Ernesto S.
Arrivati in Italia portando con sé il minimo indispensabile, gli esuli giuliano-dalmati si trovano a vivere nella condizione di profughi, senza essere in grado, nella maggior parte dei casi, di provvedere autonomamente alla loro sopravvivenza. La sistemazione di questa enorme massa di persone, "cui occorre provvedere a dare un tetto" unitamente "a tutta l'assistenza igienica, sanitaria, alimentare e morale" [ASCT, Fondo ECA], diventa quindi per gli apparati governativi italiani un problema concreto da affrontare con una certa urgenza e risolvere nel minor tempo possibile. La soluzione individuata per garantire una rapida ed adeguata accoglienza, è quella di affidare la sistemazione dei profughi giuliano-dalmati a campi e centri di raccolta. Strutture che all'inizio del 1947 - come si legge in una relazione redatta dalla direttrice del centro di raccolta delle Casermette di Borgo San Paolo di Torino - ammontano a "92 unità, dislocate in 43 città italiane" [ASCT, Fondo ECA], per poi aumentare negli anni successivi, quando sono almeno 109 i campi profughi attivi sull'intero territorio nazionale. Al loro interno i profughi giuliano-dalmati si trovano a convivere con altre categorie di persone come "i prigionieri di guerra che fanno ritorno in patria, i profughi stranieri, gli italiani rimpatriati dalle ex colonie africane e dalle isole greche" [C. Di Sante, 2008], i sinistrati e gli sfollati di guerra e i cittadini più indigenti e bisognosi. Per poter ospitare un così vasto numero di persone, la autorità italiane riutilizzano strutture in disuso già esistenti come ospedali, caserme, scuole, conventi, colonie, stabilimenti industriali dimessi, ma anche ex campi di concentramento e prigionia già usati dai nazifascisti per l'internamento dei civili e dei prigionieri di guerra (è il caso, ad esempio, della Risiera di San Sabba a Trieste, del campo di Fossoli a pochi chilometri da Modena, di quello di Laterina in provincia di Arezzo e di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza).
Nei campi, all'interno dei quali la permanenza si protrae per diversi anni, i profughi giuliano dalmati arrivano dopo il compimento di una trafila ben collaudata che dopo una prima e breve sosta nei locali del Silos di Trieste, un edificio di grandi dimensioni ubicato a pochi passi dalla stazione ferroviaria ed utilizzato in passato come deposito del grano, prevede il trasferimento a Udine dove, tra il 1947 e il 1960 [E. Varutti, 2007] è attivo in via Pradamano un centro di smistamento dal quale, dopo una sosta di pochi giorni, i profughi partono per il campo di destinazione, assegnato non in base alle preferenze dei singoli individui ma alle disponibilità ricettive delle varie strutture della penisola.
Indipendentemente dalla loro localizzazione sul territorio nazionale, il denominatore comune caratterizzante tutti i centri di raccolta, la cui gestione è affidata al Ministero dell'Interno e a quello dell'Assistenza Post-Bellica che operano in totale collaborazione con le autorità comunali e gli Enti Comunali di Assistenza, sembra essere la precarietà che caratterizza le condizioni di vita all'interno di tali strutture, dove interi nuclei familiari vivono in box di pochi metri quadrati separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da semplici barriere di compensato. Una promiscuità che porta, quasi automaticamente, i profughi a vivere in una condizione di costante incertezza, scandita dall'affiorare di una serie di gravi disagi legati non solo agli ambienti malsani e alle precarie condizioni igieniche, ma anche alla la mancanza pressoché totale di spazi intimi e personali con la conseguente condivisione obbligata degli spazi abitativi, e all'isolamento dal contesto cittadino, dal momento che i campi al cui interno sorgono asili nido e scuole elementari, refettori e cucine, infermerie e biblioteche, esercizi commerciali e luoghi di svago, finiscono per essere un mondo a parte, totalmente estraneo al resto della città, dove la quotidianità è scandita da ritmi, tempi e regole proprie.
Arrivati in Italia portando con sé il minimo indispensabile, gli esuli giuliano-dalmati si trovano a vivere nella condizione di profughi, senza essere in grado, nella maggior parte dei casi, di provvedere autonomamente alla loro sopravvivenza. La sistemazione di questa enorme massa di persone, "cui occorre provvedere a dare un tetto" unitamente "a tutta l'assistenza igienica, sanitaria, alimentare e morale" [ASCT, Fondo ECA], diventa quindi per gli apparati governativi italiani un problema concreto da affrontare con una certa urgenza e risolvere nel minor tempo possibile. La soluzione individuata per garantire una rapida ed adeguata accoglienza, è quella di affidare la sistemazione dei profughi giuliano-dalmati a campi e centri di raccolta. Strutture che all'inizio del 1947 - come si legge in una relazione redatta dalla direttrice del centro di raccolta delle Casermette di Borgo San Paolo di Torino - ammontano a "92 unità, dislocate in 43 città italiane" [ASCT, Fondo ECA], per poi aumentare negli anni successivi, quando sono almeno 109 i campi profughi attivi sull'intero territorio nazionale. Al loro interno i profughi giuliano-dalmati si trovano a convivere con altre categorie di persone come "i prigionieri di guerra che fanno ritorno in patria, i profughi stranieri, gli italiani rimpatriati dalle ex colonie africane e dalle isole greche" [C. Di Sante, 2008], i sinistrati e gli sfollati di guerra e i cittadini più indigenti e bisognosi. Per poter ospitare un così vasto numero di persone, la autorità italiane riutilizzano strutture in disuso già esistenti come ospedali, caserme, scuole, conventi, colonie, stabilimenti industriali dimessi, ma anche ex campi di concentramento e prigionia già usati dai nazifascisti per l'internamento dei civili e dei prigionieri di guerra (è il caso, ad esempio, della Risiera di San Sabba a Trieste, del campo di Fossoli a pochi chilometri da Modena, di quello di Laterina in provincia di Arezzo e di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza).
Nei campi, all'interno dei quali la permanenza si protrae per diversi anni (nel 1963 sono 8.493 i profughi ospitati nei quindici centri ancora attivi) i profughi giuliano dalmati arrivano dopo il compimento di una trafila ben collaudata che dopo una prima e breve sosta nei locali del Silos di Trieste, un edificio di grandi dimensioni ubicato a pochi passi dalla stazione ferroviaria ed utilizzato in passato come deposito del grano, prevede il trasferimento a Udine dove, tra il 1947 e il 1960 [E. Varutti, 2007] è attivo in via Pradamano un centro di smistamento dal quale, dopo una sosta di pochi giorni, i profughi partono per il campo di destinazione, assegnato non in base alle preferenze dei singoli individui ma alle disponibilità ricettive delle varie strutture della penisola.
Indipendentemente dalla loro localizzazione sul territorio nazionale, il denominatore comune caratterizzante tutti i centri di raccolta, la cui gestione è affidata al Ministero dell'Interno e a quello dell'Assistenza Post-Bellica che operano in totale collaborazione con le autorità comunali e gli Enti Comunali di Assistenza, sembra essere la precarietà che caratterizza le condizioni di vita all'interno di tali strutture, dove interi nuclei familiari vivono in box di pochi metri quadrati separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da semplici barriere di compensato. Una promiscuità che porta, quasi automaticamente, i profughi a vivere in una condizione di costante incertezza, scandita dall'affiorare di una serie di gravi disagi legati non solo agli ambienti malsani e alle precarie condizioni igieniche, ma anche alla la mancanza pressoché totale di spazi intimi e personali con la conseguente condivisione obbligata degli spazi abitativi, e all'isolamento dal contesto cittadino, dal momento che i campi al cui interno sorgono asili nido e scuole elementari, refettori e cucine, infermerie e biblioteche, esercizi commerciali e luoghi di svago, finiscono per essere un mondo a parte, totalmente estraneo al resto della città, dove la quotidianità è scandita da ritmi, tempi e regole proprie.