era niente, [non ci davano] niente, solo il sussidio e il mangiare e basta. E’ stata una vita dura. Sono stata un anno. Mamma mia! C’era le camerate lunghe, poi c’era una porta aperta che mettevi una tenda [per dividere] e c’era due brandine in pagliericcio senza lenzuola. Ci han dato una coperta, per non dire uno straccio, e siamo stati lì. E lì c’era tanti tanti profughi, dalla Tunisia e da tanti posti. Questa gente qui della Tunisia dicevano che erano contenti, che si mangia bene e tutto quanto, però per dire la verità ci si accontentava, si era giovani e bisognava mangiare per forza. E allora noi cosa abbiamo fatto? Ci siamo adattati a fare tutti i lavori: allora, io sono andata in cucina, con quelle stufe cariche di fumo e distribuivo il mangiare a tutti i profughi. E prendevo 100 Lire al giorno, perché un panino non bastava, sa, quando si ha diciannove anni o venti si mangia di più! Poi non è sostanzioso quel mangiare! Poi mio cognato si è messo a scopare tutto il campo profughi - che era grande - tutti i giorni, anche lui, e mia suocera e mio marito lavavano le camerate, pulivano i gabinetti e i lavandini. Ci siamo adattati, che gli altri profughi, i tunisini e quella gente lì, non si adattavano.
Eufemia M.
[A Latina] sono stata un anno. Mamma mia! C’era le camerate lunghe, poi c’era una porta aperta che ... [Leggi tutto]
[A Latina] sono stata un anno. Mamma mia! C’era le camerate lunghe, poi c’era una porta aperta che mettevi una tenda [per dividere] e c’era due brandine in pagliericcio senza lenzuola. Ci han dato una coperta, per non dire uno straccio, e siamo stati lì. E lì c’era tanti tanti profughi, dalla Tunisia e da tanti posti. Questa gente qui della Tunisia dicevano che erano contenti, che si mangia bene e tutto quanto, però per dire la verità ci si accontentava, si era giovani e bisognava mangiare per forza. E allora noi cosa abbiamo fatto? Ci siamo adattati a fare tutti i lavori: allora, io sono andata in cucina, con quelle stufe cariche di fumo e distribuivo il mangiare a tutti i profughi. E prendevo 100 Lire al giorno, perché un panino non bastava, sa, quando si ha diciannove anni o venti si mangia di più! Poi non è sostanzioso quel mangiare! Poi mio cognato si è messo a scopare tutto il campo profughi - che era grande - tutti i giorni, anche lui, e mia suocera e mio marito lavavano le camerate, pulivano i gabinetti e i lavandini. Ci siamo adattati, che gli altri profughi, i tunisini e quella gente lì, non si adattavano.
Eufemia M.
[Quando siamo arrivati a Barletta] mi ricordo che pioveva e son venuti dei giovani a prenderci alla ... [Leggi tutto]
[Quando siamo arrivati a Barletta] mi ricordo che pioveva e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero - il campo era in via Manfredi 4 - ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando [c’]era la piena, perché poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio! E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus. Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare, ma la doccia era obbligatoria [per ] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C’era dentro un’infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c’era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C’era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: [c’]era due brande, una sopra all’altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c’era un direttore mandato da Roma. [Poi c’era anche] il vicedirettore [che] si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti e le faceva da mangiare, le lavava e le stirava. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio.
Elio H.
[In campo c’eravamo] noi greci e poi sono arrivati anche i fiumani, i dalmati e gli istriani. [Con ... [Leggi tutto]
[In campo c’eravamo] noi greci e poi sono arrivati anche i fiumani, i dalmati e gli istriani. [Con loro non si andava d’accordo], e te lo dico perché . Ed è importante questo da segnalarlo. Mentre questi sceglievano di andare via e alcuni di questi portavano anche i loro mobili coi camion. Oso dire che erano anche incitati dalla propaganda di De Gasperi a venire, di abbandonare. Perché là non li hanno cacciati, indipendentemente dalle foibe, che c’è tutto questo discorso da fare. Perché io ho una mia idea, ho letto, so cosa son le foibe, sono andato a vederle, ho parlato con della gente. Perché io son stato fortunato, ho fatto la scuola politica [del PCI], ho lavorato nel sociale, ho lavorato nel sindacato... Per cui i giuliano dalmati arrivavano, e c’è stato contrasto, perché noi eravamo espulsi, e io lo sottolineo sempre questo, ma non per fare polemica, per fare un distinguo, perché se non ci mandavano via, di brutto, sopra una corvetta, noi non saremmo andati via.
Simone P.
[Il campo profughi di Catania] erano delle scuole elementari. Eravamo a Fontana Rossa, che c’era un ... [Leggi tutto]
[Il campo profughi di Catania] erano delle scuole elementari. Eravamo a Fontana Rossa, che c’era un vialone lungo e noi eravamo dove c’era un crepaccio, sotto. Dal parapetto della strada c’era un crepaccio: eravamo quasi in centro, [infatti] andavamo a piedi dappertutto, andavamo in giro dappertutto. E lì non c’era neanche le tende: negli stanzoni mettevano dentro gente fino a che ce ne stavano. Quanti saremmo stati? Una ventina per aula [stanza], forse anche di più.
Giorgio B.
[A Catania] c’era il campo dei profughi della Libia, di gente che voleva andare di là. Eravamo solo ... [Leggi tutto]
[A Catania] c’era il campo dei profughi della Libia, di gente che voleva andare di là. Eravamo solo noi [libici]. E poi da Catania capisci subito che non ti vogliono mandare via [in Libia], perché ti mandano indietro. Perché da Catania ci mandano a Giarre, mettendoci in una baraccona e poi da lì non vai più via.
Gigi B.
[Il campo di Giarre] era un campo di concentramento americano, un campo di concentramento per ... [Leggi tutto]
[Il campo di Giarre] era un campo di concentramento americano, un campo di concentramento per militari, per prigionieri. Il primo giorno [che siamo arrivati], abbiamo fatto la rivoluzione! Perché siamo arrivati noi e ci hanno fatto da mangiare con le foglie di zucchine. Sa, come fanno i siciliani che fanno da mangiare con le foglie di zucchine... Abbiam trovato quella roba lì e non l’abbiam mangiata nessuno, e abbiam detto: o domani facciamo la spesa noi o qua facciamo un casino!
Giorgio B.
[Lì a Giarre era] un casino, più che a Catania! Erano baracche, eravamo tutti mischiati: c’erano ... [Leggi tutto]
[Lì a Giarre era] un casino, più che a Catania! Erano baracche, eravamo tutti mischiati: c’erano dei pagliericci per terra e stavamo tutti lì. Ed era una roba pazzesca! Neanche le divisioni c’erano, no, no. E lì quanto saremmo stati? Un po’ di mesi, non mi ricordo neanche. Saremmo stati cinque o sei mesi.
Gigi B.
Dopo che si è aperto il fronte, allora quando c’era l’Italia libera e il passaggio, ci hanno ... [Leggi tutto]
Dopo che si è aperto il fronte, allora quando c’era l’Italia libera e il passaggio, ci hanno spedito a Venezia, al luogo di origine, perché ogni cittadino aveva il suo paese di origine che doveva provvedere. Noi che siamo vissuti all’estero, il paese di origine doveva provvedere ad accoglierci. E siamo arrivati poi a Venezia che c’era il campo profughi, ma per arrivare a Venezia ci abbiamo impiegato quindici giorni! Quando abbiamo saputo che si è aperto il fronte, la prefettura di Bari ci ha fatto un foglio che valeva per il viaggio in treno e abbiamo preso il treno. E piano, piano siamo arrivati a Roma. Era tutta distrutta. Quando siamo arrivati a Roma, in stazione c’era il posto di ristoro e ci hanno mandato al campo profughi di Cinecittà, e lì siamo stati una settimana. Poi quando c’era i treni che giravano, abbiamo preso il treno e, piano, piano, siamo arrivati a Venezia. E lì a Venezia poi il comune ci ha dato assistenza. A Venezia c’era un campo profughi, che era dentro una scuola. Era sai dove c’è il cimitero di Venezia che c’è la laguna? Si chiama Fondamente Nuove e lì era il campo profughi, col giardino e tutto, e ci hanno messo là dentro. Era un istituto scolastico con tante aule grandi e col giardino. Le aule le avevano poi divise con tramezzini di coperte, perché non potevano dare un’aula grossa, di sei-otto metri, a una famiglia sola. Eravamo lì, provvisori. A mezzogiorno c’era il rancio, [si andava a prenderlo] con la gavetta. Eravamo noi e altre famiglie, solo italiani ma provenienti da altre parte, magari dalmati e libici. Poi noi quando abbiamo saputo che a Bari avevano aperto un grande campo profughi, siccome a Bari si era fermata mia sorella con suo marito, perché loro erano di origine pugliese e sono rimasti là, siamo partiti. Ci siam fatti fare dalla prefettura il biglietto per andare a Bari e siamo andati al campo profughi di Bari. E lì il campo profughi di Bari, essendo profughi, ci ha accettati e ci ha assistito.
Achille C.
[Siamo arrivati a Bari da Patrasso]. A Bari siamo stati ospitati in una caserma: eravamo dislocati ... [Leggi tutto]
[Siamo arrivati a Bari da Patrasso]. A Bari siamo stati ospitati in una caserma: eravamo dislocati in una vecchia caserma dei carabinieri, proprio all’Arcivescivado, al duomo di Bari. Era una vecchia caserma dei carabinieri, che era il soggiorno dei seminaristi. Era una vecchia casa con l’entrata colonica e tutto... Ed è stato il [mio] primo impatto con l’Italia, a Bari vecchia. Però ti dirò una cosa: onestamente, non rinnego niente di questo, è stata la mia prima esperienza di vita personale. Cioè, vedevo e notavo - cominciavo a capire - che c’era possibilità di avvenire, mentre per gli anziani si affievoliva sempre di più l’idea di tornare, invece io capivo che là c’era [possibilità]. Bari era una città bella: Bari vecchia è una cartolina, è una cosa bellissima! [Eravamo divisi] in stanzoni. Dopo di che questi stanzoni erano divisi con coperte: ognuno in una stanza - ci diceva il direttore - doveva prendere una coperta e dividere. [Il direttore diceva]: siete in tre? Prendi questa coperta e dividi, prendi le brande e i materassi... Dopo di che le famiglie più numerose avevano più spazio. Per cui in uno stanzone potevano starci sei famiglie. Dopo di che cosa è successo? A Patrasso noi eravamo già tutti conosciuti e apparentati, per cui la vita da profugo è stata meno pesante di quanto [poteva sembrare], capisci? Non ci è pesato tanto... Non eravamo consapevoli [forse], però eravamo tranquilli. [A Bari c’erano altri campi]: un’altra caserma - Regina Elena la chiamavano - vicino al porto, c’era un’altra caserma - un garage - in via Salerno a Bari, e [questi] erano tutti campi transito. Li chiamavano campi transito perché non eravamo fissi là, ma dovevano poi esserci le varie destinazioni per l’Italia. Perché poi molti li hanno spediti a Milano, a Firenze e così via.
Simone P.
[A Bari di campi profughi] c’è n’erano sette o otto, perché a Bari la città sai, non aveva un ... [Leggi tutto]
[A Bari di campi profughi] c’è n’erano sette o otto, perché a Bari la città sai, non aveva un locale per metterci tutti. C’era l’Arcivescovado che era il primo - c’era un centro all’Arcivescovado - poi c’eravamo noi che eravamo a San Pasquale, uno a Carasso, poi c’era le Baracche di via Napoli, insomma c’è n’era sei o sette, mi sembra. [Il nostro campo] era una casa popolare grandiosa, dove c’era un centinaio di famiglie. Lì era diviso, non potevano metterci tutti assieme: il piano terra, una volta, era l’asilo infantile e sopra l’asilo infantile ci avevano messo una decina di famiglie e tra queste dieci famiglie c’era anche la nostra. Ci portavano il rancio: venivano con la camionetta e ci portavano il rancio a mezzogiorno e alla sera. [Poi] c’era il medico del centro, e se avevi bisogno dell’ospedale ti mandava all’ospedale. Dove stavo io non è che vivevamo concentrati. Dove c’era i grandi concentramenti era alla Caserma Positano, che era vicino al porto e lì [c’]era una cinquantina di famiglie, mentre dove eravamo io e mia sorella eravamo tre famiglie. Era come se vivevamo in città, in un appartamento di città. [Era un campo piccolo], si chiamava la foresteria. Era integrato nel campo profughi di Bari, ma eri in Foresteria. Il campo profughi di Bari, quello grosso, era l’Arcivescovado, che era il numero uno. Poi siccome non ci stavamo tutti là, avevano preso sta caserma vicino al mare, e lì ci stavano una cinquantina di famiglie e poi [c’erano] altre famiglie qua e altre famiglie là. Poi, siccome avevano preso anche questo asilo, in via Emanuele De Deo, lì ci stavamo quattro famiglie: c’era la famiglia mia, la famiglia di mia sorella, il fratello di mio cognato e un altro fratello di mio cognato. Eravamo noi e basta, e lì era come [se] vivessimo da privati. Però avevamo l’assistenza sanitaria e la bobba [il cibo].
Achille C.
La vita nei campi era dura. Era dura perché non avevi lavoro, vivevi in ambienti bruttissimi, ... [Leggi tutto]
La vita nei campi era dura. Era dura perché non avevi lavoro, vivevi in ambienti bruttissimi, perché vivevi proprio gomito a gomito con gente che non conosci. Non son cose serene, sono disagevoli. Poi, ad esempio io, qualcuno è venuto a sapere che io ero partigiano, e ho avuto delle minacce dagli stessi altri profughi. Giusto per dirne una. La vita dei campi non era bella, ecco. Era una vita di preoccupazioni: come andrà a finire, cosa farò, dove andrò. Però piano piano ci siam messi a posto, perché la mentalità di chiedere in giro non l’abbiamo mai avuta; abbiamo sempre avuto la mentalità di arrangiarci, darci da fare e rimboccarci le maniche.
Aldo S.
Dunque, faccia il conto: io sono del ’46, e son venuto via che avevo otto mesi, nel ’47. Erano i ... [Leggi tutto]
Dunque, faccia il conto: io sono del ’46, e son venuto via che avevo otto mesi, nel ’47. Erano i primi di novembre del 1947. Che siamo andati a finire al campo profughi di Trieste, che non mi ricordo più se era a Opicina, ma non lo so. [Invece] io mi ricordo che mio papà mi diceva che da là sopra si dominava tutto il Golfo di Trieste, e non so se era Opicina. Comunque siamo andati a finire lì, e siamo stati nelle baracche, che con noi lì c’era anche mia zia che poi è andata a Grado. Da cosa mi diceva mio padre e mia madre eravamo tutti per terra, stesi per terra a dormire: eravamo una decina. Dieci, quindici, venti - non so - tutti in sti baracconi, tutti insieme. Poi siam partiti e siamo andati a Civitavecchia, lì vicino al mare, sempre perché mio padre potesse andare a lavorare in mare. La faccenda era tutta lì. Nell’attesa che mia mamma avesse un trasferimento in sta Fabbrica Tabacchi, praticamente. Ma lì siamo stati pochissimo, proprio poco, poco. Da lì siamo andati a Vibo Valenzia, sempre sul mare, [e sempre in campo profughi]. Lì siam stati poco anche lì. Poi da lì siamo andati a finire a Cava dei Tirreni, che nel frattempo era arrivato il trasferimento di mia mamma che poteva andare a lavorare in Fabbrica Tabacchi di Cava dei Tirreni. Manifattura Tabacchi la chiamavano: facevano le sigarette e i sigari allora. E allora da lì siamo andati a finire a Cava dei Tirreni e siam rimasti lì, era sempre nel ’47. Diciassette anni siam rimasti lì: diciassette anni a Cava dei Tirreni.
Giuseppe S.
Io sono stato un anno a Santeramo, poi hanno chiuso il campo. Era piccolo, era una scuola. Eravamo ... [Leggi tutto]
Io sono stato un anno a Santeramo, poi hanno chiuso il campo. Era piccolo, era una scuola. Eravamo magari un centinaio e c’erano anche dei giuliani. Eravamo di tutte le razze. Però l’hanno chiuso il campo, perché dicevano che dovevano fare una scuola nuova. E allora ci hanno mandati una parte ad Altamura, una parte a Bari e noi invece abbiamo fatto la richiesta a Roma per tre campi: Tortona, Novara e Monza. E allora han pensato di andare a Novara perché a Novara c’era il lavoro. Mio padre era scultore e marmista. Sono arrivato a Novara nel 1953, a marzo del 1953.
Romano V.
Io sono arrivata in campo profughi a Padova, ci ho dormito una notte con mio papà. Poi avevamo ... [Leggi tutto]
Io sono arrivata in campo profughi a Padova, ci ho dormito una notte con mio papà. Poi avevamo delle amiche a Padova e siccome loro affittavano a studenti - perché lì c’era l’Università - siamo andati da loro. E lì [c’erano] sti letti... No letti, brande... E chi dormiva, come facevi a dormire! Poi passava uno di notte ad ispezionare, che io lo chiamavo padre perché aveva un berretto da frate e invece non era prete. Era tutto aperto lì, tutto aperto! Tutto aperto, con ste brande... Siamo stati poco, poveretti! Sono state tre o quattro notti, e poi siamo andati a Moriago, tra Venezia e Padova.
Maria D.
A Udine, dopo che ci siamo ricongiunti, siamo stati ancora un po’ di tempo là, e ci hanno dato ... [Leggi tutto]
A Udine, dopo che ci siamo ricongiunti, siamo stati ancora un po’ di tempo là, e ci hanno dato un’altra destinazione: Padova. Ci hanno caricato su un carro bestiame: quella volta non c’erano treni - e mi ricordo che ero seduto coi piedi a pendoloni sul treno che andava poi piano perché anche i binari erano tutti disastrati. Si andava piano, perché il treno non poteva correre più di tanto, e siamo arrivati a Padova. Nel ’45, alla fine del ’45, verso la fine, dev’essere stato ottobre o novembre. Siamo arrivati a Padova e ci hanno destinato al campo di Chiesanuova - che forse avrai sentito parlare - che era un campo di concentramento slavo, cioè per slavi - e l’ho saputo dopo -. Lì la maggior parte eran tutti zaratini, perché [nei] primi campi eran tutti zaratini, perché erano i primi. E lì c’erano circa cinquecento ebrei - me lo ricordo sempre -, che poi li han mandati tutti in Israele. Quando è venuto l’ordine di mandarli via, di portarli in Israele, non volevano andare in Israele loro, e avevano piazzato una mitragliatrice in mezzo al campo. Allora, il campo com’era fatto? C’erano i lavandini in mezzo dove i militari andavano a lavarsi all’aperto - loro dovevano essere forti, specialmente d’inverno - e sparavano con la mitragliatrice contro la direzione perché li venivano a caricare per mandarli via, e loro non volevano andare in Israele. E’ stata una giornata un po’ movimentata quella là! Poi dopo ci son state delle trattative e hanno accettato e sono andati via. Erano cinquecento persone. E questi qui erano forniti di tutto, non gli mancava niente. Quando sono andati via, dietro le cucine c’era un posto dove si buttava l’immondizia che poi venivano a buttarla via. E loro avevano buttato - mi ricordo sempre - delle scatolette, dei vasi così gialli, intatti e pieni. E noi ragazzi, sai com’è, andavamo a vedere cosa c’era dentro ed erano pieni di prugne. E noi allora portavamo a casa sta roba, anche perché loro non potevano portarsi dietro quella roba, ma erano pieni di tutto. E mi ricordo anche che quando erano là, andavamo a spiarli mentre facevano le loro cerimonie, sai che facevano le messe e ste cose. Ho trovato una volta uno che era poi ritornato e mi ha detto: maledetto quel giorno che siamo andati in Israele, mi aveva detto. E’ uno di quelli che era venuto con il figlio di Mike Bongiorno a girarci quel documentario, L’esodo, ed è del Veneto, di famiglia ebrea ed erano finiti in quel campo lì. Poi sono andati in Israele e si vede che poi lui è ritornato. Ecco, noi siamo stati poi in questo campo e lì ho cominciato ad andare a scuola. Poi di lì ci hanno mandato a Mantova. Cioè, è venuto che il campo di Padova veniva chiuso e si apriva un campo a Tortona e un campo a Mantova, e allora c’era chi voleva andare a Tortona e chi voleva andare a Mantova. Noi abbiamo scelto di andare a Mantova, e siamo andati a Mantova nel novembre del ’46.
Antonio V.
Siamo andati a finire ad Altamura e poi siamo andati a finire a Tortona, e da Tortona a Torino. ... [Leggi tutto]
Siamo andati a finire ad Altamura e poi siamo andati a finire a Tortona, e da Tortona a Torino. Altamura... Erano sei chilometri da Altamura e sei chilometri da Gravine di Bari, e noi eravamo in mezzo. Era un ex campo di concentramento, tutto recintato attorno con filo spinato, e poi c’era la palazzina della direzione. E non c’era né polizia né niente. La polizia la facevamo noi, a turno, ci mettevamo noi nella guardiola, un gruppo, e la facevamo noi. E poi abbiamo avuto comunicazione con la popolazione, si, poi ci hanno conosciuti, perché [all’inizio] non ci consideravano: ma chi sono sta gente? Poi son venuti su le autorità di Altamura, l’orchestra e ci siamo poi amalgamati assieme. C’era un sussidio, non ricordo quanto, ma era quello che bastava per prendere un po’ di roba e cucinare, e basta.
Aldo S.
[Il campo] era un collegio attaccato alla chiesa di san Frediano a Lucca. Noi abitavano in piazza ... [Leggi tutto]
[Il campo] era un collegio attaccato alla chiesa di san Frediano a Lucca. Noi abitavano in piazza del Collegio, ma questo collegio era proprio attaccato alla chiesa. Noi per andare a messa la domenica non uscivamo, dal campo andavamo direttamente alla chiesa di San Frediano. Per dirle che tra le mura di Lucca c’era sto campo, c’era tutto quello che ci serviva, eh! Noi come si usciva dal campo profughi, in pochi passi eravamo già in via Finlungo, cioè la via principale di Lucca. C’era tutto. C’era le camere, l’infermeria che sembrava un ospedale - avevamo i medici, uno al mattino e uno al pomeriggio, gli infermieri per tutte le eventualità -, e i primi che sono arrivati hanno preso le camerette con i servizi com’erano, su [nei piani superiori]. E invece noi ci avevano messo sotto in un asilo, e non so anche lì quante famiglie [c’erano], che quando di notte ci giravamo ci urtavamo con gli altri! E poi... C’era una palestra, e lì hanno ricavato quattordici box ed eravamo quattordici famiglie. Ma non è che fosse stato immenso [lo spazio]: c’era tre metri per tre metri, per porta c’era una coperta, hanno chiuso non fino in alto, ma fino a un certo punto: sopra era tutto aperto e noi stavamo lì. Il primo anno ci davano da mangiare loro perché avevano una cucina grandissima, perché essendo un collegio c’era la cucina, c’era il campo da tennis per chi voleva giocare a tennis - e c’era qualcuno dei profughi che giocava a tennis, c’era della gente che stava bene, perché sono venuti via mica solo poveracci - c’era tutto. Avevamo le docce e tutto quello che serviva. Ci davano il pacco dono per la befana. Allora, per un anno c’erano le cucine che facevano da mangiare, e infatti facevano pranzo e cena: incominciavano con il caffè alla mattina e poi hanno tolto questo sistema qui e ci davano un sussidio. Ci davano un tot al giorno e ci si aggiustava: mio papà ha incominciato ad andare a lavorare, ha conosciuto un professore lì che aveva tanta campagna ed ha cominciato ad andare a lavorare in campagna. I primi giorni erano - penso - per mia mamma tremendi. Perché come siamo arrivati, [c’era] già la gente che ci guardava per strada. Però avevano ragione, perché ti vedi arrivare tutta sta gente...Venivano [a prenderci] con dei grossi carrettoni coi cavalli, prendevano tutta la roba che si poteva e ci portavano attraverso tutta la città e ci accompagnavano al campo profughi. Appena si arrivava. E ti guardavano come i marziani: quella volta nessuno sapeva chi eravamo, anche perché non se ne parla come adesso come gli extracomunitari. [Mi ricordo anche] che a Lucca c’erano molte tabacchine], ma erano in un altro posto, abitavano in un’altra parte, al Crocefisso. Lo chiamavano Crocefisso quella zona - non so [perché ] - e lì avevano messo a disposizione case e ognuno aveva la sua stanza. E lì c’erano tutte le tabacchine. [Arrivavano] da Rovigno, Dignano e da Pola. Tante famiglie di Pola [c’] erano a Lucca, che erano spostate in un’altra palazzina, sempre quasi di fronte alla Fabbrica Tabacchi. Lo so perché avevo tante amiche. Siccome io facevo la sartina a Lucca, andavo a consegnare i vestiti a queste signore, e conoscevo tanto. Lo chiamavano Crocefisso, lo chiamavano così. Era un quartiere proprio di fronte alla Fabbrica Tabacchi: erano case private, poi c’era una palazzina lasciata per tutta gente di Pola, sempre vicino alla Fabbrica Tabacchi. E noi ci andavamo spesso, perché andavamo al cinema - che con un biglietto guardavamo due film! - al dopolavoro della Fabbrica Tabacchi. A Lucca siamo rimasti quattro anni, e nel ’53 siamo venuti a Torino. Ma a Lucca mi è piaciuto, io ci andrei anche adesso a Lucca!
Argia B.
Noi a Marina di Carrara siamo stati quasi quattro anni e più, con la speranza di trovare un lavoro. ... [Leggi tutto]
Noi a Marina di Carrara siamo stati quasi quattro anni e più, con la speranza di trovare un lavoro. Ora, si sperava alle cave di marmo, si sperava anche a quell’industria della Dalmine che c’era, si sperava nel porto, perchè il porto lavorava coi marmi, con le esportazioni e tutte quelle cose lì, ma non abbiamo avuto queste possibilità. Il campo profughi ci assisteva, ci ha dato divisi questi cameroni enormi, queste camerate dei soldati, con delle coperte e con dei mobili - ecco il perchè abbiamo poi richiamato i mobili a Marina di Carrara - e con quei mobili e un cartone abbiamo ricavato uno stanzone, dove c’era anche un bollitore per mangiare e bere un caffé , o che i due bambini dormissero e i genitori avessero la loro intimità, la loro cosa. Però il lavoro lì era tutto estemporaneo, tutto a giornata: mio papà per esempio andava in campagna, e gli davano a giornata un bottiglione di vino, un po’ di frutta e quelle cose lì. E con quello e con quello che passava il campo, nel senso che faceva da mangiare la sbobba nei gamelloni, si viveva e si sperava. Mio fratello era un ragazzino e cominciava ad andare a scuola, io avevo appena cominciato le scuole elementari e ho fatto la prima, la seconda e la terza elementare al campo profughi di Marina di Carrara, perchè c’era la scuola nel campo. Esisteva una scuola, ma anche quella veniva ricavata da un camerone. Con dei banchi, neanche scolastici, e c’erano degli insegnanti del Provveditorato agli studi che venivano a insegnare. Ecco, voglio dire che le maestre, per i bambini, e il prete nel campo profughi - c’era sempre una chiesa eh!- erano comunque un punto di riferimento, perchè il prete, in effetti, anche in una promiscuità così, faceva a volte anche da paciere. Magari era uno che veniva dall’esterno, era uno che aveva già una piccola cultura - i preti, comunque studiano un pochino - e i direttori dei campi profughi erano funzionari della Prefettura molto preparati. E’ vero che magari qualcuno è stato anche cattivo, così, ma io parlo in generale, parlo del nostro che è stato una bravissima [persona]. Molti si appellavano, avevano bisogno di tante cose, e nei limiti del possibile erano, se non soddisfatti, almeno tranquillizzati. Non eravamo in un ghetto, nel senso che il campo era aperto, si entrava e si usciva e non ci sono stati grandi attriti con la popolazione. Certo, c’è parte che ti apprezza e differente parte che ti dice che gli vai a prendere il pane, ma questo capita dappertutto, è capitato anche in altri casi e in altri momenti del nostro vivere e della nostra Repubblica.
Fulvio A.
Siamo arrivati a Marina di Massa e ci han messo in un angolino con tre materassi distesi per terra. ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati a Marina di Massa e ci han messo in un angolino con tre materassi distesi per terra. C’erano delle stanze divise che ci stava un letto, il tavolo per mangiare e la spiritiera, che io per dormire dovevamo tirar fuori il tavolo e far scendere un materasso che dormivo per terra. Dopo ci han dato sta stanzetta e lì siamo stati cinque anni. Marina di Massa era una colonia, Colonia senese, si chiamava: ci saranno stati tre o quattro chilometri lungo la strada che andava a Carrara, e [c’]erano tutte colonie, c’era anche la colonia della Fiat, che noi andavamo a vendere le figurine, cioè gli portavamo le conchiglie e ci davano le figurine i bambini della Fiat. Era una colonia dove portavano i bambini d’estate, ed eravamo 5.000 persone e c’era anche dei greci. Ci facevano da mangiare, andavamo lì in fila e ci davano la pastasciutta, poi ci davano 108 Lire al giorno e noi ci facevamo da mangiare, andavamo a comperare. Come si poteva si viveva: eravamo tutti lì, c’era i gabinetti tutti insieme, c’era una spina che ci andavamo a lavare tutti insieme, come fossimo bambini in colonia. E lì, sai nella miseria e nella tristezza, ti unisci, ti attacchi, diventi fratello di tutti, ci si aiutava e questo e quell’altro. Giocavamo al pallone, i nostri genitori si davano da fare: io mangiavo cinque piatti di minestrone, mi stavo sviluppando, ero magro come un chiodo e mia mamma andava a fare i servizi, aveva conosciuto un medico e andava a fare i servizi in una pensione dove andava a lavare le lenzuola e le stendeva e prendeva qualcosa per darmi da mangiare. Io nel frattempo per guadagnarmi un po’ di soldi andavo a vendere le pantofole in bicicletta a Sarzana, Forte dei Marmi e Massa, mi davo da fare così. A Marina di Massa andavo tutte le mattine in bicicletta da Marina di Massa a Massa, a scuola: ho fatto fino alla terza avviamento, che io a scuola non ero mica tanto [bravo]! Son stato promosso perché il professore di ginnastica mi ha detto: se salti un metro e settanta ti faccio passare. Cosa ha detto? Mi son messo a saltare e mi ha dato una mano, ecco.
Franco S.
Mio padre che era un uomo sempre molto elegante, eccetera, mi diceva sempre che non aveva i soldi ... [Leggi tutto]
Mio padre che era un uomo sempre molto elegante, eccetera, mi diceva sempre che non aveva i soldi neanche per le sigarette, niente. E all’inizio è andato a pulire i gabinetti del campo, per prendere un po’ di soldi. “[Poi ha aperto] lo spaccio all’interno del campo di Monza, e quindi di soldi ne ha fatti. [Anche se] ho ancora i quaderni vecchi dove segnava tutto, e quanta gente ha aiutato mio padre! Perché segnava per quelli che non potevano, per chi era senza lavoro e gli diceva non importa, pagherai. E io ho tutti questi libri scritti. E pensi che a Monza il prete [del campo] diceva: i profughi vengono a messa alla 9,30, perché quella delle 11,00 o delle 11,30 è quella dei signori. E deve anche sapere che mio padre, avendo lo spaccio, dava la spesa gratuita al prete. Sia al prete che al direttore [del campo]. Allora dopo una messa delle 9,30, sto prete dà le caramelle ai bambini e dice a mia sorella: tu non ne hai bisogno, perché tuo papà ha il negozio! Mio padre faceva tutto lui: aveva uno spaccio dove vendeva tutto, dalle stringhe alla pasta, alla verdura e al latte. Poi c’era il baruccio - ho ancora i bicchierini - anche perché vicino [alla Villa Reale] c’era la scuola d’arte, e quindi venivano gli studenti e i professori a comperare i panini col salame o con la mortadella. Quindi lui faceva tipo bar. Invece a Cremona non c’era assolutamente niente, era umido, c’erano le pantegane e di lì [per qualsiasi cosa] bisognava uscire.
Rita L.
Loro [i vertici del campo] dicevano domani [si parte]. Allora noi [che] avevamo un cassone ... [Leggi tutto]
Loro [i vertici del campo] dicevano domani [si parte]. Allora noi [che] avevamo un cassone mettevamo tutto dentro [ e ci preparavamo]. [Poi] da Giarre ci han portato a Modena: ci han portato in stazione e siamo partiti per Modena. Quindi in Sicilia siamo stati un annetto.
Giorgio B.
A Modena siamo andati nel ’46. In un paese così [come Giarre] lavoro non lo trovavi. Invece a ... [Leggi tutto]
A Modena siamo andati nel ’46. In un paese così [come Giarre] lavoro non lo trovavi. Invece a Modena c’era già più possibilità. [A Modena stavamo] nelle scuole vicino alla questura e vicino a un parco - non mi ricordo come si chiama - dove correvano con le moto e dove ci passava anche la mille miglia. [Queste scuole] erano in centro, poco lontano dalla piazza dove c’è il duomo. [Con noi] c’erano anche dei meridionali, [che] erano lì ma non si sa perché . Erano di Bari. Avevamo i cameroni divisi con le coperte: [nella nostra camera] noi avevamo [la famiglia] N. da una parte e il cognato di N. dall’altra e c’era la coperta che divideva. Poi sul più bello, che stavi un po’ più bene, ti smistavano in un altro campo, ti mandavano via. Anche perché poi lì gli servivano le scuole. [A Modena] siamo stati sei o sette mesi, perché io ho fatto una classe lì, ho fatto la terza. [Siamo stati a Modena] nel ’46, [perché ] nel ’47 eravamo già a Servigliano.
Gigi B.
Noi chi ci manteneva, era l’ex ministero dell’Africa Orientale, che ci manteneva lì a Modena. ... [Leggi tutto]
Noi chi ci manteneva, era l’ex ministero dell’Africa Orientale, che ci manteneva lì a Modena. Comunque anche lì a Modena non c’era niente, era una scuola: [c’erano] dei cameroni divisi con le coperte e gli spaghi. Non c’era niente. Eravamo vicino all’ospedale militare, però avevamo un dottore che veniva lì al centro. Assistenza medica c’era, però per le cavolate.
Giorgio B.
Siamo arrivati a Mantova nel ’46, a novembre. Poi un anno dopo, un anno e mezzo dopo, per dirti ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati a Mantova nel ’46, a novembre. Poi un anno dopo, un anno e mezzo dopo, per dirti tutte le cose che sono successe nei campi, tanti episodi, [ti racconto] un episodio solo. Volevano mandarci - era il periodo di Scelba - a Catania, al campo profughi di Catania, e allora lì c’è stata una sommossa nel campo. Eravamo dei giovani - il maestro M. che suonava il mandolino, un altro che suonava la chitarra - e avevamo composto sulla parodia della Capinera una canzone. E per tutti i padiglioni alla sera han cominciato a suonare e la gente si raccoglieva, cantando tutti questa canzone - perché tutti avevano imparato prima le parole - davanti alla direzione, tutta la notte, a cantare questo ritornello: ”Don Vareschi ieri ci ha esortato alla speranza, ma lui non g’ha pensieri né per il tetto né per la panza. Ei g’ha racomandato per Scelba de pregar, ma il dio s’è più sensato se lo farà crepar - cioè a Scelba -, e cominciava così: oggi s’è trenta o più fioi, one e ragazzi, ndemo a ciapar su le nostre quatro strazzi, e quando l’alba spunterà, ci troveremo en strada e faremo na ridada”, ma proprio cantata. E allora è venuto fuori sto Don Vareschi, che era un prete mantovano - cappellano militare - che io non ho mai visto un prete così. Lui, le 27.000 Lire che gli davano - quella volta mi ricordo che i preti prendevano dallo stato - lui le distribuiva a tutti, ai poveri. Lui non fumava, ma aveva sempre le sigarette, ai ragazzi e ai giovani dava sempre le sigarette: insomma, era una persona - non so come dire - avrebbero dovuto farlo santo! Fanno santi quelli che non meritano e però quelli vengono poi lasciati da parte. E’ venuto fuori [don Vareschi] e piangeva, piangeva come un bambino...Mi commuovo ancora a vederlo e a sentirle quelle cose là! E io poi ho fatto quattro anni di chierichetto, perché lui diceva ah, dai, vien con me lucot! Perché lui era un prete così... Poi dopo han cambiato l’ordine, e hanno aperto per Torino, per la destinazione Torino: chi voleva andare a Torino e tanti - anche noi - siamo poi venuti a Torino.
Antonio V.
A Servigliano siamo stati un anno, dal ’47 al ’48, [poi siamo arrivati a Mantova]. Dovevamo venire ... [Leggi tutto]
A Servigliano siamo stati un anno, dal ’47 al ’48, [poi siamo arrivati a Mantova]. Dovevamo venire prima, [però] abbiamo rimandato perché mia mamma stava male ed è andata all’ospedale. Noi siamo quindi stati due anni a Mantova. [Siamo andati] a Mantova perché da Servigliano abbiam voluto noi venire su. Hai visto le Casermette [di Torino] ? Allora, le Casermette di qua, [a Mantova] era la stessa cosa: erano tre padiglioni da una parte e quattro dall’altra, perché uno era crollato, perché era stato bombardato, ed era quello dove si facevano le feste da ballo. Erano padiglioni, poi c’era dove c’erano le docce e dove c’erano i servizi. Come le Casermette, uguale. Anzi, peggio! Peggio perché qui a Torino i padiglioni erano divisi da una parte, a Mantova no.
Gigi B.
[A Mantova] devi capire che non c’era niente! Tra tutti, bambini e altro, saremmo stati 500, ... [Leggi tutto]
[A Mantova] devi capire che non c’era niente! Tra tutti, bambini e altro, saremmo stati 500, eravamo pochi. [Però] eravamo come fratelli, tutti quanti. Come fratelli: se c’erano sigarette, c’era una sigaretta per tutti. Lì soldi non c’e n’erano!
Giorgio B.
Siamo sbarcati e dopo ci hanno portato a Padova qualche giorno, in un campo provvisorio. [A] Padova ... [Leggi tutto]
Siamo sbarcati e dopo ci hanno portato a Padova qualche giorno, in un campo provvisorio. [A] Padova c’era molto poco: avevamo i castelli per dormire [i letti a castello], e niente... Mi pare che sono uscito un paio di volte dal campo a comprare un giornale o cose così, ma dopo pochi giorni ci hanno portato a Mantova. [Il campo] a Mantova era una caserma: [noi stavamo] in dei box - li chiamavano box -: uno, due, tre. Poi dentro c’era il bar, era una caserma, degli ambienti un po’ grandi. E allora non poteva prendere una famiglia un ambiente, dovevamo con le tende dividerci: c’era una famiglia qua e una là, però divisi dalle tende. [Lì] ci davano da mangiare: dovevamo andare in fila con la gavetta, e lì ci davano un mestolo e poi uno doveva andare nel suo tugurio e mangiava. Sono andato in un negozio di decoratori, e mi hanno preso per qualche giorno, finché ho fatto un lavoro. E lì non ero ancora con mia moglie, e portavo a casa, finché comprare qualche cosa. E non avevamo niente.
Giovanni R.
A Mantova saremmo stati 700-800, ma forse anche meno di 700. Eravamo fuori Mantova, in un campo ... [Leggi tutto]
A Mantova saremmo stati 700-800, ma forse anche meno di 700. Eravamo fuori Mantova, in un campo profughi. Eravamo vicino[a una] statale, eravamo vicini a un manicomio, addirittura. Me lo ricordo bene! Col tram che passava lì, che portava al centro della città. Lì era più piccolo, e si stava già un pochettino meglio, perché c’erano i box nei cameroni, non più coperte, era già un po’ migliore, era un pochettino migliore. E anche lì, andavo a scuola a Mantova e lì siamo stati venti mesi e poi abbiamo avuto il trasferimento [a Torino]. C’era una sala dove veniva distribuito qualche volta [il cibo]: c’è stato un periodo che ci hanno dato la diaria e si cucinava da soli, però qualche volta c’era un grande salone dove facevano qualche cosa, ma poca roba. Si, feste e cose così. Invece Laterina assolutamente, quello è un posto proprio da dimenticare! C’era qualche volta che facevano alla sera qualche festa, però uno come usciva dalla capannona, come usciva dalla casermona, uno usciva e di qua [nel senso molto vicino] c’era il campo. E cosa ci andava? C’era uno che aveva un pallone, due calci o magari ci mettevamo lì a sedere a contarcela un pochettino. [Poi c’era] quelli che [gli] piaceva ballare... Ma facevano anche questi intrattenimenti lì [al campo]: magari c’era una sala in cui suonavano, c’era qualcuno che suonava la fisarmonica e ballavano così, nei padiglioni. Noi eravamo abbastanza distanti da Mantova, non so quanti chilometri erano... la gente che andava nella città di Mantova, magari andavano per comprare qualche cosa o per fare una passeggiata. Però è difficile che facendo una passeggiata potessero fare delle amicizie. Qualcheduno magari avrà fatto anche delle amicizie, però io dico che i contatti erano abbastanza limitati, perché non è che ste caserme erano dentro la città, erano abbastanza fuori. Tanto bisognava andare e andavano quei gruppi con questo tram che andava proprio nel centro, dove c’era un grande teatro, e lì poi si sparpagliavano un pochettino, andavano a visitare quelle cose da visitare o comprare quello che li interessava. Però è difficile, non potevano legare tanto, perché non avevano neanche il tempo, dovevano poi tornare indietro. Non è che dicevano: sto tutto il giorno ai giardini e poi vado a casa. [Io] diciamo che nell’insieme, andando a scuola, avevo trovato dei ragazzi che erano bravi. Poi io, insomma, facendo un po’ di sport si faceva facile amicizia, anche coi ragazzi del posto o cosa. Tant’è vero che si faceva scuola - si faceva l’industriale- e dovevamo andare qualche volta anche al pomeriggio a scuola. E [c’] erano diversi miei compagni di classe che tante volte dicevano: Mario ti fermi? Vieni, mangia qua così non vai fino a casa... Pertanto siamo anche stati trattati abbastanza bene.
Mario M.
A Chiavari siamo arrivati nella colonia di Mussolini, che [anni dopo] è andato anche mio figlio con ... [Leggi tutto]
A Chiavari siamo arrivati nella colonia di Mussolini, che [anni dopo] è andato anche mio figlio con la Fiat. Sa quelle colonie come a Marina di Massa, e anche qui al Sestriere c’è la colonia Mussolini. [A Chiavari] si stava bene, perché lì il mangiare ce lo davano buono, poi il fatto che lì ci hanno messo all’ottavo piano. Perché sotto, al primo piano, c’era l’infermeria, c’era anche l’ascensore, però [andavamo] tutti a piedi, per forza, con tante persone che c’erano! Mia zia l’hanno messa al secondo piano perché lei era vedova. Le separavano le vedove, loro avevano la preferenza, perché non avendo il marito... Il secondo piano era tutto delle vedove, ci han divisi così. E lì siamo stati venti mesi, ma siamo stati bene. Perché da mangiare, le cose che ci davano! Di tutto! E poi noi, essendo in cinque, noi bambini prendevamo la porzione dei grandi. Poi per mio fratello piccolo di venti mesi [c’era] un pranzo speciale, perché era come un ammalato, gli davano il dolce e tutto. Anche agli altri, ma a lui di più. Ecco, il pranzo che gli davano al mio fratellino ci bastava per tutti e quattro gli altri. Perché mio papà è andato sempre a lavorare con il camion: andava a Genova e aiutava nel mangiare, andava ad aiutare la cucina. Lavorava nel campo: lavorava, aiutava e quindi aveva pezzi di formaggio, insomma prendeva sempre qualcosa. Però, quello che ci davan da mangiare era una grazia di Dio! Al primo piano c’era il refettorio, c’erano dei tavoli rotondi e noi eravamo quasi sulla punta del mare, perché eravamo in dieci, c’era anche mia zia. [A Chiavari era] tutto pieno, tutto pieno! Pensi che stamattina contavo. Noi eravamo all’ottavo piano, eravamo sulla punta e avevamo la finestra. Perché c’era l’angolo che divideva le colonne, ma c’era solo un muretto che divideva l’altra parte del piano. Perché il piano era grande, però avendo le finestre in mezzo, c’era un muretto che divideva un camerone dall’altro. C’erano dei cameroni, due cameroni. Nel nostro camerone eravamo sette, e poi combinazione c’era anche la zia di mio marito, guardi che destino. Avevamo sette brandine e due o tre di sua zia: in dieci eravamo. Ed eravamo divisi dalle coperte, perché poi dall’altra parte ce n’erano altri dieci. E stamattina contavo: erano quaranta persone per piano, senza le stanze per le persone anziane. Infatti prima dell’ascensore, a destra e a sinistra, c’erano due stanze per parte. E lì eravamo solo giuliani. I greci li abbiamo trovati a Torino, lì erano tutti nostri. La colonia era in centro al paese, [ma] lì nel campo non c’era niente. Si, c’era il cinema, adesso non mi ricordo... Ma era in paese. Anche se lì non era un campo recintato, c’erano solo abitazioni, non era come alle Casermette con il recinto. C’era solo un cancello, e basta. Che io dopo tanti anni, con il gruppo anziani del comune sono andata anche a vederlo. Pensi che noi stavamo in spiaggia, e mia mamma al pomeriggio ci buttava il panino dall’ottavo piano, si figuri. Adesso si ride, ma allora. Perché , scusi, otto piani son tanti, dicevo a mia mamma buttami giù il panino. E lei lo buttava.
Maria Mn.
In quel momento che siamo entrati là [a Laterina] un celerino - un ufficiale o non so chi era - che ... [Leggi tutto]
In quel momento che siamo entrati là [a Laterina] un celerino - un ufficiale o non so chi era - che era di Castiglione Fiorentino, aveva chiesto alla mamma se voleva metterci in collegio. Però la mia mamma aveva paura che ci mettesse in orfanotrofio, e ha detto no. Però, se noi ci lamentiamo come siamo stati trattati nei collegi... Allora, io ricordo che l’unica volta che sono stata in un collegio pagato dai giuliani dalmati, ma messa in un orfanotrofio [è stata] perché non ero stata promossa con la media dell’otto: sono stata messa a San Giovanni Valdarno, vicino a Laterina. Che di normale mi mandavano a Volterra, a Roma o a Nisida, vicino Napoli, perciò eravamo in collegi bellissimi. Quell’anno lì, perché non ero stata promossa bene, mi hanno mandato per punizione a San Giovanni Valdarno, e lì sono stata male! Ma lì perché era un orfanotrofio, perché altrimenti nei nostri collegi guardi, chi aveva voglia di studiare e di essere bravi poteva. Certo, c’era l’obbligo, la disciplina, però c’era la libertà: non andavamo né in chiesa né avevamo nessuno che ti obbligava lì, col fucile [puntato]. Innanzitutto avevamo tutta gente civile, né suore né niente, erano tutti laici, eravamo tenuti bene, però, eravamo sempre lontani dalla mamma. [Funzionava che] l’Opera Nazionale Giuliano Dalmati andava nei vari campi, chiedeva quanti bambini c’erano e che classe facevano. Però quest’opera qui chiedeva allo stato italiano che ci desse una borsa di studio a valore voti e ci manteneva. Mi ricordo che pagavano 18.000 Lire al mese per ragazzo. Perché quando mi hanno mandato a San Giovanni Valdarno, con le mie 18.000 lire vivevamo sette bambini, perciò erano tante. Poi ci mandavano il primo anno, e se eravamo bravi continuavi a goderti. E difatti la maggioranza di noi, i nostri studi li abbiamo avuti grazie al collegio, perché se no la mamma non ci avrebbe mandato sicuro, né a diploma né a niente, per carità!
Nirvana D.
[Su] Laterina volevo ancora dire due parole... Forse è stato uno dei campi più tristi che c’erano, ... [Leggi tutto]
[Su] Laterina volevo ancora dire due parole... Forse è stato uno dei campi più tristi che c’erano, perché non era un campo tanto attrezzato o cosa. Abbiamo tribolato un pochettino lì. Perché quando siamo arrivati lì - questo qui era a gennaio, fine gennaio del ’49, gennaio o febbraio, non mi ricordo - io mi ricordo che mia mamma si è messa a piangere. Dice: dove vi ho portati, dove vi ho portati! Una cosa da non credere entrare in questo campo: ci hanno dato una baracca con i pagliericci di paglia, di pannocchia, con un quadrato con delle coperte e [mia madre] dice: ma dove vi ho portati? Dove siamo finiti? Ecco, quella forse è stata una delle più grosse delusioni che ho avuto. Quella sistemazione che avevamo era proprio triste. Triste, triste, triste. Noi lo chiamavamo Giarabub. Quando c’è nel deserto il ghibli, il vento del deserto, noi la chiamavamo così. Perché era vicino l’Arno, in una pianura sabbiosa e quando c’era sto vento o delle turbolenze o cosa, si sollevava dei polveroni che non finivano più. E allora l’abbiamo chiamata Giarabub. A Laterina io penso che eravamo intorno ai 1.500, penso, adesso non so di preciso: c’erano dei vecchi casermoni grossissimi, con delle separazioni interne di coperte, degli spaghi cui appendevi le coperte. Il paese era sopra, in collina, e noi eravamo sotto lì. Aspettavano di trovare una sistemazione, di trovare un posto di lavoro o di essere trasferiti nei centri... Tutti quanti aspiravano ad essere spostati verso una città, in modo particolare - la direzione maggiore - a Torino, dove c’era l’industria, perché si sapeva che chi riusciva ad andare a Torino, c’era la possibilità di impiegarsi. C’erano i sussidi e si tirava avanti così. C’era un capannone che si viveva con la separazione di coperte e c’erano i bagni come ci possono essere in una caserma. Alla fine della caserma c’era quella serie di bagni che non è che se eravamo venti famiglie potevano essere venti bagni. Magari c’è n’era un paio, con la chiave o cosa, però certo che... In quel periodo lì forse non si guardava tanto, ma adesso se dovevano mettere qualcheduno dentro non so se ce lo metterebbero. Il cibo andavamo a prenderlo: lo facevano in quei marmittoni grossi e si andava a prendere, e a seconda dei componenti della famiglia davano una certa quantità di cibo, e si mangiava così. A Laterina ero a scuola e nel pomeriggio dopo che si usciva da scuola, avevamo un campo sportivo a cento metri e si andava a giocare. Tant’è vero che quando è mancato il Grande Torino - me lo ricordo bene, il 4 maggio del ’49 - noi eravamo in un campetto che giocavamo, e c’era uno che aveva una radiolina - che non so come aveva fatto a prenderla - e davano queste notizie che era mancato. E [il tempo libero] su passava più o meno giocando a pallone. Giocando a pallone... Il tempo maggiore che io ho passato è quello di giocare in particolar modo a pallone.
Mario M.
Quando ci hanno portati lì [a Laterina]... Oh, che peripezie! Siamo andati in treno fino a Firenze, ... [Leggi tutto]
Quando ci hanno portati lì [a Laterina]... Oh, che peripezie! Siamo andati in treno fino a Firenze, da Udine a Firenze: adesso non ricordo più il tempo. Quando siamo arrivati a Firenze, dovevano venirci a prendere i camion dei militari. E sono venuti a prenderci i camion dei militari, perciò ne mettevano un tot dentro e ci hanno portato in questo campo profughi. Dunque, Laterina si trova tra Arezzo e Firenze: tra Firenze e Laterina mi sembra ci siano settantadue chilometri - perché poi sono andata di mia idea - e da Arezzo a Laterina ci sono trentadue o trentotto [chilometri]. [Laterina] è in mezzo alla montagna, tra Ponticino e Montevarchi, è un paesetto messo sulla montagna; però il campo era in pianura, in mezzo a una conca. Erano delle caserme di militari - proprio caserme - lunghe e strette, con i gabinetti in una caserma, sempre, e il tratto di lavandini come si lavano i soldati, con il rubinetto lungo. Ecco, quello lo ricordo bene, perché lì andavo a lavare i piatti. Siamo arrivati [di] pomeriggio: noi siamo arrivati a Laterina il pomeriggio, che faceva freddo, e ci hanno messo in queste camerine. Eravamo trentotto: eravamo della gente fiumana, della gente di Parenzo...Mescolata, ecco. E la famiglia più grossa era la mia mamma, con cinque figli e questo zio. E quando siamo arrivati a Laterina, anche lì, subito, ci hanno dato da mangiare loro, e lì eravamo osservati giorno e notte dalla polizia, dalla celere. Diceva la mamma: state attenti perchè c’è la celere, e se uscite vi spara! Ed erano fuori, perché fuori dal campo profughi era tutto segnalato esternamente dalle mura. Lei ha presente a Torino in via Veglia? Ecco le mura dopo via Veglia - questo a Torino - avevano delle matasse di filo spinato - matasse alte due metri o due metri e mezzo, tipo ruota- e le entrate di questo campo erano due o tre entrate - con i portoni rotondi- e la celere fuori. [Un arrivo] traumatico, traumatico finché voleva! E, insomma, noi siamo entrati a dicembre, e siamo rimasti, noi con la mamma, fino al 6 di gennaio. Perché in quel momento che siamo entrati là, un celerino - un ufficiale o non so chi era - che era di Castiglione Fiorentino, aveva chiesto alla mamma se voleva metterci in collegio. Però la mia mamma aveva paura che ci mettesse in orfanotrofio, e ha detto no. Ma nel frattempo la mamma ha cominciato a cercare di fare qualche cosa: magari chiedeva a qualche celerino se la moglie aveva bisogno di [qualcosa]. Invece non si poteva uscire, e la mamma l’han messa a lavorare dentro, e l’han messa di nuovo in cucina. Era in cucina, faceva da mangiare per tutti, ma aveva la specializzazione dell’infermieristica - che nel campo eravamo tanti, eravamo 11.000 e c’erano circa 5.000 bambini, perché poi c’è stata anche un’epidemia - però da dicembre a gennaio - non so se c’era un bando dei collegi giuliano e dalmati se la mamma ci voleva mandare in collegio - la mamma ci ha mandato. Ci ha fatto domanda, e siamo stati presi tutti, meno che la più piccola, perché la Claudia non aveva sei anni quando è venuta in Italia, e [per essere ammessi], bisognava avere sei anni, bisognava andare a scuola. E allora io e mia sorella siamo state mandate a Volterra, mio fratello e l’altro fratello sono stati mandati a Cividale, vicino Udine. E abbiamo cominciato a fare le nostre scuole regolari: lì facevamo le scuole croate, e in Italia abbiamo dovuto riprendere. E siamo stati in collegio: la distanza era tanta, la mamma non poteva venirci a trovare, e le cartoline postali venivano lette sia nel collegio che dalla celere prima di entrare nel campo profughi. E intanto, piano, piano, la mamma aveva messo un po’ a posto questo camerone, lo aveva diviso con dei pezzi di legno, a fare un box. Sa, ognuno si è aggiustato nella maniera migliore che si poteva, perché in campo siamo stati dal ’48 al ’53. Noi tornavamo a casa solo a Pasqua, Natale e finite le scuole e stavamo nel campo. E ad esempio mi ricordo [che in campo] mettevamo l’acqua per la pasta - che la mamma cominciava magari a portare un po’ di pasta dalla cucina- e aveva fatto un focolare con i mattoni - ha presente, quattro mattoni con un buco in mezzo- e diceva alla mia sorella più piccola: mi raccomando, fai bollire l’acqua. E cominciavamo a far bollire l’acqua dalle 9 del mattino, aggiungevamo acqua e mettevamo sale per cucinare sta famosa pasta. Ecco, quello mi ricordo. Poi mi ricordo di uscire nel periodo estivo, di fare dei buchi nel filo spinato e di uscire. Siccome in Toscana c’è tanto tabacco, e uva - che l’uva non è come qui, non sono filari, ma sono alberelli - e ricordo che mio fratello più vecchio ci portava fuori, e andavamo a rubare il tabacco, a rubare l’uva, a rubare la gallina! Mi ricordo queste cose! Mi ricordo che scappavamo fuori, andavamo a Laterina paese e la celere ci riportava con la loro jeep a casa dandoci gli sculaccioni! Perché non si poteva uscire. [Nel campo] c’era disciplina: non si poteva uscire. Noi minori non potevamo uscire, perché per uscire dovevamo essere contattati con la mamma o con una persona maggiorenne. No, no, c’era disciplina, c’era, c’era. C’era un lasciapassare: so che la mamma aveva un lasciapassare per uscire. E ricordo che anche io che andavo a comperare fuori... Dal campo profughi a Laterina mi ricordo che c’era uno stradone - che oggi noi la chiameremo stradina, ma che per noi era una stradone, allora - poi c’era una mezza curva e lì c’era - chiamiamolo - un alimentari. E io andavo a comperare lì, che vendeva di tutto. E mi ricordo che mia mamma mi diceva: non comprare niente che tu spenda soldi! Sa, caramelle, cioccolata...Che c’era la cioccolata bianca... In campo c’erano però regole rigide, si,si. Poi c’erano le scuole, le elementari. Poi a Laterina asilo no. Non c’erano [nemmeno] luoghi di ritrovo; c’era un campo - chiamiamolo - sportivo dove i ragazzini giocavano a pallone, e poi c’era una chiesa fatta sempre in un capannone come il nostro dove c’era un sacerdote, Don Ernesto, e poi delle suore, ma non so che suore erano. C’era una chiesa che questo sacerdote veniva da fuori, e allora teneva...Perché ricordo che [le suore] nel periodo estivo, quei pochi mesi che ero a casa, mi insegnavano a fare il punto croce, mi ricordo. Però sempre in un capannone tipo ricreazione, tutto lì. C’era un sussidio molto basso, adesso non so quanto, non ricordo. Ma so che c’era qualcosa, perché la mamma mi mandava a comperare fuori - o me o mia sorella - e mi faceva stretti sti soldi e diceva: guarda che devi andare fuori a comperare magari tre etti di farina bianca per fare lei il pane... Mi ricordo si che c’era qualcosa. Ad esempio la mia mamma era molto debole a livello polmonare e allora si usava un cotone che si chiamava Termogel, e questo lo ricordo perché ci mandava a compararlo in farmacia. E per comprare questo famoso cotone, dovevamo avere la scritta della mamma che se lo metteva lei, che lo usava per riscaldarsi, perché era molto debole. E ricordo una mattina che mio fratello - la mamma ci preparava il latte in queste famose pentole che le lucidavamo tutto il giorno per farle venire lucide con la sabbia e mia mamma finché non le vedeva lucide ci sgridava, e allora io le mie sorelle lucidavamo le pentole- un giorno involontariamente non le è caduto un pezzo di questo Termogel nel latte e nel caffè? Lo abbiamo bevuto e ci siamo avvelenati tutti e cinque. Ricordo che suonavano le sirene... E io forse son stata quella che ne avevo bevuto meno perché non ne avevo voglia o non so, e quelli che ne avevano bevuto di più, hanno avuto tutti il lavaggio gastrico perché stavano proprio male!
Nirvana D.
[A Catania siamo finiti] in un campo profughi [che] si chiamava Cibali. Era una caserma di cavalli, ... [Leggi tutto]
[A Catania siamo finiti] in un campo profughi [che] si chiamava Cibali. Era una caserma di cavalli, cioè era una caserma della cavalleria, e infatti so che c’erano i cavalli dove ci avevan messo a noi. Cioè, non c’erano più i cavalli, comunque eravamo lì. A eravamo noi giuliani e dalmati, anche dalmati. Greci no perché erano già andati via nel ’51, c’eravamo solo giuliani e dalmati Eravamo in un camerone con delle coperte divise: c’era promiscuità, ma non siamo stati tanto, perché poi ci han dato la casa popolare, E lì a Catania siamo stati accettati abbastanza bene, molto meglio che qui al nord.: ci chiamavano piemontesi, perché nella Sicilia di allora se uno era biondo e aveva gli occhi chiari [come me] era un piemontese!
Giulio R.
[A Calambrone] c’era un centro di raccolta profughi, ed era una vecchia colonia, che si chiamava ... [Leggi tutto]
[A Calambrone] c’era un centro di raccolta profughi, ed era una vecchia colonia, che si chiamava colonia marina di Firenze, e qualcuno l’aveva anche definita Colonia Pontificia di Firenze. Sarà stata anche una colonia del Vaticano, comunque siamo arrivati in questo posto che, come dire, era proprio una bella colonia! Aveva un grande palazzo nel centro dove c’erano gli uffici con dei corridoi tutti chiusi e poi c’erano le cosiddette caserme, cioè dove andavano a dormire i villeggianti, delle colonie. E lì ci avevano dato uno spazio per stare: c’erano sei braccia sia verso il mare, sia all’interno del campo, e in questi sei bracci dovevamo sistemarci. E sistemarci voleva dire che ci davano a disposizione quattro metri per quattro, e quindi un grande camerone diviso con dei fili di ferro divisi con le coperte. Quattro metri per quattro metri, e lì si viveva con un letto - quello che c’era - e con un fornello a carbone. In questi quattro metri [noi] abitavamo in cinque. Ricordo [anche che] il campo era misto, perché venivano anche dalla Tunisia o da altre [parti] - saremmo stati non so, dico un numero, 250 - e [che] c’era un ufficio anagrafe e le scuole. Però siccome io dovevo andare alle medie ma non potevo perché non avevo la quinta, io ricordo che ho fatto la quinta elementare in una colonia fuori dal campo, lì vicino, [alla] Colonia Monterosa. Però lì stavamo bene, perché il mare lo avevamo a 150 metri, ci spogliavamo, facevamo due corse e via, nell’acqua. Da marzo fino a settembre eravamo in acqua, e per noi era una pacchia! A Calambrone siamo stati un anno e mezzo e i primi mesi andavamo con la gavetta in fila per prenderci il rancio, sempre in campo. Era proprio una specie di campo militare: c’erano grandi pentole ed era appunto gestito dai militari. E, piaceva o non piaceva, ci davano da mangiare quel che c’era. La razione era quella, punto. Abbiamo vissuto in questo modo un po’ di tempo e dopo ci facevamo noi da mangiare, ci davano un sussidio che era proprio una miseria, mica come quelli di oggi che hanno tutto, e hanno anche il rispetto! Insomma, eravamo trattati veramente come bestie. Per potersi arrangiare bisognava uscire dal campo, e cioè ritirare la buonuscita. Però per uscire bisognava trovarsi un lavoro. Però allora sia mio padre, sia i miei fratelli non avevano assolutamente possibilità. Si faceva solo qualche lavoretto così, tra di noi. Eravamo dei mantenuti, praticamente. Ma molto male! [L’unica cosa] ricordo ce la diedero appena arrivati le vecchie assistenti della colonia: avevano portato, per e mio fratello una sciarpa di lana, dei guanti fatti a mano e del pane bianco: mamma mia, per noi era una grande festa! Ecco, questo si, ma da parte dell’amministrazione del campo [non abbiamo] mai avuto niente, non abbiamo mai avuto nessuna cosa. [Ogni tanto] ci davano dei pacchi dell’UNRRA, che venivano dall’America, dagli inglesi, ecco, quello si. Ma [ce li davano] ogni tanto, non so, uno ogni quattro o cinque mesi. Mi ricordo ancora adesso le scatole con i fagioli, lo zucchero, il latte condensato - che noi ne eravamo ghiotti - i formaggini di cioccolato, i cereali e per noi era una grande festa! Ecco, quello si. Poi, dopo, la gente si arrangiava: [ad esempio] c’era [anche] una persona molto brava, perché vicino al campo profughi c’era l’ospedale SMOM, che era l’ospedale dell’Ordine Militare di Malta, e mi ricordo che il mattino andavamo a prendere sotto la sabbia una bottiglia di caffelatte che, di nascosto, questo signore ci dava. Oppure io e mio fratello andavamo nelle colonie, perché lì intorno era tutto colonie, andavamo nella colonie dei figli di italiani all’estero a prendere i fondi del caffè che loro buttavano via - noi li chiamavamo i fondacci - per fare il caffè, e facevamo il caffè così! Quindi altro che assistenza, eravamo abbandonati a noi stessi! E a questo SMOM andavamo anche alla messa e a divertirci al cinema.
Luigi D.
[Avevamo] dei sussidi... Fino a che eravamo a Udine ci davano da mangiare con la gamella e invece a ... [Leggi tutto]
[Avevamo] dei sussidi... Fino a che eravamo a Udine ci davano da mangiare con la gamella e invece a Gargnano uno cucinava per conto proprio, [ognuno] aveva la sua cucina. E come sussidio ti davano un tot, ma noi siamo stati solo quaranta giorni. E poi una volta rinunciato al sussidio, noi siamo andati via dal campo che si pagava un poco di affitto e avevamo camera e tinello. Una volta che tu vai ad abitare fuori, non hai più diritto di niente.
Alma M.
Avevamo il sussidio, [che è quello] che mi ha fatto sentire in colpa per secoli, seculorum amen! Ci ... [Leggi tutto]
Avevamo il sussidio, [che è quello] che mi ha fatto sentire in colpa per secoli, seculorum amen! Ci davano un sussidio - io non so di quant’era - però ci aiutavano fino a che le persone non trovavano un lavoro. [Poi mi ricordo che ad esempio] mia sorella siccome era molto debole [di salute], la mandavano in colonia a Pietraligure, perché noi avevamo anche le nostre colonie dove ci mandavano. Mi hanno mandato alle foci del Timavo: c’erano le colonie dove mandavano i figli di questi profugacci! Mia sorella stava molto male, era proprio debole di salute e l’hanno mandata in questa colonia a Pietraligure. [Poi] mi ricordo i pacchi dono, che erano cose americane, che c’era del formaggio favoloso che vorrei rimangiarlo! Era tipo formaggino, e quelli erano gli aiuti americani, perché so che ci dicevano che [quello] era tutto mangiare americano. Arrivava solo cibo, vestiti no. Eravamo vestiti come degli zingari! Vestiti no, [non arrivavano].
Rita L.
Ognuno si arrangiava per conto suo. C’era il sussidio, che non so quantificare di quanto fosse, ma ... [Leggi tutto]
Ognuno si arrangiava per conto suo. C’era il sussidio, che non so quantificare di quanto fosse, ma ricordo - e le ho qui davanti a me - delle carte che si faceva domanda a sua eccellenza il prefetto per avere il sussidio. Qualcosa c’era. So che arrivava qualcosa; poi ricordo che c’erano le scarpe e generalmente chi cresceva le passava a chi non le andavano più. Io mi ricordo che ho fatto fino a dodici o tredici anni con le scarpe con sotto il cartone, coi buchi, perché qualcuno le buttava via e io le prendevo e mettevo la carta, solo che se pioveva ed entrava l’acqua! Ho sempre avuto vestiti degli altri, [ero] povero tra i poveri, e son convinto di questa frase, perché era così. D’altronde con due figli piccoli, mia mamma non è che poteva fare un granché di lavoro: un paio d’ore a fare un servizio da lavatrice o stirare, non di più eh!
Guerrino B.
[In campo] non mi hanno neanche mai dato un paio di calze. Quello che avevamo è che dato che ... [Leggi tutto]
[In campo] non mi hanno neanche mai dato un paio di calze. Quello che avevamo è che dato che c’erano molti cinema a Barletta, cosa facevano sti signori, i padroni dei cinema? Davano tutte le sere cinque o sei biglietti per i profughi, ma cinque o sei di ogni cinema. E poi ti mettevi sulla bacheca fuori: guarda, sono fortunato, stasera vado al cinema! Perché non avevi i soldi neanche per il cinema, capisce? Ti mettevano in lista, ma prima che andavi, su 350 o 400 persone, prima che ti arrivava il tuo turno era dura!
Elio H.
Ogni tanto arrivavano scarpe, arrivava un paio di pantaloni, roba che arrivava dall’America, sai. ... [Leggi tutto]
Ogni tanto arrivavano scarpe, arrivava un paio di pantaloni, roba che arrivava dall’America, sai. Roba usata. [Poi avevamo anche] un sussidio di soldi [che però] era minimo, una miseria. Poi in un secondo tempo, quasi verso la fine, hanno abolito la bobba [il cibo] e ci davano 100 Lire al giorno per famiglia, che ti arrangiavi per farti da mangiare da te: ci davano la tessera per andare a comprare la carne, per andare a comprare il pane, così evitavano tutto il lavoro di cucine e di personale. E poi quando avevi le palle piene come me, chiedevi la liquidazione, ti davano 50.000 Lire e io sono venuto a Torino. [Dopo la liquidazione] finiva tutto. Arrivavi a Torino con sta lettera [della Prefettura che diceva che] arrivava il signor C. da Bari - e in Prefettura c’è la mia cartella personale che dice che arrivavo da Bari - e con quel foglio che mi dava la Prefettura andavi al Municipio [di Torino], che mi dava la residenza, e io sono qua [a Torino] dal settembre 1952! Quanti anni sono? Cinquantotto anni!
Achille C.
Mi ricordo quando siamo arrivati a Servigliano, che era di sera. E c’era una piccola direzione dove ... [Leggi tutto]
Mi ricordo quando siamo arrivati a Servigliano, che era di sera. E c’era una piccola direzione dove ci siamo presentati e ci hanno dato delle brande, delle coperte e ci hanno messo nei cameroni. E allora, quando entrava qualcuno tutti gli altri si sollevavano e [dicevano]: sta arrivando della gente, e allora tutti a chiedere: da dove [arrivate], di dove siete, qua e là. E le brande messe per terra lì per dormire, la divisione con delle coperte e la famiglia era tutta divisa così. Poi mano a mano si è migliorato un pochino anche lì, perché quella è stata proprio la prima sera, [mentre] poi avevamo delle piccole stanze... Perché noi essendo in sei - perché ci siamo portati dietro anche la nonna - avevamo sempre una stanza: da sei in su avevano una stanza, fino a cinque bisognava dividersi con il cartone, quello giallo ondulato, o con delle coperte. E [c’era] un’intimità, povere famiglie, che non le dico! Servigliano era un paese, una cittadina in pianura e là siamo rimasti due anni. Il campo non era lontano dal paese, era vicino alla stazione, appena fuori dalla cittadina. C’erano le baracche, come a Torino. Nel senso che quelle di Torino erano di mattoni e là erano forse di cemento o [viceversa]. Non so quante baracche ci saranno state, [forse] sette o otto, non ne ho idea, però non [erano] tantissime. [Dentro] c’era un’infermeria e un salone mensa, perché appena si arrivava bisognava andare a mangiare. Però poi ognuno si faceva le proprie cose, si mangiava ognuno per conto proprio. Poi di sera suonavano e ballavano, in una baracca avevano fatto una sala da ballo, perché è gente allegra l’istriano, non è che si abbatteva! Cioè, aveva la nostalgia, si abbatteva comunque, ma bisognava tirare avanti. Era un popolo molto allegro, molto vivace. Noi a Servigliano siamo arrivati nel ’50, e [ci siamo stati] fino al ’52. Poi siamo venuti a Torino.
Assunta Z.
Allora, [in campo] siamo partiti [che ci davano] pane, rancio e questa roba qui. Quando non ... [Leggi tutto]
Allora, [in campo] siamo partiti [che ci davano] pane, rancio e questa roba qui. Quando non arrivavano più, ci davano il sussidio. Avevamo fatto perfino una canzone; noi greci avevamo fatto perfino una canzone dei profughi. Diceva che siamo tutti di Patrasso, che siamo tutti parenti, che siamo stati mandati via dalla Grecia perché ci siamo trovati nel mondo italiano! Poi c’è tutte le strofe, no? Dove dice che i nostri patrioti, i nostri italiani qui del posto ci hanno accolti bene, ci danno da mangiare e i vestiti. Persino le uova per Pasqua. Ma è bella quella canzone! Per cui niente, c’era la speranza. Speranza perché la città di Bari era bella e carina, io diventavo giovanotto [a andavo] alle feste e ai balli: e facevamo sempre feste! Nel campo profughi facevamo sempre feste: ballavamo sempre, cantavamo sempre! Eravamo spensierati.
Simone P.
C’erano i pacchi UNRRA che arrivavano: erano dei pacchi dove c’erano gli alimenti dentro. Adesso un ... [Leggi tutto]
C’erano i pacchi UNRRA che arrivavano: erano dei pacchi dove c’erano gli alimenti dentro. Adesso un po’ li confondo con i pacchi UNRRA che avevamo a Zara dopo la guerra, che erano sempre dei pacchi americani che c’era dentro uova di Truman, la chiamavano. Erano uova in polvere - lo ha sentito no?- li ovi de Truman! Perché ai tempi c’era Truman. Perché di là [a Zara] c’era questi pacchi con su scritto UNRRA, e come aprivi il pacco c’era l’odore di questo cartone cerato... Me lo ricordo sempre, che quando si apriva avevi una gioia di trovar dentro chissà che cosa, ed erano alimenti che poi servivano alla gente: c’era la margarina dentro, a lunga conservazione, di color giallo era. Che oggi si parla tanto di coloranti e cosa, ma una volta se magnava quel che c’era! Ecco, Tortona effettivamente non ho molti flash del campo profughi.
Rino P.
Da Udine siamo andati a Servigliano e siamo stati lì due anni. E di lavoro mio papà aiutava un ... [Leggi tutto]
Da Udine siamo andati a Servigliano e siamo stati lì due anni. E di lavoro mio papà aiutava un ufficio lì al campo, aiutava le pratiche per i profughi, però senza essere pagato, chiaramente. E anche lì cucinavano, però noi non abbiamo mai mangiato alla mensa, diciamo, perché non ci piaceva. Anche mia madre non riusciva a mangiare, e allora lei comprava qualcosa: ci davano 100 Lire, ma io non mi ricordo se era a persona o tutti insieme. E allora noi con quello mangiavamo: andavamo a prendere il latte e mia madre cucinava. [Servigliano] era un campo militare, con tutte casermette [padiglioni] come quelle di [borgo] San Paolo, ma solo più piccole, solo un po’ più piccole. Io adesso quest’anno siamo andati per la seconda volta, e abbiamo incontrato una persona che non conoscevamo, ma ci ha ci ha detto qualcosa [sul campo]. Il campo... ci sono ancora delle mura attorno, però una parte minima, perché si vedeva dentro, all’interno, passando dalla strada. Tre casermette sono rimaste, le hanno vendute a qualche famiglia e le hanno ristrutturate. Esternamente sono uguali, come allora, ci sono [ancora le] tre scalette per scendere, però sono belle, hanno il giardinetto intorno e sono carine come case, ecco. E allora le hanno vendute, dopo che lo hanno chiuso. E lì mi ricordo questo, che in una stanza stavamo in due famiglie, e avevano steso delle coperte per dividere una famiglia dall’altra, e [lo abbiamo] fatto anche a Torino, appena arrivati. E dopo un certo periodo i nostri vicini se ne sono andati e abbiamo poi avuto tutta la stanza. A Servigliano, saremmo stati un centinaio, non di più. Eravamo tutti giuliani e dalmati. Mi ricordo anche che lì ero stata in colonia a Porto San Giorni, e ricordo che c’era qualcosa dell’UNRRA perché c’era il marchio, forse gli scatoloni. E poi c’erano prodotti dell’Opera Pontificia, ecco. [Ci davano] delle gallette dure, e comunque noi mangiavamo parecchie cose dell’Opera Pontificia, prima dell’UNRRA.
Adriana S.
Era un ex campo di concentramento [quello] di Servigliano nelle Marche. Campo di concentramento e ... [Leggi tutto]
Era un ex campo di concentramento [quello] di Servigliano nelle Marche. Campo di concentramento e quindi c’era la baracca in legno, poi tutte le stanze. Poi c’era un corridoio con la stufa di legno, c’era un’altra baracca e poi dall’altra parte del campo c’erano le docce all’aperto: si andava e si faceva la doccia. Poi per riscaldarci, noi bambini - io e altri bambini - andavamo al fiume con la nonna, prendevamo la legna e scaldavamo tutta questa baracca. [In ogni baracca eravamo] più famiglie, avevamo pochi metri quadrati [a testa]. Avevamo il letto, e poco altro, eravamo sempre in ristrettezze. La baracca era divisa da legno, si, si, perché mi ricordo che c’era il pavimento di legno, e ognuno cucinava per se stesso, ognuno aveva il proprio fornello E poi c’era il cancello che alla sera si chiudeva.
Rita L.
[Da Modena siamo arrivati a Servigliano]: invece di andare su siamo andati giù! C’era un trenino ... [Leggi tutto]
[Da Modena siamo arrivati a Servigliano]: invece di andare su siamo andati giù! C’era un trenino che faceva Porto San Giorgio sul mare fino alla montagna su in Amandola. Lì si stava bene, perché erano tutti contadini: lavoro non ce n’era, però magari passavi da contadino a fare una chiacchierata [e lui ti diceva] dai, vieni a mangiare e ti portava bicchiere di vino e salami. Ti davano da mangiare. Il campo era fuori. Aveva una porta d’entrata da una parte, e poi un’altra che uscivi e si andava fuori dal paese, su in Amandola. Il campo era appena fuori dal paese e c’era anche un muro di cinta. C’erano le baracche dei comandanti dei militari, e intorno c’erano quelle per i servizi. E [in ogni baracca] c’erano dei lunghi cameroni, che li avevano divisi e poi avevano fatto dei box in legno. Alla porta c’era il servizio dei carabinieri, e c’era anche mio papà che faceva servizio coi carabinieri: giorno e notte, per vedere chi entrava e chi usciva. E lì son stato anche io, poi dopo io facevo l’elettricista del campo. Perché lì, c’era un impianto che non le dico: attaccavano le stufe per scaldare d’inverno e c’era il quadro generale dove mettevamo delle resistenze, ma saltava sempre la luce, saltava tutto! Facevano più luce quelle resistenze che le lampade dentro alle baracche.
Giorgio B.
[A Servigliano erano] baracche, tutte baracche. Puoi capire, l’hanno fatto già prima della guerra ... [Leggi tutto]
[A Servigliano erano] baracche, tutte baracche. Puoi capire, l’hanno fatto già prima della guerra mondiale [quel campo]. Però [il muro di divisione] non arrivava fino a sopra [al soffitto], [ma] era [alto] due metri, quindi era sempre tutto comunicante. C’erano le baracche messe in fila, poi c’erano i gabinetti coi lavandini in mezzo. E di baracche ce n’era una lunga fila. Da mangiare andavi a prenderlo, e poi io sai cosa facevo? La pentola la portavo agli slavi, perché non potevi mangiare quella roba lì! Lì c’erano tanti slavi - slavi però - quelli che erano con [Ante] Pavelic, gli ustasa. Perché quelli arrivavano lì, ma stavano poco, perché poi da lì li mandavano a Napoli, al campo IRO e li spedivano via. [E mi ricordo] che c’era un greco che tutte le sere col forchettone [forca] ne voleva infilare qualcuno! C’erano i greci del PCI e loro [questi slavi] praticamente erano fascisti, e allora era sempre un casino! Ed era tutta gente sola, non c’erano donne, erano tutti uomini. [Infatti] di qua [sulla destra] c’erano tutte le famiglie e di là [sulla sinistra] c’erano due baracche e il campo per giocare a pallavolo e poi c’era l’infermeria. E loro [gli ustasa] li mettevano tutti in queste baracche: [lì] c’erano tutti questi che arrivavano di là, scapoli, però, erano tutti scapoli. Poi c’erano altri che son scappati senza genitori - che abitano qui [a Torino] ancora adesso - che erano con questi, perché non avevano famiglia. Ma questi qua [gli ustasa] arrivavano e stavano poco, venti giorni, e poi li portavano a Bagnoli, al campo IRO, e da lì li portavano in Australia.
Gigi B.
A Latina [di profughi giuliano-dalmati] ce n’erano tanti: c’era gente di Dignano, di Valle, di ... [Leggi tutto]
A Latina [di profughi giuliano-dalmati] ce n’erano tanti: c’era gente di Dignano, di Valle, di Parenzo. C’era tanta gente. [Il campo] era una caserma, che una volta andavano i soldati. Era in mezzo alla città. In campo non c’era niente. Ci si trovava, al pomeriggio, fuori dalla camerata e si parlava, che c’era gente di Rovigno e di Dignano e si parlava, così. [Non ci davano] niente, solo il sussidio e il mangiare e basta. E’ stata una vita dura.
Eufemia M.
[Da Udine] ci hanno destinati ad andare a Brescia. Però a Brescia noi siamo arrivati di notte, di ... [Leggi tutto]
[Da Udine] ci hanno destinati ad andare a Brescia. Però a Brescia noi siamo arrivati di notte, di sera, che l’ufficio del campo profughi era chiuso. E in questo campo a Brescia abbiamo trovato tanta gente di Zara, tra cui anche una parente di mio papà [che si chiamava Albina] e allora questa Albina ha detto: dove vi porto? Perché lei non aveva posto, [era] vedova con tre figli in una stanza sola divisa con queste coperte... Allora hanno telefonato e han detto: andiamo in un dormitorio. Siamo andati in questo dormitorio con mio fratello che era ragazzino, faceva le medie, e ci siamo trovati in questa [situazione] che era la prima volta che la vivevamo in vita nostra: chi scorreggia di qua, chi russa di là - barboni, praticamente - ed è lì che mio papà ha detto a mia mamma: ma dove siamo venuti?! Però il giorno dopo abbiamo fatto amicizia subito con la gente, ma ci hanno mandato a Gargnano, sul Lago di Garda. E a Gargnano siamo andati in una casa tipo Canada, bella, in legno. C’era la caserma grande [dove] c’erano russi, polacchi, di tutto, e c’era pericolo per noi ragazze, che [con noi] c’era anche un’altra ragazza più vecchia di me che siamo venute insieme. E siamo andati in questa casa, una casa bellissima, una bella baracca con una camera da letto, una bella cucina, il bagno no, il bagno bisognava uscire come quando si va nei campeggi, però ci siamo trovati bene.
Alma M.
I nostri genitori erano molto amorosi nei nostri confronti, proprio a causa di questa disgrazia. E ... [Leggi tutto]
I nostri genitori erano molto amorosi nei nostri confronti, proprio a causa di questa disgrazia. E poi [stare] in campo era bello, perché c’era una grande solidarietà: non so, se sentivi un profumo di patatine fritte in una stanza, correvano i bambini, e questa persona dava patatine fritte a tutti, ne cucinava e ne cucinava. Quindi sentivi questa solidarietà, e quindi sentivi anche il dolore dei genitori, perché questo ce l’hanno trasmesso. Perché lei pensi solo alla vita intima e sessuale di sti genitori! Pveretti! Io l’ho capito dopo... E’ vero che mia mamma era bigotta, però stare in una stanza con la suocera e i figli... Cioè, veramente la sessualità dei miei genitori, la mancanza d’intimità... E poi [c’era] anche la preoccupazione: come finiremo? C’era poi questo desiderio di tornare a casa, e poi il lavoro, come faremo?
Rita L.
Sto a Servigliano poco, perché nasce mia sorella a Servigliano... Stiamo poco, un anno o un anno e ... [Leggi tutto]
Sto a Servigliano poco, perché nasce mia sorella a Servigliano... Stiamo poco, un anno o un anno e mezzo, perché poi andiamo a Cremona, perché mio papà ha detto al direttore del campo di farlo andare su in alta Italia, perché lì [A Servigliano] c’era la miseria più assoluta. [Quello di Cremona] era un campo... Sa che non so che cos’era? Mi ricordo che era un palazzo: si entrava dal portone e c’era una grande casa che poteva essere una scuola disabitata, un edificio pubblico [inutilizzato]. E lì avevamo proprio una stanzetta che era qualcosa di terribile: umida! Perché lì vivevamo proprio [in poco spazio]: c’era il letto dei miei genitori, il letto di mia nonna e il mio letto che era vicino al muro sempre umido. Di questo campo ho un ricordo terribile perché c’era davvero tanta, tanta umidità. [Avevamo], tutto in comune: avevamo sta stanza dove facevi tutto, cucinavi eccetera, poi c’era il gabinetto in comune, i lavabi in comune, [lavavi] i piatti in comune, [era] tutto in comune. Ed era in città, questo era proprio un campo in città. Poi mi ricordo che alla sera veniva il prete e noi bambini correvamo: lui si tirava su la gonnella - non so questo quante volte sarà successo - con [in mano] la scopa di saggina e noi dietro alle pantegane grosse così, che correvamo. Ma si rende conto? Adesso me ne rendo conto, ma allora noi bambini, pur in questa sofferenza [non ci rendevamo conto]. Eravamo parecchie famiglie a Cremona, saremmo state una trentina o una quarantina, solo giuliano-dalmati. I primi che ho visto di altri [profughi] sono stati a Monza, [ed erano] quelli che venivano dalla Tunisia. [Altrimenti] sia a Monza che a Servigliano eravamo sempre noi giuliano-dalmati.
Rita L.
Mio padre è andato a Cremona, e lì lavorava: andava alla fabbrica di Melzo, si alzava al mattino ... [Leggi tutto]
Mio padre è andato a Cremona, e lì lavorava: andava alla fabbrica di Melzo, si alzava al mattino alle 4,00, partiva col treno, andava lì, poi tornava la sera tardi, dormiva poche ore, perché non so quante ore faceva il pendolare per poter lavorare. [Lavorava] nella fabbrica Galbani. Galbani vuol dire fiducia, e io mangio ancora prodotti Galvani! Quindi lì si, ci siamo trasferiti per il lavoro. [Poi] siamo andati in campo a Monza, [nel centro raccolta profughi di Villa Reale]. [Siamo arrivati] nel 1956 e siamo stati fino al 1963. Noi abitavamo in un’ala, che un tempo era quella della servitù, e c’erano le stalle dei cavalli e quindi noi abitavamo negli alloggi della servitù. Però lì ci hanno dato una bellissima stanza: era lunga undici metri, [quindi] si immagini, era un cosa meravigliosa! E l’avevamo anche lì divisa: c’era la stanza dei miei genitori, quella mia e di mia sorella accanto, poi c’era la sala e poi la camera di mia nonna con la cucina. E anche lì la vita intima dei miei genitori se la immagini...Eravamo veramente tante famiglie: ognuna aveva la sua stanza, avevamo i gabinetti sempre in comune, le solite cose. [Villa Reale] era una famosa villa, tipo Palazzo Reale [a Torino]. La Villa Reale rimaneva tale e a noi ci avevano dato un’ala. Avevano messo in un’ala gli sfrattati e [in un’altra] noi. C’era un cancello però, chiuso, e noi avevamo l’entrata [del campo] da via Boccaccio numero 1, [cioè] dall’altra parte [della villa].
Rita L.
Dopo quattro anni [che ero a Bari dove] mangiavamo anche gratis, lo stato italiano ha posto [una ... [Leggi tutto]
Dopo quattro anni [che ero a Bari dove] mangiavamo anche gratis, lo stato italiano ha posto [una regola]: chi vuole andare via dai campi profughi, dare le dimissioni dalla qualifica da profugo, gli diamo 50.000 Lire. Però non era questo lo stimolo [per lasciare il campo]; il fatto è che passavano gli anni, ma non si prendeva niente, non c’era niente. Allora alcuni miei amici che si erano avventurati per vedere Torino e Milano, mi dicevano: P. qui c’è lavoro... Mi stimolava... E ho deciso, dopo quattro anni, nel ’50, di prendere la mia borsa di cartone [e partire]. Prima sono andato a Milano, però, a Monza, che c’era un altro campo: era un capannone degli stalloni, una stalla, dove mettevano i cavalli. Non mi è piaciuto, anche se a Milano c’era più prospettiva, perché tutti i miei cugini si son fermati a Milano, son stati assunti e han lavorato alle tramvie e si son trovati molto bene. E allora ho preso le mie 50.000 Lire e son partito, [mentre] mio padre mi diceva: no, no, stai qua. E, tra parentesi, chi ha avuto la pazienza di rimanere a Bari, si sono sistemati tutti - per una legge fatta da qualcuno - impiegati o lavoratori dello stato: prefettura, municipio, acquedotto.
Simone P.
[A Bari] nessuno lavorava! Vivevamo di carità cristiana! Sussistenza e basta. Qualcuno come noi che ... [Leggi tutto]
[A Bari] nessuno lavorava! Vivevamo di carità cristiana! Sussistenza e basta. Qualcuno come noi che aveva un po’ d’istruzione faceva qualcosa: io ad esempio nel campo profughi facevo l’impiegato: come arrivavano i profughi da altre regioni registravo, [ero] una specie di impiegato prefettizio. Che, tra parentesi, se non andavo via per venire a Torino per cercarmi un avvenire, diventavo un dipendente dello stato in prefettura, perché poi tutti gli han presi in prefettura di Bari. La Prefettura li ha riconosciuti come suoi dipendenti, e hanno fatto tutti i dipendenti dello stato. Alle volte mi sono detto: ma cosa ho fatto ad andare via da Bari quella volta!?
Achille C.

Scegliere dove andare. "... dove volete andare? Qui, qui o qui?"

Dopo esser arrivati a Venezia, andiamo a finire in una caserma che si chiamava Sanguinetti, che era ... [Leggi tutto]
Dopo esser arrivati a Venezia, andiamo a finire in una caserma che si chiamava Sanguinetti, che era un grosso capannone. Lì ci han messo in un enorme camerone con tante colonne e con gli spaghi tirati da una colonna all'altra su cui ci si appendevano le coperte per dividerci. Che ognuno aveva un box, uno stand per dividerci all'interno del salone: ogni famiglia aveva un box, e vivevamo lì dentro. Ci siamo stati un po' di mesi, ma noi abbiamo avuto la fortuna che siccome mio padre era venuto via prima e già lavorava a Venezia all'Arsenale e si era fatto un po' di amici [tra gli abitanti] locali, abbiamo trovato una stanza a Mogliano Veneto tra Venezia e Treviso, e pertanto dopo pochi mesi siamo riusciti ad andare via. [Siamo andati a stare] in una stanza [che] forse era ancora più piccola di quella che avevamo in caserma, ma almeno in mezzo a dei muri! [E lì] ci stavamo tutti e quattro, io, mia mamma, mio padre e mia sorella.
Gianfranco M.
Se volevamo vedere la destinazione, la destinazione di dove siamo arrivati noi in quel periodo era ... [Leggi tutto]
Se volevamo vedere la destinazione, la destinazione di dove siamo arrivati noi in quel periodo era Gaeta. Allora mia cognata ha detto: no, io c’ho il bambino, c’è mio marito e io vado da mia suocera, noi andiamo là [a Mondovì]. I miei suoceri dicono: ma, almeno conosciamo, è vicino Torino, a Torino di Dignano c’è n’erano che erano arrivati e lavoravano alla Fiat, e a Mondovì anche c’erano già due famiglie, e allora così decidiamo di andare per conto nostro e ci hanno dato il foglio di via. Siamo partiti di là e siamo arrivati al 18 sera a Venezia da Udine, dove ci hanno rifocillato, effettivamente, anche il bambino, che hanno lavato, cambiato e tutto, e poi ci hanno fatto salire [su un treno]. Siamo partiti alla sera - la sera o la mattina presto, non mi ricordo -, era buio, dicembre, e siamo arrivati a Torino. [Però] non si poteva scegliere, in quel momento non si poteva. C’era un flusso continuo, perciò dove sapevano che c’era posto loro si appoggiavano. Poi dopo in un secondo tempo, qualcuno normalizzandosi un po’ la cosa avrebbe potuto. Perché noi abbiam tentato di venire alle Casermette di Torino anche, c’è stata una famiglia di Pola che ci ha fatto da garante che ci teneva lei, perché doveva esserci qualcuno che garantiva per te che stavi lì, e abbiam provato un mese per vedere se riuscivamo a trovare, ma poi visto che le cose non andavano siamo tornati a Mondovì.
Maria G.
A Udine era come un passaggio. Era una caserma verso sinistra di Udine. Erano uffici della caserma, ... [Leggi tutto]
A Udine era come un passaggio. Era una caserma verso sinistra di Udine. Erano uffici della caserma, che chiedevano. Ecco, lì ci han chiesto dove volete andare? Qui, qui o qui? E allora abbiam preso la decisione [di andare a Novara]. Qualcuno aveva già qualche parente, poi ci son quelli che sono invece andati giù, giù, e si son trovati anche male. Perché io vedo delle foto di quelli che scrivono sul giornale [La testimone si riferisce a «La Voce di Fiume», uno dei tanti periodici diffuso tra gli esuli giuliano-dalmati], che cucinavano fuori. Invece noi no, dopo mesi c’era un pezzo di caserma della mensa, e noi abbiamo comprato le cose [i fornelletti] a petrolio, quelli da pompare, e si cucinava ognuno per conto suo. Noi ragazzini, per gusto, andavamo a prendere il pane e la mortadella - grosso così -, ma avevamo cominciato, perché poi si è lavorato.
Amedea M.
[A Udine] stavi un po’ lì e dopo venivi chiamato in direzione e ti dicevano: abbiamo destinato di ... [Leggi tutto]
[A Udine] stavi un po’ lì e dopo venivi chiamato in direzione e ti dicevano: abbiamo destinato di mandarvi a... A noi volevano mandarci a Santeramo [Bari] e mia mamma [diceva che] non se ne parlava. Santeramo nelle Puglie. Mia mamma lì, coi talian, per l’amor di dio! Perché noi, dalle nostre parti, il meridionale si chiamava talian. Oh per l’amor di Dio, no, no! E loro dicevano: o là signora o a Catania. A Catania!? No, niente da fare! E allora poi ha detto: ma perchè non mi mandate a Lucca che c’ho una sorella lì? Ma mamma fa: almeno mandatemi a Lucca, che c’ho una sorella a Lucca. E allora a forza di fare e dire dopo otto giorni siamo andati a Lucca. [Siamo arrivati] nel ’49, ma il mese non me lo ricordo: era dopo Pasqua, fine di aprile, maggio, dev’essere stato così. E per fortuna a Lucca eravamo in centro, eravamo in un bel collegio. Bello. Che deve essere stato anche un collegio di lusso ai suoi tempi.
Argia B.
Mah [si andava] in un campo piuttosto che in un altro... I primi campi ti destinavano loro, in base ... [Leggi tutto]
Mah [si andava] in un campo piuttosto che in un altro... I primi campi ti destinavano loro, in base ai posti. Da Padova abbiamo scelto noi, c’era da scegliere o un campo o l’altro, si aprivano due campi, due possibilità. Poi dopo sceglievi - come a Mantova è successo questo qua - Torino, la gente sceglieva Torino perché Torino ti dava lavoro, a Torino c’era il lavoro. Oppure perché in un campo c’era i parenti, avevi degli amici o dei familiari per stare vicino. Però, diciamo, che quello che tirava di più era il lavoro, dove ti davano una garanzia di crearti una vita. Torino era la città, poi Brescia, che anche a Brescia c’era delle industrie, e poi Tortona che anche Tortona era poi cresciuta. E tanti di Tortona son venuti poi a Torino, in campo a Torino.
Antonio V.
Da [Udine] era da spostarsi. E ci mandavano o a Caltanissetta o a Chiavari. E mio padre, essendo ... [Leggi tutto]
Da [Udine] era da spostarsi. E ci mandavano o a Caltanissetta o a Chiavari. E mio padre, essendo contadino, [ha detto]: cosa vado a fare lì a Caltanissetta? A Chiavari? Boh, neanche. Però noi avendo già mio nonno - i genitori di mia mamma - a Torino, e anche la sorella di mia mamma con il marito - perché loro erano già partiti prima di noi - ha cercato di avvicinarsi il più possibile a Torino. Loro erano già alle Casermette e lui ha cercato di avvicinarsi, perché [diceva] laggiù [a Caltanissetta] cosa vado a fare? [Mentre] a Chiavari mi aggiusterò. Infatti a Chiavari siamo stati bene, per il fatto che mio padre si dava da fare, andava con il camion GRA a fare la spesa: andavano a Genova a prendere da mangiare. [Però] non era mio padre [che] sceglieva. Ecco, lui poteva andare lì oppure di là, ti davano due possibilità.
Maria Mn.
Penso [che ti mandassero] dove [c’] era posto, perché c’erano degli spostamenti, ogni tanto: gente ... [Leggi tutto]
Penso [che ti mandassero] dove [c’] era posto, perché c’erano degli spostamenti, ogni tanto: gente che si trovava la casa da sola... Chi andava a Laterina o cosa, magari andavano ad Arezzo e si trovavano il lavoro o cosa, perché erano anche della gente specializzata, in modo particolare i fiumani, che c’era il Siluruficio e quelle cose lì. E allora si sistemavano e man mano che si vuotava venivano fatti dei ricambi. O se no c’erano degli spostamenti: come dopo io, dieci mesi che andavo, c’è stato degli spostamenti per la scuola. Perché io dovevo andare tra Laterina e Arezzo, e andavamo lì in questo convitto, e forse per loro era anche una cosa pesante, non lo so. O costosa. E allora ci hanno mandato a Mantova, poi. E allora si aspettava il trasferimento e dopo dieci mesi siamo andati via.
Mario M.
Ti destinavano [in un campo o in un altro] in base ai posti. Non credo per politica o [per altro], ... [Leggi tutto]
Ti destinavano [in un campo o in un altro] in base ai posti. Non credo per politica o [per altro], lo facevano in base ai posti.
Assunta Z.
[Udine] era una caserma: c’erano maschi e femmine tutti insieme. E poi la gente, quelle cinque ... [Leggi tutto]
[Udine] era una caserma: c’erano maschi e femmine tutti insieme. E poi la gente, quelle cinque notti, perché poi venivamo mandati via da lì, che lì era come un centro raccolta per prendere i nominativi - moglie, marito, figlio - e poi venivamo mandati via: chi a Torino, chi in Toscana, secondo i posti e secondo dove volevamo anche andare. Perché forse c’era anche la richiesta di qualche familiare - noi non avevamo nessuno -, perché mi ricordo che chi andava dopo Roma - adesso non ricordo il nome di quel campo di raccolta lì [La testimone si riferisce probabilmente al Centro di Raccolta Profughi di Bagnoli, nei pressi di Napoli. Si tratta di un complesso gestito dall’International Refugee Organisation (I.R.O.), un’organizzazione che si occupa di mettere a punto piani di immigrazione per l’estero riservati ai rifugiati e ai profughi giuliano-dalmati che dopo essere stati raccolti e selezionati nel campo di Bagnoli partono da questa struttura per essere inviati nelle località di destinazione assegnate.] - andava lì perché lì erano richiesti per andare in Germania o all’estero, e allora venivano uniti là e poi venivano spediti. [Da Udine] ci mandano a Laterina. Perché chiedevano se volevi andare all’estero; ricordo che l’avevano chiesto anche alla mamma se voleva andare in Germania a Dusseldorf. Mi ricordo perché poi, crescendo, sono andata a Dusserdolf e ho detto a mia mamma: mamma, ma perché non sei andata in Germania? Ma per carità, ancora con i tedeschi! Perché mia mamma li odiava i tedeschi a morte! Diceva sempre che si ricordava il passo con cui sono venuti a dirgli di suo marito [che era stato ucciso], diceva che lei non lo dimenticava mai! E lei dice che chiedevano chi voleva andare all’estero, e li mandavano in quel centro lì. Però dopo c’erano sti campi profughi, e noi siamo stati mandati a Laterina. Ed eravamo - mi sembra - 11.000 profughi in questo centro.
Nirvana D.
[A San Sabba sono rimasto] due o tre mesi, il tempo delle carte. Poi di là sono andato a Capua in ... [Leggi tutto]
[A San Sabba sono rimasto] due o tre mesi, il tempo delle carte. Poi di là sono andato a Capua in un altro campo. Perché San Sabba era un campo di smistamento. A San Sabba c’era da aspettare, nessuno andava fuori da Trieste, libero da andare in un altro paese. E a Capua si poteva emigrare in altri paesi: Canada, Stati Uniti, Australia, Svezia, Norvegia e tutti sti paesi qua. [Il campo] era una caserma di militari, che c’è ancora adesso, ci sono i polacchi: fino a dieci anni fa, mi aveva detto uno di Capua che dentro c’erano i polacchi. Erano delle caserme, [dove] noi stavamo dentro ad aspettare che arrivasse la commissione. Chi era destinato ad andare in Australia [ad esempio], veniva la commissione australiana a prendere tante persone, [poi] venivano quelli del Canada e facevano altrettanto e si aspettava in campo e poi si andava via. Chi andava in Australia andava poi a Latina [nel campo di Latina], mentre chi andava da qualche parte in Italia restava [ad aspettare] a Capua. E allora, dopo che sono stati fatti i documenti mi han mandato via, mi han mandato qua [a Torino] e mi han detto di andare in questura a Torino dove mi avrebbero dato il foglio di soggiorno. E qui c’era mia sorella, che stava al Villaggio [di Santa Caterina].
Guido C.
[La sistemazione] non si poteva scegliere, [anche se] c’era qualcuno che poteva anche scegliere: ... [Leggi tutto]
[La sistemazione] non si poteva scegliere, [anche se] c’era qualcuno che poteva anche scegliere: siccome si erano smembrate le famiglie o la parentela, tutti cercavano almeno di poter andare nello stesso campo profughi. Noi non avevamo altri parenti da [raggiungere] per cui siamo andati liberamente dove ci hanno mandato. E allora, dopo una settimana di caserma, diciamo di vita proprio militare, siamo stati trasferiti a Tirrenia, veramente a Calambrone. Calambrone era una frazione vicino a Tirrenia, e Tirrenia è sotto Livorno.
Luigi D.
[A Udine] siamo stati quaranta giorni. Poi dopo quaranta giorni loro [la direzione del centro] ci ... [Leggi tutto]
[A Udine] siamo stati quaranta giorni. Poi dopo quaranta giorni loro [la direzione del centro] ci chiedevano dove volevamo andare o giù in meridione o dove che volevamo andare in questi campi profughi. E mio marito ha detto subito: mandatemi a Tortona, [perché ] in Piemonte si vive meglio, c’è più lavoro. E così ci hanno mandato a Tortona, e a Tortona ho fatto diciotto mesi, ho comprato [partorito] anche il figlio.
Adua Liberata P.
[A Udine] cercavano di vedere, non in tutti i casi, le attitudini lavorative che aveva una persona. ... [Leggi tutto]
[A Udine] cercavano di vedere, non in tutti i casi, le attitudini lavorative che aveva una persona. Per cui, non so, molti li han mandati in Sardegna perché c’erano i pescatori...In base alle capacità lavorative... Mio padre lo han mandato qui [a Novara] perché c’erano possibilità di lavoro, e difatti si sono inseriti. Prima andavano in giro ai mercati, a scaricare cassette e compagnia bella, però subito dopo han trovato anche tutti lavoro.
Giuliano K.
Io sono stata da settembre a novembre a Udine. Era una caserma, o scuole - non mi ricordo bene, ... [Leggi tutto]
Io sono stata da settembre a novembre a Udine. Era una caserma, o scuole - non mi ricordo bene, comunque era un campo. Si andava a prendere il rancio come i militari... E poi vado a Chiari, vicino a Brescia. Era una ex caserma, mi sembra si chiamasse Eugenio di Savoia, dove avevamo una stanza a seconda della famiglia più piccola o più grande. Io l’avevo più grande, perché in previsione che i bambini durante le vacanze vengono a casa, allora avevo dovuto anche avere il posto per mettere queste brandine. Avevo tre letti, perché avevo con me anche la nonna di mio marito, di ottantaquattro anni, e poi quando venivano i bambini durante le vacanze, mi davano due letti e mi facevo il letto a castello. Però era una bella stanza grande. Facevamo da mangiare noi, ci passavano il sussidio - 8 Lire al giorno - e quando il capofamiglia lavorava il sussidio non lo aveva più: è naturale, se lavorava, lavorava. A Chiari sono rimasta fino al 1961, dal 1958 al 1961, ed eravamo abbastanza: oltre a noi c’erano anche i tripolini, i libici. Nel ’61 siamo venuti a Monza, perché avevamo fatto la domanda per venire a Monza, che a Monza era come essere in paradiso, perché a Monza tutti lavoravano! [A Monza] avevamo una parete divisoria, anche se uno sentiva quello di cui parlava l’altro, però ognuno aveva la sua stanza. Avevamo i caloriferi, perché ci avevano messo nelle scuderie del palazzo reale a Monza. Il campo si chiamava Villa Reale e ci avevano messo dove viveva la servitù una volta, ma non era male, eh! Avevamo i caloriferi, io mi sono trovata bene e ho trovato anche la gente buona. In campo c’era il papà della [mia amica] Rita che aveva un negozietto che era molto pratico, poi però andavamo fuori, avevi solo da passare il giardino e andavi a Monza.
Gina P.
[Da Udine] ci hanno mandato a Roma, siamo stati cinque giorni all’EUR, perché mia suocera, sotto ... [Leggi tutto]
[Da Udine] ci hanno mandato a Roma, siamo stati cinque giorni all’EUR, perché mia suocera, sotto l’Italia, a Rovigno, faceva la procaccia: andava a prendere la posta ai treni e faceva tutte quelle cose lì. E c’era la titolare a Rovigno - era dalle parti di Firenze- che lavorava a Roma, era la direttrice della posta. E allora siamo andati a Roma sempre avendo una spinta di questa signora qui, avevamo quindi già qualcosa, un po’ una spinta. E là siamo stati cinque giorni, finchè dopo cinque giorni c’era da scegliere di andare definitivamente al campo profughi di Latina. C’era della gente anche lì che si parlava e diceva: no, non andare a Gaeta, cercate di tenere sempre fermo a Latina, perché a Gaeta si sta proprio male. Ti mandavano loro dove c’era posto. Andavi a Roma e poi loro ti mandavano o a Latina o a Gaeta. E allora mia suocera è andata dentro [in direzione] e [le hanno detto]: signora, deve scegliere, deve venire dentro e noi la mandiamo a Gaeta. Allora lei è stata un bel po’ fuori, poi è tornata dentro e ha detto: guardi - ha fatto l’indifferente- accetto Latina come mi ha detto lei. C’era un altro impiegato, e allora ci hanno mandato a Latina.
Eufemia M.
Poi di là [da Udine] ci han preso, e siamo partiti una comitiva. Mi ricordo che li ci avevano fatto ... [Leggi tutto]
Poi di là [da Udine] ci han preso, e siamo partiti una comitiva. Mi ricordo che li ci avevano fatto anche delle domande, [c’] era una commissione che chiedeva al papà e a me dove avevamo lavorato, cosa facevate e queste cose qui. Poi siamo arrivati a Barletta, perché non è che andava dove voleva lei. Lì [c’] era una commissione che diceva. Questi qui vanno a Barletta.
Elio H.
Siamo andati in Italia [convinti] di tornare [in Libia]. Infatti mio papà ha ricevuto una lettera ... [Leggi tutto]
Siamo andati in Italia [convinti] di tornare [in Libia]. Infatti mio papà ha ricevuto una lettera che da lì, se voleva, doveva riprendersi il suo posto lì. Ma questo finita la guerra, per un gioco politico.
Gigi B.
Finita la guerra, ci han mandato la lettera [chiedendoci] se volevamo tornare di nuovo in Libia di ... [Leggi tutto]
Finita la guerra, ci han mandato la lettera [chiedendoci] se volevamo tornare di nuovo in Libia di trovarci all’imbarco a Catania. Il posto [campo] di sosta era a Catania, sempre in una scuola, [che era] sempre un campo. Abbiamo atteso l’imbarco, [ma] l’imbarco non c’è mai stato! [Infatti] c’era in discussione il trattato di pace, e De Gasperi aveva detto: io mando 600.000 persone in Sicilia pronte per andare in Libia, [così] magari mi danno un protettorato. E volevano dargli la Marmarica, che sarebbe stata - la terra che c’era- da Derna a Tobruc e non c’era niente, era tutti sassi. Gli davi il protettorato là ma cosa avevi? Come in Somalia...Quindi noi da Ferrara siamo andati a Catania. [E] quando siamo partiti per andare in là [in Libia], siamo andati direttamente a Siracusa. A Siracusa c’era già la nave pronta che ci aspettava per caricarci e per portarci là. E lì si è capito subito [che non saremmo tornati], perché ti mandano a Catania per imbarcare e poi [torni indietro]...
Giorgio B.
[Da Corfù arriviamo] a Bari [e] non sanno dove metterci [e allora] ci mandano a Lecce, nei comuni ... [Leggi tutto]
[Da Corfù arriviamo] a Bari [e] non sanno dove metterci [e allora] ci mandano a Lecce, nei comuni del leccese: tante famiglie qua, tante famiglie là. E noi, la mia famiglia con la famiglia di mio cognato e mia sorella, ci mandano in un paese della provincia di Lecce che si chiama Melissano, vicino a Gallipoli - noi eravamo all’interno, Gallipoli è sul mare - e stiamo lì. E allora i sindaci dovevano in qualche maniera aiutare sta gente e allora il popolino, ci portavano fagioli secchi, piselli secchi, ceci, olio...Vino non ne parliamo, c’era più vino che acqua perché c’era vino da fare il bagno! E vivevamo così, perché ci aiutava la popolazione, il paese, i sindaci del paese. Siamo finiti in un paese che non so se erano duemila abitanti, ma in paese ci volevano bene, ci portavano tutti i giorni da bere e da mangiare! Eravamo dove una volta c’era un asilo, lì ci hanno messo. Ci hanno messo dei cavalletti di legno, con materassi di foglie di granoturco, era l’asilo del paese. E allora poi si era sparsa la voce che a Santa Maria di Leuca, posto di villeggiatura, posto da signori, aprivano un campo gli americani, l’UNRRA. Bastava andare a Lecce, ti facevano il foglio [e andavi]. E difatti siamo partiti una mattina io e mio fratello, ci hanno fatto il foglio e siamo andati. [Poi] abbiamo preso il treno e siamo andati a Santa Maria di Leuca, e lì gli americani ci hanno accolto: a me, mio cognato e la famiglia, ci hanno dato una villetta in riva al mare! Una villetta da signori, avevamo il giardino e il pozzo. Allora, l’UNRRA cosa ci passava? Colazione la mattina, pranzo e cena. Ti dico la colazione della mattina: c’era una pagnotta di pane grande così - sarà stato mezzo chilo di pane bianco - a testa, salcicce, bacon, caffelatte e marmellata. Questa era la colazione, e non ti dico a mezzogiorno cosa c’era! Lì era la pacchia, altro che grand hotel! E’ durata fino a che si è aperto il fronte.
Achille C.

Silos di Trieste e Centro di smistamento di Udine

Quando siamo arrivati a Udine, mi ricordo ancora il campo di raccolta. Era, praticamente, degli ... [Leggi tutto]
Quando siamo arrivati a Udine, mi ricordo ancora il campo di raccolta. Era, praticamente, degli stanzoni. Stanzoni divisi... I separé erano coperte: cioè, per dare un minimo di privacy, c'erano delle coperte o delle cose così che ti separavano i letti. Ho questo flash di queste brande, e poi mi ricordo che facevamo la coda per prendere il cibo con la gamellina. E mi ricordo che la mattino mia mamma era andata e c'era il latte in polvere - e tra l'altro io ero una piaga per mangiare a Fiume - e una mattina mia madre è ritornata senza niente, dicendo no, non ho preso il latte perché non me la sono sentita. [Non se l'era sentita] perché ha visto il cuoco che col mestolo con cui dava il latte, a un certo punto se l'è messo dietro la schiena e ha tirato via qualcosa dal latte. E allora lei ha fatto il giro per vedere cosa c'era e c'erano tre scarafaggi! Allora non l'aveva preso. E io le ho detto: ma mamma, potevi prenderlo per me! E mi dice: ma lo mangeresti? [E io]: si! Allora lei è ritornata e mi ha preso il latte. Cioè in campo profughi io ho improvvisamente acquistato l'appetito, che non avevo invece in casa dei nonni dove ero viziatissima. E mi ricordo questo. Mi ricordo scarafaggi nel latte ad esempio, una cosa di questo genere.
Adriana S.
Siamo arrivati a Trieste, al Silos. Al Silos di Trieste io mi ritrovo a diciassette anni con un ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati a Trieste, al Silos. Al Silos di Trieste io mi ritrovo a diciassette anni con un fratello di dieci [anni] e la mamma in un grande stanzone con un letto a castello a tre piani. Io ero abituata ad avere la mia stanza, e quindi già l’impatto era stato [traumatico]. Il secondo giorno mia mamma si ammala e la mettono in infermeria: gravissima, perché il latte in polvere che ci davano le aveva fatto male. Mio fratello che non voleva mangiare quello che ci davano - quel poco che ci davano -, io dovevo lottare con lui per farlo mangiare e con la mamma che il dottore mi ha chiamato e mi ha detto: signorina, guardi, blocchi tutti i mobili che non si può muovere da qui perché la mamma è grave. Ti rendi conto? Come fai a crescere? In un attimo cresci, da un giorno all’altro diventi un’altra persona. Ho bloccato tutto alla stazione, cosa dovevo fare? La mamma stava per morire - è morta recentemente a novantotto anni, per la cronaca! - e allora siamo stati una settimana lì, proprio per la situazione della mamma. Poi finalmente il dottore mi dice: può sbloccare, potete andare via perchè la mamma si è ripresa, e, insomma, potete andare via. E allora ci hanno mandato a Udine, e a Udine siamo stati due giorni, in una scuola, con le brandine dei militari, e poi ci hanno dislocati chi di qua e chi di là. Noi a Torino, perché papà si era trasferito a Torino - e non so per quale motivo non è rimasto al mare! - e noi siamo venuti a Torino, mentre gli altri a Latina, chi di qua e chi di là, perché a Udine facevano lo smistamento. E difatti noi siamo arrivati a Torino e siamo stati per quattro anni alle Casermette, e dopo sei mesi è morto mio padre.
Livia B.
Noi siamo partiti in treno da Pola e siamo arrivati a Trieste. A Trieste io avevo dei cugini e ... [Leggi tutto]
Noi siamo partiti in treno da Pola e siamo arrivati a Trieste. A Trieste io avevo dei cugini e c’era mio zio. Si andava al Silos di Trieste: mio marito aveva la febbre e allora io sono andata coi documenti al Silos e i miei suoceri e mia cognata col bimbo erano andati là. E allora sono andata al Silos e ho detto che mio marito aveva la febbre e loro mi hanno detto: si, si, se ha dove stare può stare e lui è rimasto là da mia zia, una notte. Siamo partiti da Pola il 16 al mattino e arriviamo al pomeriggio. Ci sistemiamo e al 17 si parte per Udine. E Udine era il campo profughi dove c’era lo smistamento. Erano campi profughi, ho dormito sulla paglia senza [niente], buttata lì, così. Io ho un ricordo vago, perché Trieste le dicevo che son stata poi dai miei, però lì siam stati fermati una notte sola perché l’indomani siamo andati [via], e da Udine siamo partiti il 18, e perciò poca roba. Una notte sui pagliericci, anzi non pagliericci, paglia intera! Eravamo seduti lì, per terra, senza niente...Era una caserma, qualcosa di grosso, tutti insieme, come le Casermette di San Paolo che lei conosce.
Maria G.
Guardi, quello che mi ricordo veramente tanto è stata quella notte al Silos a Trieste. Proprio ... [Leggi tutto]
Guardi, quello che mi ricordo veramente tanto è stata quella notte al Silos a Trieste. Proprio ancora adesso guardi, io chiudo gli occhi e vedo quelle lampadine blu. Perché siamo arrivati al pomeriggio e poi... Ah si, quello si: ci hanno dato una pagnotta così di pane bianco. Ah, a tenerla! Perché noi avevamo pane di grano, scuro, perché ultimamente non c’era il pane, ce lo davano loro. Ecco, come quando poi arrivavano - adesso vado da una parte all’altra, ma son tutte cose che mi ricordo - gli americani, allora ci davano i pacchi e di tutto: i cicles [chewing gum] e le gallette dei militari, sa quelle dei militari. Questo a Dignano, prima di venire via. Sì, sì, ci davano i pacchi da dieci chili e c’era un po’ di tutto. I pacchi UNRRA e mi ricordo anche i camion della GRA. [Del Silos] io mi ricordo benissimo che [c’] era una scala da fare, c’era un quadrato: noi eravamo in dieci, ed eravamo lì seduti tutta la notte. Non c’era niente, una notte seduti così, uno a fianco all’altro. Un box, noi lo chiamavamo lo stanzone, ma c’erano tanti di questi ripostigli! E venivamo tutti lì, ma non ci conoscevamo, perché mettevano una famiglia lì, un’altra lì e un’altra lì. E quella notte me la ricordo sempre: con quella lampadina blu, appiccicati così e zitti. Ecco, sempre paura. Ancora adesso ho paura: da piccola [avevo paura] per i tedeschi - e mio padre zitti che ci sentono - e ancora tutt’ora ho paura. Brutto, veramente brutto.
Maria Mn.
Abbiamo fatto otto giorni nel Silos di Trieste, che ci davano i materassi alla sera. Quando esce ... [Leggi tutto]
Abbiamo fatto otto giorni nel Silos di Trieste, che ci davano i materassi alla sera. Quando esce dalla stazione [il Silos] è qui [a sinistra]. E’ un grande magazzino e lì disinfettavano, ci davano il materasso, prendevano il nome e ti davano da mangiare. Io personalmente - io e mio fratello - avendo quattro soldini, potevamo mangiare anche il gelato fuori! I materassi li dovevamo consegnare, non li lasciavamo lì. Noi in principio stavamo nel corridoio, avevamo il corridoio con quelle belle arcate e in fondo mettevamo la roba, che un po’ci stava. Poi nello stesso corridoio, nelle arcate, molto grandi... Avevamo una specie di muro, ma non ti mattoni, con le coperte, e allora un istriano era là e noi di qua. Eravamo divisi da una cosa [una parete] di compensato: non si vedeva niente, però si sentiva. Erano cameroni. Cameroni grandi che bisognava consegnare [il materasso] al mattino, e ti ritornava alla sera] il materasso disinfettato.
Amedea M.
A Trieste ci han portato al Silos. E al Silos ci hanno dato, mia mamma diceva ei g’han da la ... [Leggi tutto]
A Trieste ci han portato al Silos. E al Silos ci hanno dato, mia mamma diceva ei g’han da la solferada, vuol dire che ci han dato lo zolfo, come alle viti. Per disinfettare, per disinfettarci. E insomma, era un po’... Mia madre ha sempre avuto il senso dell’umorismo, per fortuna! Però non abbiamo dormito lì [al Silos], avevamo uno zio che stava a Trieste e non so come ci ha ospitato, perché aveva una casa piccolissima e siamo andati a dormire lì. [Il Silos] era tutti cameroni! Delle stanzone grandissime, squallide, con il tetto alto e le travi di legno e questa signorina - non so chi fosse - che aveva i capelli lunghi e ricci con gli occhiali spessi, che aveva una lista in mano e ci chiamava. Ci chiamava, e noi andavamo in un’altra stanzetta piccola e in pratica ci si spogliava e ci disinfettavano. Ma non uno per uno, in gruppo, con un bel po’ di parenti. Che mia nonna, poverina, la mamma di mio papà, aveva ancora le mutande lunghe, e quindi era un’umiliazione! Per lei era umiliante, perché era ancora vestita con le gonne, sa come a fine ‘800, come venivano i meridionali. Adesso tu sei piccolo, non te lo ricordi, forse non li hai mai visti. Era vestita così, proprio come le donne sarde adesso.
Anna Maria P.
[Da Dignano] siamo arrivati molto tardi la sera a Trieste, al Silos. Siamo arrivati così, senza ... [Leggi tutto]
[Da Dignano] siamo arrivati molto tardi la sera a Trieste, al Silos. Siamo arrivati così, senza niente, visto che avevamo soltanto quel poco che ci avevano dato da mangiare i parenti. [Una volta arrivati] ci hanno messo in un grande camerone a dormire per terra con una coperta, ma forse neanche quella o comunque non per tutti, e siamo stati due notti. Per noi l’indomani quando ci siamo svegliati vedere il pane bianco, cioè la cosiddetta pastadura che la chiamavano pasta bianca era... uh [una felicità]! Perché abituati a non mangiare pane più, che si mangiava solo polenta, allora eravamo veramente felici! Poi sa, nell’inconscio di un ragazzino di dieci dodici anni, era veramente un avventura! Comunque, lì [a Trieste] siamo stati due giorni, dopo di che ci hanno smistato in una caserma a Udine.
Luigi D.
Arrivo al Silos di Trieste: oh!!! Vedevo gente che camminava, una confusione! E io, ragazza di ... [Leggi tutto]
Arrivo al Silos di Trieste: oh!!! Vedevo gente che camminava, una confusione! E io, ragazza di quindici anni, mia sorella e mia mamma... Andiamo lì e ci danno una stanzetta con due o tre cosi [materassi] lì per terra, ci hanno dato una gavetta come ai militari, ma non mi ricordo più cosa che avevano messo dentro. Piangevo, piangevo io! Mamma mia, dove siamo venuti! Proprio come i militari, ste camerette ammucchiate lì così... Una notte abbiamo dormito lì. E mi ricordo che ho scritto una cartolina a una mia cugina dal Silos, ho preso una cartolina e le ho scritto: cara Bianca, val più Dignan coi sui grumasi che tuta l’Italia coi suoi palassi! I sgrumassi sono i ruderi e allora val più Dignan coi sui grumasi che tuta l’Italia coi suoi palassi! E mi ricordo che quando son tornata dopo molti anni, ridevamo ancora con questa cartolina. [Il Silos] è stato un impatto forte, brutto, si, si. Una giornata noi siamo stati, perché essendo mio papà a Udine ci hanno smistato subito là.
Olivia M.
[Siamo partiti] in treno da Fiume. Mio papà ci è venuto incontro a Venezia. Siamo scesi a Venezia e ... [Leggi tutto]
[Siamo partiti] in treno da Fiume. Mio papà ci è venuto incontro a Venezia. Siamo scesi a Venezia e a Venezia siamo andati due giorni in un campo profughi, e - per la verità - mi ricordo solo quello. Io non volevo andare, per la verità in campo profughi, perché da un alloggio, andare [in un campo], un bambino si sciocca, dai! E poi da lì siamo andati a Trieste, e anche a Trieste siamo stati qualche giorno in un campo profughi: era una scuola, siamo andati in una scuola perché siamo stati pochi giorni, non dovevamo stare tanto lì. E mi ricordo sta scuola, sti cameroni e tutti questi lettini e io, mamma mia, quanto ho fatto dannare i miei genitori! Non ci volevo [stare], volevo tornare a casa. E mio papà [mi diceva]: dai, vedrai che adesso andiamo a Torino, che Torino è una bella città. E noi avevamo un libro di Torino, mi piaceva, ogni tanto lo sfogliavo con mio papà a Fiume e gli dicevo: che bello, andiamo. Combinazione ci son venuta!
Fernanda C.
[Udine] era una scuola, una grande scuola con la bandiera [italiana] che stava in mezzo. Era bello, ... [Leggi tutto]
[Udine] era una scuola, una grande scuola con la bandiera [italiana] che stava in mezzo. Era bello, c’era anche un campo sportivo dietro. Era una grande scuola, una specie di collegio. C’era le camere per gli uomini e le camere per le donne, diviso. Erano letti divisi, letti a castello, due o tre per piano. E là era tutto un via vai, era tutto un ricambio.
Romano V.
[A Udine] siamo stati una settimana e abbiamo dormito in una caserma, proprio sulle brande dei ... [Leggi tutto]
[A Udine] siamo stati una settimana e abbiamo dormito in una caserma, proprio sulle brande dei militari a castello: sotto mia madre, mio padre sopra e noi fratelli su un altro [letto a ] castello. Lì ci davano da mangiare con la gavetta, non c’erano sicuramente le mense come si vedono oggi, e siamo stati praticamente lì in attesa che in altri centri di raccolta profughi si facessero liberi dei posti per poterci sistemare.
Luigi D.
Siamo arrivati a Opicina, sopra Trieste, che pioveva che dio la mandava, e se non la mandava lui, ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati a Opicina, sopra Trieste, che pioveva che dio la mandava, e se non la mandava lui, la mandava qualche d’un altro! Allora, ci hanno messo dentro delle baracche, con i letti a castello e a mezzogiorno, un calderone così di roba fumante dentro la gavetta, che noi la chiamavamo la gamella. Bom, insomma, roba da guerra. E ho passato la prima notte così, e ho subito, come tutti gli altri un interrogatorio: ah, lei lavorava al cantiere navale! Una cosa e un’altra, e io cosa dovevo dire? Si, beh, costruivo le navi! Questo la polizia italiana, o alleata, comunque. Un disagio della madonna, insomma. E allora ci mandano a Udine, che è un campo di smistamento. Io mi ricordo un grande stanzone, dove c’erano vari cosi - materassi, questo e quell’altro, un gran casino - un grande stanzone. Che però io a Novara sono capitato per caso, perché se avessi seguito la sorte di quelli che son venuti fuori dalla Jugoslavia insieme a me - che, notare, io ritornavo in territorio italiano, non è che ero diverso, che ero extracomunitario! -, loro son finiti a L’Aquila. Io con la mia famiglia siamo andati da Udine, abbiamo chiesto di andare a trovare mia nonna e le sorelle di mia mamma [a Verona], che mio zio era già morto, e tra le altre cose, faceva il carabiniere a Verona. E allora ci hanno dato il permesso, come militari, [di andare] una settimana a Verona, e siamo andati. Ma quando siamo tornati poi a Udine - era domenica - è venuta da Novara la richiesta di posti che erano disponibili, e allora niente, ci hanno convogliato a Novara. Anche là, abbiam mangiato una pastasciutta alla stazione di Milano alla sera, poi abbiamo aspettato il treno del mattino per arrivare qua a Novara che c’era una nebbia!
Otello S.
Siamo partiti in treno e siamo andati a Trieste. [A Trieste] siamo arrivati al Silos. Al Silos ... [Leggi tutto]
Siamo partiti in treno e siamo andati a Trieste. [A Trieste] siamo arrivati al Silos. Al Silos siamo rimasti una notte sola, che io ho dormito per terra perché non c’era posto. Poi siamo andati da una famiglia di Trieste che conoscevamo, ci ha tenuto una notte e poi siamo andati a finire a Udine. E da Udine siamo andati ad Altamura. Udine era lo smistamento, e ti mandavano da una parte rispetto che dall’altra in base ai posti che avevano. Udine era un campo, si stava pochi giorni e poi via, domani c’è il treno e andate.
Aldo S.
Siamo arrivati a Trieste, e io non sono neanche finita al Silos, perché eravamo ospiti da mia ... [Leggi tutto]
Siamo arrivati a Trieste, e io non sono neanche finita al Silos, perché eravamo ospiti da mia sorella. Al Silos erano andati solo mio papà, mio fratello e un mio zio che viveva solo ed era venuto via con noi. Poi da lì siamo andati a Udine, e lì mi pare che siamo stati una quindicina di giorni, anche se non mi ricordo perfettamente. So che abbiamo fatto la domenica delle palme - eravamo a Pasqua a Udine -, e mi ricordo che andavamo in giro con ste ragazze per Udine, e che c’era un circo e andavamo a vedere sto circo. Ecco, quello lì mi ricordo io. Ah, [Udine era] una meraviglia! Dormivamo - c’erano degli stanzoni tremendi - tutti insieme. Senza divisione e senza niente, perché lì era un campo di smistamento... Eh, qui parliamo in termini militari! Dev’essere stata una grossa caserma, ma quello che mi ricordo è che mia mamma - perché lei si vergognava - mi mandava al mattino a fare la fila per il caffè latte. E mi ricordo il pane, che c’erano le banane, quello mi ricordo. Noi dormivamo... Mi ricordo che mia mamma a noi aveva preso un angolino coi castelli e poi c’erano delle brande tipo campo. Tutti insieme, appassionatamente!
Argia B.
Poi è venuto un giorno che dovevamo andare via da Trieste, perché era un posto di passaggio, e ci ... [Leggi tutto]
Poi è venuto un giorno che dovevamo andare via da Trieste, perché era un posto di passaggio, e ci hanno caricato su dei camion e siamo arrivati a Udine, al campo di smistamento di Udine. Dovevamo passare tutti di là, perché lì ti dovevano poi segnare, facevano un censimento di tutti e quindi passavano tutti da Udine. Quando siamo arrivati a Udine coi camion militari, la prima cosa che mi ricordo e che ci hanno fatto spogliare nudi, ci han portato il DDT e ci hanno disinfettato col DDT. Lì c’era una caserma e siamo stati quindici giorni - un mese. Ci hanno dato una stanza per la nostra famiglia, e allora io mi sono subito impadronito del territorio: il mio carattere era quello, vedere, visitare, fare compagnia. E poi di là dovevano mandarci via. E allora mia madre ha detto: mia marito è rimasto di là prigioniero - avevamo sentito che era stato fatto prigioniero - e noi vogliamo aspettarlo. E allora ci hanno mandato in città, a Udine proprio: si chiamava cinema Rex. Non so cos’era, se un oratorio - era gestito dalla chiesa - e c’era questo grande stanzone che era chiamato cinema Rex, e han messo tutti i letti - han tolto via tutto - e lì si dormiva. Poi c’era anche un campo sportivo e lì - mi ricordo -, ho incominciato a giocare al pallone. In attesa che arrivasse mio padre. E lì siamo stati tre o quattro mesi a Udine, ad aspettare.
Antonio V.
Io sono andato a Trieste, poi son andato a Udine, poi a Marina di Carrara e infine a Torino. Noi ... [Leggi tutto]
Io sono andato a Trieste, poi son andato a Udine, poi a Marina di Carrara e infine a Torino. Noi quando siamo arrivati a Trieste siamo stati accolti dal Comitato di Liberazione Nazionale. C’era il Comitato di Liberazione Nazionale, che ci accoglieva e che ci dava un documento: io ho un documento con la fotografia mia di bambino dell’età che avevo, di mio fratello, di mio papà e di mia mamma. E lì siamo stati accolti e ci hanno messi nel Silos. La prima notte l’abbiamo fatta al Silos. Al Silos, sulla paglia, io non ho dormito e mia mamma non ha dormito, perché mi schiacciava i pidocchi che mi camminavano sulla schiena e sulle braccia. Ma non era solo a me, era a tutti quelli che come me erano là, ed eravamo in tanti. Ecco, questo ricordo si, ce l’ho, perché mi è rimasto impresso, ecco. Nel Silos si stava che era una specie di Risiera di San Sabba, era insomma la stessa cosa. Solo che il Silos oramai era un punto di accoglienza. Ricordiamoci che era il periodo post-bellico e ricordiamoci che l’Italia era distrutta dalla guerra, quindi non è che ti mettevano in un posto con i letti e la mensa, evidentemente. Ma questo valeva anche per gli sfollati che erano in Italia, indipendentemente dalla nostra zona. Io qui ho degli amici che sono sfollati dal cuneese, dove i tedeschi sono andati a fare quello che hanno fatto, che gli han buttato giù interi paesi nella ritirata, e che poi son stati in campo profughi con noi e abitano qui [nel nostro quartiere] anche quelli. E quindi lì poi eri gestito dalla Prefettura, perchè questo documento andava alle prefetture e al ministero degli interni attraverso i prefetti. I comuni davano degli aiuti. Noi là avevamo uno zio prete, che per farci uscire da questa posizione del Silos, dove c’erano i pidocchi e veramente anche la malattie, ci ha dato una stanza nella canonica; uno stanzone grosso dove cinque famiglie si sono ricoverate. Il tempo un mese, un mese e mezzo - lui aveva poca pazienza di sentire sti bambini che giocavano, era anziano, era prete, non aveva neanche forse la sensibilità - credo che ti piaccia questo concetto... Ti piaccia nel senso di farti capire come chi ha fatto un’altra vita, diversa, anche in un periodo come quello, non ha forse la sensibilità che hanno le persone normali. Perchè se ci ospitava una famiglia che ha perso il padre, o un figlio in guerra, aveva una sensibilità diversa da chi ha perso tutto e aveva solo i vestiti che aveva addosso. Siamo stati a Trieste un periodo breve di qualche mese, fino a che uno degli zii - noi eravamo un gruppo di famiglie che siamo andate via - ha detto che forse se andavamo in Toscana, a Marina di Carrara. [Lì] c’era il molo, c’era il porto e forse c’era anche la possibilità di poter lavorare nelle cave di marmo, e abbiamo scelto - abbiamo chiesto - di andare in quel campo profughi. E siamo andati al campo profughi di Marina di Carrara, che loro chiamavano San Grilla, e che era in riva al mare. Anche quello, e questo era forse l’unico conforto che avevamo, l’aria era quella che ci pareva di respirare a casa nostra, e per noi bambini era motivo di gioco. Ti faccio presente che per noi andare a Marina di Carrara voleva dire essere vicini a Marina di Massa, dove c’era un altro grande campo profughi, vicino a La Spezia, dove alla caserma Ugo Botti c’era un altro grande campo profughi, insomma, c’è n’erano 109 su tutto il territorio italiano... Comunque, era un modo come un altro di dire: forse ci sarà qualcun altro. Si, ci siamo un po’ [divisi]... Le nostre famiglie al momento non si erano ancora divise, però alcuni parenti si erano divisi: le cognate di mio papà dei due fratelli morti, una era andata a finire a Brescia in campo profughi, e l’altra era rimasta a Trieste. A Trieste perché dalla parte sua di lei c’era qualche parente che per il momento l’ha aiutata un attimo. E quindi si, queste divisioni ci sono [state]. Poi molti amici e familiari si sono sparsi: il caso più emblematico è il caso di Marisa Brugna, che è mia coscritta, mia compaesana, i nostri genitori avevano anche le campagne vicine dove lavoravano, e ci siamo persi. Loro hanno fatto un iter diverso che è finito in Sardegna; io ho fatto un iter che dopo Marina di Carrara mi ha portato a Torino.
Fulvio A.
Una notte siamo stati a Trieste. Poi il mattino ci hanno portato a Udine, e lì era il campo di ... [Leggi tutto]
Una notte siamo stati a Trieste. Poi il mattino ci hanno portato a Udine, e lì era il campo di smistamento: infatti anche lì ci ha fatto male, perché le donne e i bambini in un padiglione - sempre in un campo, com’era qui alle Casermette - e mio padre da un’altra parte. Si figuri mio padre e mia madre, lasciarci cinque bambini e la moglie! E’ stato duro lì. Due giorni [soltanto], meno male. Lì ci han dato delle coperte, sa quelle con tutti i quadri.
Maria Mn
Io sono partito in treno da Veglia: siamo andati fino a Uncarett, poi di là con la barca fino a ... [Leggi tutto]
Io sono partito in treno da Veglia: siamo andati fino a Uncarett, poi di là con la barca fino a Fiume. Non so, lì a Fiume ci hanno ospitato della gente per uno o due giorni e poi siamo partiti per Trieste in treno. [Lì] siamo stati un pochettino [al Silos], non so quanti giorni, forse una quindicina, non ricordo. E di là si aspettava sto smistamento. Siamo andati a Udine e da Udine aspettavamo lo smistamento, e quando c’è stata l’assegnazione, la destinazione di dove dovevamo andare era quella di Laterina.
Mario M.
Udine era una caserma piano terra e primo piano, come edificio. Non c’erano le casermette lì dove ... [Leggi tutto]
Udine era una caserma piano terra e primo piano, come edificio. Non c’erano le casermette lì dove eravamo noi. E poi mi ricordo che subito ci hanno separati: i maschi di qua e le mamme coi figli dall’altra parte. E noi ci chiedevamo: ma perché , io voglio andare con mio papà! Invece non si poteva. E poi facevano da mangiare loro, ci davano da mangiare e si dormiva in tanti, negli stanzoni. Questo lì, invece nei campi [si dormiva] anche in una stanza.
Adriana S.
[A] Udine è stata dura, perché come siamo scesi ci hanno ridiviso. E la mia mamma diceva: ma ... [Leggi tutto]
[A] Udine è stata dura, perché come siamo scesi ci hanno ridiviso. E la mia mamma diceva: ma guardate che io ho due maschietti, cosa mi dividete dai figli! E lì ci hanno tagliato i capelli. Ecco, quello è stato un dramma, ci hanno proprio pelati: hanno passato la macchinetta, sa quella macchinetta che si usa adesso. Mia sorella aveva le trecce lunghe, io avevo la coda di cavallo, ma la sorella più vecchia piangeva per sti capelli. E mia mamma le diceva: ma non preoccuparti, che cresceranno! Poi ci hanno messi a dormire separati, e siamo stati quattro o cinque notti lì. [Quello era] un centro di raccolta: mi ricordo che siamo entrati dentro a un portone con tutto il filo spinato, fatto rotondo. Siamo entrati dentro a dei cameroni, che oggi come oggi ci sarebbero state venti persone, mentre allora ce ne saranno state sessanta-settanta. E ci hanno dato delle coperte che pungevano, perché non volevo starci sopra. Mi ricordo che mia mamma ce la ha messe per dormire, e io non volevo perché dicevo che pungono. Poi mi ricordo che ci hanno dato da mangiare: mi hanno dato un vaso così, con dentro della roba gialla, che era del formaggio, e nessuno l’ha mangiato di noi cinque bambini. E la mamma a un milite italiano le ha detto se poteva darle qualcosa, che lei le avrebbe dato qualcosa in denaro, ma anche solo pane, purché dia da mangiare a questi cinque bambini. Ecco, quello lo ricordo, ricordo questo signore, questo milite, che era un poliziotto, che ci ha portato questo pane, la prima sera. Poi l’indomani invece abbiamo mangiato della mortadella e del minestrone. E poi siccome la mia mamma era cuoca, e siccome lì avevano chiesto a tutti che lavoro facevano, la mia mamma aveva detto che faceva da mangiare per 5.000 persone, e allora in quei cinque giorni che eravamo a Udine, hanno preso la mia mamma e l’han messa in quella cucina da militari. E ha fatto da mangiare per cinque giorni, e allora veniva da noi con una pentolina alta così, e [dentro] aveva o pastasciutta o riso. E, insomma, mangiavamo il mangiare che faceva lei, ma era buono per tutti! Ecco, quello lo ricordo. E [lì] la mia mamma, ad esempio, non ha messo coperte da dividere, però c’era qualcuno che tirava dei fili - o erano già tirati - e metteva delle coperte. Comunque no, no, era un camerone largo.
Nirvana D.
A Udine siamo stati un anno io, mia mamma e mio papà. Perché mio papà, essendo tornato dalla ... [Leggi tutto]
A Udine siamo stati un anno io, mia mamma e mio papà. Perché mio papà, essendo tornato dalla convalescenza [a Trieste], lui si è fermato lì e ha detto: io devo aspettare qui la mia famiglia. Allora lo hanno impegnato, gli hanno dato una cameretta: aveva la sua camera, però mangiava [con gli altri] perché la cucina faceva da mangiare. E lui in ricompensa, per rimanere lì, aveva l’addetto di tenere un po’ pulito il corridoio e il camerone, e lui è stato contento, perché dice: io sto qui e aspetto la mia famiglia. E ha aspettato un anno, e un anno siamo stati poi anche noi ancora. Sempre nella stessa camera, ma abbiamo messo il letto matrimoniale e due letti per me e mio sorella, perché gli altri erano ancora via. E siamo stati lì un anno. Penso che sia stata una caserma, perché si entrava, c’era una finestra e c’era un giardino grande. Poi c’era una cappelletta e un altro grande capannone e poi a pianterreno c’era una caserma che faceva una L. E c’era a pianterreno un grande camerone per quelli che facevano solo la notte - letti a castello, tutti assieme - [mentre] sopra c’era il primo piano e il secondo piano per le famiglie che dovevano aspettare un po’. E allora c’era le camere più piccole, non i cameroni grandi come sotto, che potevi sistemarti la tua famiglia per stare una settimana, dieci giorni o un mese finché rientravano e poi si smistavano. [A Udine] siamo stati un anno, e dopo questo anno mia mamma dice: Dino [mio fratello] è in collegio, oramai è grande, devo toglierlo, non posso mica lasciarlo lì, l’altro mio figlio è a Livorno, poi ci siete voi due e Nerina, mia sorella che anche lei voleva unirsi a noi. Insomma, [mia madre] voleva unire la famiglia. E allora, diceva mia mamma, cerchiamo di andare a Torino. Diceva, chiediamo il trasferimento e [vediamo] se ci portano da Udine alle Casermette San Paolo a Torino. [Voleva andare a Torino] perché c’era più possibilità di lavoro, perché eravamo tutti giovani, noi figli. Noi eravamo tre ragazze e due ragazzi, che crescevano, e c’era la possibilità di trovare lavoro. [Però] non è stato possibile, perché era pino, e siamo andati a Tortona. E siamo stati a Tortona, sette anni siamo stati lì.
Olivia M.
Da Montona siamo partiti per Trieste. A Trieste c’era il campo di smistamento profughi, il Silos, ... [Leggi tutto]
Da Montona siamo partiti per Trieste. A Trieste c’era il campo di smistamento profughi, il Silos, in una situazione di baraonda totale, come si può immaginare. Da lì l’opzione era Brindisi, e allora mia madre che è molto combattiva e battagliera ha detto: no, io a Brindisi non ci voglio andare! Non voglio andare nel sud Italia, perché ho due bambini piccoli. Insomma, [tanto] ha fatto finché le han detto va bene, la mandiamo a Livorno, a Tirrenia. A Tirrenia c’era un campo profughi, e quindi siamo stati un anno a Tirrenia e poi a Tirrenia c’era un’altra scelta da fare. [I miei hanno scelto] Torino, e quindi le Casermette di via Veglia, dove c’era il più grosso campo di concentramento profughi.
Giuseppe M.
[Arriviamo] a Trieste, [dove] mio papà aveva ancora un fratello [di alcuni] nostri parenti, e siamo ... [Leggi tutto]
[Arriviamo] a Trieste, [dove] mio papà aveva ancora un fratello [di alcuni] nostri parenti, e siamo stati da loro ventiquattro ore. [Poi siamo andati a Udine], e le dirò una cosa: quando noi siamo venuti in campo profughi a Udine, quando mio papà ha visto che avevamo questa cameretta con le coperte e dall’altra parte fumavano e appoggiavano il portacenere sul muretto, lui ha detto a mia mamma: maledetta che hai insistito guarda dove ho portato i miei figli! Udine era una caserma enorme. Eravamo tre famiglie di Zara, combinazione eravamo insieme, e ci siamo fatti coraggio l’uno con l’altro e basta. Facevamo la coda per andare a mangiare come facevano i soldati, come vede ad Haiti quando andavano a prendere [il cibo], e facevamo quella vita lì. Poi da lì siamo andati [via]. Siamo stati otto giorni ma non siamo stati male a me, devo dire la verità, mi piaceva Udine, come cittadina, una cittadina bellissima. [Il campo] era in città, proprio in città. Era bellissimo, un bel campo: una caserma enorme con un grande giardino, non era brutto, era bello Udine. E lì era un campo di smistamento.
Alma M.
[Da Pola] siamo arrivati a Trieste, e lì a Trieste abbiamo fatto un mese [in un posto che] boh, lo ... [Leggi tutto]
[Da Pola] siamo arrivati a Trieste, e lì a Trieste abbiamo fatto un mese [in un posto che] boh, lo chiamavano il Silos. Era un grande palazzo con delle grandi stanze, e lì c’era pieno di lettini. Sotto c’era le cucine, c’era la gente, c’era gli americani che dirigevano tutto. Brava gente gli americani: ci rispettavano e ci davano tutto quello di cui avevamo bisogno.
Giovanni R.
Siamo venuti in Italia e ci hanno preso in campo profughi, siamo andati a Udine e da Udine ci hanno ... [Leggi tutto]
Siamo venuti in Italia e ci hanno preso in campo profughi, siamo andati a Udine e da Udine ci hanno mandati a Tortona. [Il campo di Udine] era una caserma enorme. Ed è [stata] la prima volta che ho visto tanta gente dell’Istria, della Slovenia...Tanta gente di tutte le parti eravamo lì. [A Udine] eravamo [in] una stanza con due piani, con i letti a castello a due piani. [C’] erano delle stanzine piccole con due letti a castello e poi fuori c’era [lo spazio] per lavarsi con le docce. No, no, a Udine si stava bene, era un bel campo. Andavamo a mangiare con la gamella: ci portavano da mangiare, cioè no i bambini andavamo a prendere sto mangiare e mangiavamo lì nel refettorio.
Adua Liberata P.
A Trieste succede che i miei genitori vogliono rimanere, ma non si può, perché c’è tantissima ... [Leggi tutto]
A Trieste succede che i miei genitori vogliono rimanere, ma non si può, perché c’è tantissima gente. Siamo stati ospitati da parenti e poi da Trieste ci hanno mandato a Udine, [dove] c’era il campo di smistamento, [di cui] mi ricordo queste camerate enormi divise da tende: c’erano i maschi da una parte e le femmine dall’altra, e poi [c’] erano quelli del Wajont, che erano venuti. E quindi avevano messo ste donne da una parte: persone anziane, giovani e bambine, e io mi ricordo i pianti della gente di notte. Io mi ricordo che ero vicino a mia mamma e sentivo piangere di notte la gente disperata. [A Udine] siamo stati poco, perché poi ci hanno smistato e siamo andati al campo di Servigliano. Lì hanno deciso loro, hanno deciso loro per Servigliano.
Rita L.
Veniamo messi su sti treni, poi siamo andati a Udine, al campo di smistamento. Era una caserma ... [Leggi tutto]
Veniamo messi su sti treni, poi siamo andati a Udine, al campo di smistamento. Era una caserma militare. Dal campo di smistamento ci hanno portato a Cremona, abbiam fatto un anno a Cremona e poi siamo arrivati a Novara.
Giuliano K.
[A Trieste] siamo stati al Silos. Era come una prigione, era dura. Eh, insomma, come c’è i soldati ... [Leggi tutto]
[A Trieste] siamo stati al Silos. Era come una prigione, era dura. Eh, insomma, come c’è i soldati che hanno quelle camere lunghe con il corridoio lungo e poi c’è come un’altezza che non si vede dentro, era fatto così. Con delle brandine, in pagliericcio. Eravamo tutti insieme, quelli della nostra famiglia. [Dopo] sono andata a Udine, tre giorni. Udine era come un campo di smistamento: era una caserma, una caserma grande. Lì si dormiva tutti assieme, era tutto aperto. Siamo stati tre giorni, finchè loro non ti mandano a destinazione. Prendevano i nomi, bisognava dargli i documenti e tutto quanto, e poi ti mandavano a destinazione.
Eufemia M.
[A Opicina c’era] un piccolo campo profughi, e quando era pieno dovevano imbarcare via la gente, e ... [Leggi tutto]
[A Opicina c’era] un piccolo campo profughi, e quando era pieno dovevano imbarcare via la gente, e tre giorni li ho fatti a Udine.[Il campo di] Udine me lo ricordo, me lo ricordo. Era una caserma e c’era un salone che avrà avuto un duecento brande. Eravamo in tre persone...Perché lì era sezionato maschile e femminile: io, il papà e un altro signore in questo grande salone con tre persone dentro, si immagini un ragazzino di quindici anni e mezzo o sedici, che ha dormito sempre in un bel letto a metterti lì senza lenzuola e senza niente. Quello lì è già stato un brutto impatto per me.
Elio H.
[A Udine] c’era questo campo profughi, che non potevi uscire, perché c’era i carabinieri alle ... [Leggi tutto]
[A Udine] c’era questo campo profughi, che non potevi uscire, perché c’era i carabinieri alle porte. Però come dire, chi trovava lavoro aveva permessi e autorizzazioni, ma noi eravamo dentro sto campo. Non so se era una caserma, era una cosa [edificio] a due piani o tre piani, ma non ricordo tanto questo [campo] di Udine.
Rino P.
I miei zii sono andati via prima, poi anche due sorelle sono andate prima. E allora io sono andato ... [Leggi tutto]
I miei zii sono andati via prima, poi anche due sorelle sono andate prima. E allora io sono andato prima da mio cugino a Trieste e lì sono stato un po’ di giorni, mi sono annunciato come turista a Trieste e dopo sono andato a Torino [dove c’era mia sorella]. E allora mio cognato mi ha detto che se volevo restare lui mi faceva la garanzia. E quando che uno aveva la garanzia di un genitore, o di un fratello o della sorella allora poteva rimanere. E allora, dopo, son tornato a Trieste, sono andato in questura a denunciare [che ero in Italia] e a chiedere asilo politico. E me lo han fatto subito. Mi hanno dato i documenti e mi han detto: va bene, resti qui. E poi, allora, da là sono andato in campo straniero, al Campo straniero [campo per stranieri] di San Sabba, la Risiera, proprio là. E là c’era tanta gente: oramai non eravamo più cittadini italiani, eravamo tutti croati. Jugocroati avevamo scritto sulla carta d’identità. Nel campo c’erano delle stanze grandi dove dormivano dieci persone, dieci ragazzi e anche più. Noi stavamo dove c’era la caserma, dove che c’era il forno, ma adesso han buttato giù tutto, ma mi sembra che dove stavo io c’era la caserma in tempo di guerra. E noi dormivamo lì, eravamo tanti. Famiglie poche, poche famiglie. Di famiglie molte venivano dal Sansego, un’isola vicino a Lussimpiccolo, ma loro andavano per la più parte a finire negli Stati Uniti. Loro avevano i suoi parenti là e andavano negli Stati Uniti: [a Trieste] stavano due mesi, finchè non trovavano i documenti [non erano pronti i documenti]...[Stavano lì a San Sabba] fino a che non passava l’Interpol, perché passava l’Inerpol per farti prendere l’asilo politico, che ti chiedevano se veramente eri contro quel regime lì, perché non a tutti gli davano asilo politico. A certi davano solo la possibilità di lavorare.
Guido C.
Guardi, le voglio raccontare una cosa: lui parla di Trieste, ma io son venuta da Pola a Milano. E ... [Leggi tutto]
Guardi, le voglio raccontare una cosa: lui parla di Trieste, ma io son venuta da Pola a Milano. E la mia padrona, la persona dove sono andata a lavorare, mi ha portato al duomo, nelle piazze e poi in un magazzino: la Rinascente! Ma io soffrivo per la mamma, piangevo dentro, ma mi dicevo: cara mamma, con così tante belle robe non ritorno! Al primo stipendio che ho preso, l’ho speso in sta roba di biancheria intima, camicie e gli ho spedito felicemente, ma non sono più ritornata. E lei mi scriveva - non sapeva neanche scrivere, scriveva una sua vicina - che se io dovessi avere bisogno, lei mi spedirà tutto perché non avessi fame o cosa. Ma con tutta quella roba! (Gilda)
Guido C.
Eh, dalla Jugoslavia venire a Trieste mi ha fatto effetto. Io in Jugoslavia ho fatto il militare a ... [Leggi tutto]
Eh, dalla Jugoslavia venire a Trieste mi ha fatto effetto. Io in Jugoslavia ho fatto il militare a Spalato, che Spalato è una città [tre le] migliori della Jugoslavia, però quando sono venuto in Italia son rimasto con la bocca aperta. A Trieste vedere tutte queste vetrine, sti negozi, tutta sta roba che c’era, mamma mia! Mai più torno indietro! Trovarsi le scarpe che volevi, gli stivali per lavorare, mamma mia! Mai più vado là [in Jugoslavia] dicevo!
Guido C.

Immagini

Foto di classe nel cortile del Campo Profughi di Lucca, piazza del Collegio, 1951
Foto di classe nel cortile del Campo Profughi di Lucca, piazza del Collegio, 1951
Campo Profughi di Lucca (piazza del Collegio), 1949. Il cortile del campo
Campo Profughi di Lucca (piazza del Collegio), 1949. Il cortile del campo
Foto di gruppo nella scuola del Campo Profughi di Lucca, 1949
Foto di gruppo nella scuola del Campo Profughi di Lucca, 1949
Foto di gruppo. Sullo sfondo l'asilo del Campo Profughi, Lucca
Foto di gruppo. Sullo sfondo l'asilo del Campo Profughi, Lucca
Mantova, Campo Profughi, 1951: la squadra degli esuli prima di una partita
Mantova, Campo Profughi, 1951: la squadra degli esuli prima di una partita
Mantova, Campo Profughi, 1950: la squadra degli esuli prima di una partita
Mantova, Campo Profughi, 1950: la squadra degli esuli prima di una partita
Serata danzante al campo profughi di Altamura (Bari), 1950
Serata danzante al campo profughi di Altamura (Bari), 1950
Campo profughi di Altamura (Bari), primi anni Cinquanta
Campo profughi di Altamura (Bari), primi anni Cinquanta
Ingresso del Centro di Raccolta Profughi di Altamura (Bari)
Ingresso del Centro di Raccolta Profughi di Altamura (Bari)
In bicicletta per il campo profughi di Altamura (Bari), primi anni Cinquanta
In bicicletta per il campo profughi di Altamura (Bari), primi anni Cinquanta
Interno di una baracca, Centro Raccolta Profughi di Catania, prima metà anni Cinquanta
Interno di una baracca, Centro Raccolta Profughi di Catania, prima metà anni Cinquanta
Squadra di calcio, Centro Raccolta Profughi Laterina (Arezzo), 1950
Squadra di calcio, Centro Raccolta Profughi Laterina (Arezzo), 1950
Processione nel Centro Raccolta Profughi di Laterina (Arezzo), 1951
Processione nel Centro Raccolta Profughi di Laterina (Arezzo), 1951
Processione. Sullo sfondo le baracche del Centro Raccolta Profughi di Laterina, fine anni Quaranta
Processione. Sullo sfondo le baracche del Centro Raccolta Profughi di Laterina, fine anni Quaranta
Centro Raccolta Profughi di Laterina, processione. Sullo sfondo le baracche, fine anni Quaranta
Centro Raccolta Profughi di Laterina, processione. Sullo sfondo le baracche, fine anni Quaranta
Carnevale per le vie della città, Marina di Carrara, 1951
Carnevale per le vie della città, Marina di Carrara, 1951
Marina di Carrara: il coro all'interno della chiesa, 1951
Marina di Carrara: il coro all'interno della chiesa, 1951
Foto di gruppo davanti alla chiesa del campo profughi, Marina di Carrara, 16 marzo 1952
Foto di gruppo davanti alla chiesa del campo profughi, Marina di Carrara, 16 marzo 1952
Processione nel campo profughi a Marina di Carrara, 1955
Processione nel campo profughi a Marina di Carrara, 1955
L'interno di una baracca in un centro raccolta profughi
L'interno di una baracca in un centro raccolta profughi
Bambine giuliano-dalmate nel campo profughi di Servigliano
Bambine giuliano-dalmate nel campo profughi di Servigliano
Bambini giuliano-dalmati suonano nel campo profughi di Servigliano.
Bambini giuliano-dalmati suonano nel campo profughi di Servigliano.
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel campo profughi di Servigliano
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel campo profughi di Servigliano
Gruppo di bambine giuliano-dalmate nel campo profughi di Servigliano
Gruppo di bambine giuliano-dalmate nel campo profughi di Servigliano
Profughi giuliano-dalmati festeggiano il Natale
Profughi giuliano-dalmati festeggiano il Natale
Centro smistamento profughi di Udine
Centro smistamento profughi di Udine
Centro raccolta profughi ex Caserma Ettore Fieramosca di Barletta
Centro raccolta profughi ex Caserma Ettore Fieramosca di Barletta
Profughi giuliano-dalmati nel Centro di raccolta  profughi di Barletta
Profughi giuliano-dalmati nel Centro di raccolta profughi di Barletta
Profughi giuliano-dalmati nel Centro di raccolta profughi di Barletta
Profughi giuliano-dalmati nel Centro di raccolta profughi di Barletta
Gruppo di profughi durante una festa al Centro di raccolta profughi di Barletta
Gruppo di profughi durante una festa al Centro di raccolta profughi di Barletta
Giovani profughe libiche passeggiano per il centro di raccolta di Servigliano
Giovani profughe libiche passeggiano per il centro di raccolta di Servigliano
Gruppo di giovani profughi al centro raccolta profughi di Mantova
Gruppo di giovani profughi al centro raccolta profughi di Mantova
Donne profughe dalla Libia nel centro raccolta profughi di Servigliano
Donne profughe dalla Libia nel centro raccolta profughi di Servigliano
Bambini profughi giuliano-dalmati nel centro raccolta profughi di Servigliano
Bambini profughi giuliano-dalmati nel centro raccolta profughi di Servigliano
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel centro raccolta profughi di Servigliano
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel centro raccolta profughi di Servigliano
Profughe giuliano-dalmate a Servigliano
Profughe giuliano-dalmate a Servigliano
Profughe giuliano-dalmate nel centro raccolta profughi di Monza
Profughe giuliano-dalmate nel centro raccolta profughi di Monza
Giovane profuga giuliano-dalmata nel centro di raccolta profughi di Monza
Giovane profuga giuliano-dalmata nel centro di raccolta profughi di Monza
Profuga giuliano-dalmata il giorno della Prima Comunione nel campo di Servigliano
Profuga giuliano-dalmata il giorno della Prima Comunione nel campo di Servigliano
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel campo di Monza
Famiglia di profughi giuliano-dalmati nel campo di Monza
Profughi giuliano-dalmati nel campo profughi di Servigliano
Profughi giuliano-dalmati nel campo profughi di Servigliano
Profughe giuliane davanti al campo profughi di Villa Reale a Monza
Profughe giuliane davanti al campo profughi di Villa Reale a Monza
Cresima nel campo profughi di Villa Reale a Monza
Cresima nel campo profughi di Villa Reale a Monza
Interno di un'abitazione del campo profughi di Villa Reale a Monza
Interno di un'abitazione del campo profughi di Villa Reale a Monza

Riferimenti archivistici

 Archivio Storico della Città di Torino, Fondo Ente Comunale di Assistenza, Cartella 114, Fascicolo 3, Casermette: relazioni 1944-1945

Riferimenti bibliografici

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