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La distribuzione della popolazione in Istria Agg

Levigata dal soffio gelido ed impetuoso della bora e bagnata dalle acque turchine dell'Adriatico, la penisola istriana ha visto, per secoli, annodarsi e snodarsi una molteplicità di fili. Uno spicchio di terra segnato da sfaccettature linguistiche e culturali composite e variegate, frutto della presenza, dell'insediamento e dei contatti tra le diverse popolazioni che hanno piantato le loro radici su questi territori. Luoghi nei quali convivono, in uno spazio geografico ristretto, consistenti nuclei di italiani, sloveni e croati, la cui distribuzione insediativa è affidata alla ripartizione città/campagna e fascia costiera/territori interni, che delinea una maggior concentrazione della componente italiana lungo la costa, e di quella slava nelle campagne dell'entroterra. Una definizione che nasconde, tra le pieghe, la demagogica rappresentazione di due mondi: quello italiano, cittadino e costiero, colto ed evoluto, e quello slavo, rozzo, povero e rurale. Una subordinazione di un universo rispetto a un altro, che porterà mondi e culture geograficamente vicini a procedere paralleli lungo un asse sottile, separati da un solco e senza sfiorarsi mai. Due mondi che tracceranno una linea di sofferenze e tensioni che non unisce ma separa, lacera e divide, accompagnando, con intensità crescente, la storia di queste terre. Una storia caratterizzata da equilibri fragili e delicati, destinati ad arrivare a un cortocircuito, le cui radici affondano nella negazione e nell'esclusione dell'altro simboleggiata da una parola, s'ciavo, spesso utilizzata dalla componente italiana per definire, identificare e screditare gli abitanti della regione di origine slava.

Testimonianze

Sono nata a Rovigno d’Istria nel 1925. Mio papà faceva l’agricoltore, mia mamma era in Manifattura ... [Leggi tutto]
Sono nata a Rovigno d’Istria nel 1925. Mio papà faceva l’agricoltore, mia mamma era in Manifattura Tabacchi, [da] quando c’era ancora l’Austria, perché lei sa meglio di me che una volta da noi c’era l’Austria. Mia mamma era in Manifattura Tabacchi, poi è scoppiata la guerra e [i miei genitori] sono andati profughi in Austria. Chi lavorava in Manifattura Tabacchi era un piccolo signore. Un piccolo signore, perché c’era la paga sicura. E la Manifattura Tabacchi l’hanno costruita quando c’era Francesco Giuseppe, perché prima era una Manifattura piccolina e adesso han portato via tutto. Ma ci lavorava tanta di quella gente! E’ stata una ricchezza per Rovigno. [Poi] c’era il conservificio pesce [e] c’era la fabbrica del gas. [Rovigno quindi] era un paese che viveva si dell’industria, ma anche della terra e del mare.
Gina P.
Io son nata il 30 del 5 del 1929 a Rovigno d’Istria. [Mia mamma] lavorava nella Manifattura ... [Leggi tutto]
Io son nata il 30 del 5 del 1929 a Rovigno d’Istria. [Mia mamma] lavorava nella Manifattura Tabacchi e io lavoravo in Fabbrica sardine, quella del pesce. Mia mamma ha lavorato lì tanti anni, fino a che non è andata in pensione, e sarebbe stata la seconda fabbrica d’Italia di tabacchi. E c’erano tante donne che lavoravano, tante. [Rovigno] era una città bellissima. Si stava bene. C’era quelle due fabbriche, poi c’era i pescatori e tanti negozi, tutti i negozi. L’elemento italiano era in città, i croati erano fuori. [Il rapporto] non era tanto bello! Ancora adesso eh! C’è sempre quell’odio, eh! Insomma, quelli lì, sti slavi, li chiamavano gli s’ciavoni, in dialetto. Gli italiani li odiavano e gli altri odiavano gli italiani. E’ sempre stato così.
Eufemia M.
Noi [gli slavi] li consideravamo sempre inferiori a noi, questo devo dirlo. [Lo slavo] era più ... [Leggi tutto]
Noi [gli slavi] li consideravamo sempre inferiori a noi, questo devo dirlo. [Lo slavo] era più sottomesso, lui. Noi ci sentivamo superiori a loro. Forse non era giusto, però era così. [Li chiamavamo] s'ciavon! Per loro è il più grande disprezzo, però per noi è s'ciavon. [Il rapporto non era buono], no,no, tutt'altro. Non lo è mai stato e non lo sarà, penso, mai. Soprattutto adesso che non ci possono vedere perché loro sono al potere.
Antonietta C.
Noi [gli slavi] li consideravamo sempre inferiori a noi, questo devo dirlo. [Lo slavo] era più ... [Leggi tutto]
Noi [gli slavi] li consideravamo sempre inferiori a noi, questo devo dirlo. [Lo slavo] era più sottomesso, lui. Noi ci sentivamo superiori a loro. Forse non era giusto, però era così. [Li chiamavamo] s'ciavon! Per loro è il più grande disprezzo, però per noi è s'ciavon. [Il rapporto non era buono], no,no, tutt'altro. Non lo è mai stato e non lo sarà, penso, mai. Soprattutto adesso che non ci possono vedere perché loro sono al potere. (Antonietta C.)

Era un rapporto da un lato conflittuale, perché quando c'erano delle feste nazionali italiane, tutti gli italiani andavano lì lungo il muro vicino al canale [accanto alla linea di confine] e urlavano viva l'Italia, abbasso i croati. Non so, urlavano i loro slogan. E gli altri, naturalmente, si incavolavano e rispondevano per le rime. E quando c'erano le feste jugoslave era la stessa scena rovesciata. Quindi, da questo punto di vista c'era nazionalismo: il momento in cui c'era da celebrare la propria italianità o l'essere jugoslavi, questo era sentito, era partecipato. E quindi si urlavano anche ben ben contro. Però dall'altro lato c'erano scambi normali, come in tutte le città di frontiera, assolutamente. Questo rapporto con l'entroterra era semplicemente di scambio. Scambio anche commerciale...Fiume non aveva entroterra, nel senso che l'entroterra era slavo e tutti i prodotti arrivavano dall'entroterra. C'erano le mlekarize, le cicce, i bodoli che venivano a vendere il vino...Io [poi] mi sono resa conto di questo odio tra interno dell'Istria e costa, perché io prima non l'avevo [percepito]. Ma ti dico di più: ero talmente inconsapevole, che iol fatto di andare a Fiume - diventata Rijeka - e vedere gente di tutte le parti della Jugoslavia che conviveva serenamente sotto Tito, mi dava proprio la sensazione di una città multietnica come era sempre stata. Perché Fiume è sempre stata multietnica: slavi ce n'eran per forza, compresi i miei nonni! E poi c'erano ebrei, c'erano tedeschi, cinesi - mi dice mia madre -, c'era gente da tutto il Mediterraneo, è sempre stata una città multietnica. Io quando ho visto quello che è successo alla fine degli anni Novanta dopo la caduta di Tito e la caduta del muro, son cascata dal pero. Non riuscivo a capire... Mi dicevo: ma come, mio nonno nella stanza accanto alla sua aveva una bosniaca che abitava col marito, che lo aiutava tantissimo e lo trattava come un padre... Perché mio nonno ha poi dovuto affittare una stanza dell'appartamento, sennò gliela requisivano. Io ho conosciuto ragazzi di tutta la Jugoslavia [lì a Fiume] nella mia adolescenza, e non capivo... Poi, oltretutto, io come italiana son sempre stata trattata benissimo, e loro anzi erano sempre tutti desiderosi di conoscere l'italiano. E quindi io non capivo, non mi sono resa conto di questi odi, che sono poi esplosi in modo terrificante negli anni Novanta. Ma veramente, io non ho mai colto. E mio padre mi sembrava patetico, pover'uomo, perché lui imprecava contro gli slavi e contro Tito, eccetera. E io gli dicevo: ma se sei sloveno!
Adriana S.

Rovigno c’era tanto pesce [pesca]. Forse un po’di agricoltura, però lì la terra mi sa che sia un ... [Leggi tutto]
Rovigno c’era tanto pesce [pesca]. Forse un po’di agricoltura, però lì la terra mi sa che sia un po’ duretta. Forse all’interno [c’era un po’ di agricoltura], ma lì secondo me [c’era tanto pesce]. Ecco, [poi c’erano] i cantieri navali: c’è ancora adesso un paio di cantieri che probabilmente all’epoca facevano anche qualcosa di nuovo, adesso riparano solo più barche di pescatori, qualche motonave, però è una cosina piccolina. E poi c’era la Fabbrica del tabacco, la famosa fabbrica del tabacco: i tabacchi ancora adesso [ci sono], anche se non più tanto, perchè la stanno smantellando: ci è rimasto solo più un portoncino che oltretutto non c’è neanche più il muretto di fianco. Da una parte c’è la Fabbrica tabacchi, e dalla parte opposta, verso l’ospedale, c’era la fabbrica di sardine, che mia mamma ha lavorato nella Smirne, la fabbrica di sardine che era a Rovigno. E difatti mi ricordo che mia mamma mi diceva: mi raccomando, quando compri le sardine devi guardarle come sono! Lei era abituata, faceva quel lavoro lì! Lì erano più italiani, poi nel ’48 è stata data alla Jugoslavia come bottino di guerra. Poi c’era i s’ciavoni... Però si, mi ricordo quella parola lì, però se dovessi collocarla bene il perché e il per come lo dicevano [non saprei]. Probabilmente [era riferita a] gente che non andava, che non gli piaceva ai rovignesi. Erano forse un po’ chiusi loro, e allora quelli che venivano dall’interno li chiamavano s’ciavoni perché venivano da fuori. Ma dir bene il perché e il che cosa volesse dire non lo so, non lo saprei. Probabilmente era gente che veniva da fuori, gente che non è del paese, non lo so io. Come per dire foresti, forestieri, ecco. Non so se era una parola detta con disprezzo, per disprezzarli, come dispregiativo, oppure se era un nomignolo come per dire: non sei di Asti e allora sei un foresto; come i veneti che dicono sei un foresto e allora vieni di fuori dal paese. Quello non saprei.
Elvio N.
[Gli italiani] erano un’élite, erano quelli che si chiamavano i maggiorenti della città. Ricordo ... [Leggi tutto]
[Gli italiani] erano un’élite, erano quelli che si chiamavano i maggiorenti della città. Ricordo che gli slavi venivano chiamati i s’ciavi, gli s’ciavoni, per disprezzo, [come] una categoria di seconda classe, cittadini di second’ordine. E già allora c’era un certo disagio, ed erano nettamente separati dalla popolazione costiera, perché loro vivevano soprattutto nell’interno, venivano a Rovigno per lavorare: gli scaricatori di bauxite, i contadini che venivano a vendere le loro frutta e verdura. Facevano, in sostanza, i lavori più umili.
Selina S.
Rovigno era proprio italiana, ma se andava fuori, due chilometri, non proprio in periferia ma dove ... [Leggi tutto]
Rovigno era proprio italiana, ma se andava fuori, due chilometri, non proprio in periferia ma dove cominciava la campagna, lì già cominciavano ad essere slavi, diciamo, un po’ bastardati, per dire una parola brutta. Bisogna dire la verità, e cioè che gli italiani non vedevano bene quelli che erano di razza slava, e gli slavi reciprocamente. S’ciavon, schiavone... Che, insomma, non ha senso per conto mio questa parola, perché anche a Venezia c’è la riva degli schiavoni, ma noi in dialetto [gli slavi] li chiamavamo s’ciavoni, che era dispregiativo, si, si. Guardi, certe cose son successe perché l’italiano era un po’ sul chi va là quando sentiva la parola [la lingua] croata. Era anche sbagliato, però era così. Io ero ragazza, cosa vuole, a quei tempi mi interessava poco, sa, nel ’41, quando è scoppiata la guerra avevo sedici anni. [I rapporti tra italiani e slavi] sa quand’è che non erano buonissimi? Proprio quando è scoppiata la guerra, cioè, neanche quando è scoppiata la guerra, ma quando è venuto Tito. Perché se io davo uno schiaffo a uno, quello quando ha avuto il potere me ne ha dati dieci! Dico, io, per dire. E poi è saltato fuori tutto questo odio.
Gina P.
La maggioranza degli italiani sono andati tutti via e chi comandava? I croati comandavano. Dicevano ... [Leggi tutto]
La maggioranza degli italiani sono andati tutti via e chi comandava? I croati comandavano. Dicevano la fratellanza tra italiani e croati, ma la cosa era diversa, capito? Tutti quanti sono andati via, la maggioranza: l’80% degli italiani sono andati via. E gli altri son rimasti lì. [E] allora, quando era Italia criticavano sti porchi de s’ciavoni: il pan ei dise cruca e la farina muca e i ovi iaia! [è una filastrocca che dice]: sti porci di s’ciavoni, il pane lo chiamano crucca, ma porca miseria il pane si chiama pane, non crucca; la farina non è muca, ma è farina e gli uovi, l’uovo si chiama uovo, non iaia. Poi mia zia mi diceva che cantavano [anche una canzone]: se non ci conoscete, guardateci la maglia, noi siamo gli ardentisti di Gigi Bilucaglia. Anche lì, sti s’ciavoni erano bloccati quando c’era l’Italia, erano soppressi, diciamo. Poi tutto l’incontrario.
Giuseppe T.
[Pola] era tutta italiana. Allora, io andavo a scuola, scuola slava, perché ci avevano messo lì, ... [Leggi tutto]
[Pola] era tutta italiana. Allora, io andavo a scuola, scuola slava, perché ci avevano messo lì, vado a casa e ho detto una parola in slavo a mia mamma. Lei mi ha detto una cosa e io le ho risposto in slavo: mi ha tirato uno schiaffo! E mi ricorderò sempre che mi ha detto con questo dito [con il dito indice]: ricordati una cosa, che in questa casa si parla solo italiano! Mia madre era una persona dura: ricordati che in questa casa si parla solo ed esclusivamente italiano! I rapporti con i croati? Ah, era la guerra, come Toro-Juve! Solo che lì era un po’ più pesante, era veramente guerra, cioè era un odio proprio... E’ sempre stato odio. Io mi ricordo, quando ero bambino, che quando si parlava della gente in campagna, si parlava come l’americano con il negro: noi dicevamo s’ciavo. [Dicevamo]: non parlar con quello che è un s’ciavo, non davamo confidenza, neanche come famiglia. Erano proprio due mondi separati; poi è chiaro che ci sarà stato qualcuno che parlava anche slavo, che sarà stato amico, io [però] parlo di casa mia [dove] questa amicizia non c’è mai stata.
Luigi B.
Sono nato a Rovigno d’Istria nel 1926. La mia famiglia era gente molto povera: una famiglia ... [Leggi tutto]
Sono nato a Rovigno d’Istria nel 1926. La mia famiglia era gente molto povera: una famiglia numerosa e di conseguenza... Perché sotto il fascismo c’erano quelli che stavano bene, ma dal punto di vista mia stavamo male, lavorava solo il papà, eravamo cinque figli e può capire. Mio papà navigava nel Lloyd Triestino ed era andato fino in Cina e tutto quanto. Poi per motivi di famiglia è rientrato ed ha preso lavoro come scaricatore di porto, e lavorava. Le angherie che ha subito! Perché , cosa succedeva? Questo sotto il fascismo eh, si ricordi. Lui lavorava come scaricatore di porto, e c’era l’immigrazione e allora si tentava di andare in America, di andare via, di trovare una sistemazione per la famiglia. E’ successo che mio padre è immigrato negli Stati Uniti e lì lo han preso, perché arrivavano come... Insomma, sbarcavano non regolarmente, e l’han preso e l’han rimandato in Italia. A volte si dice perché si diventa poi antifascisti e contro la dittatura di destra. Tornando in Italia mio padre ha preso lavoro regolare come portuale. Ma a cercare... I periodi di lavoro, zero assoluto, neanche una marchetta. Per castigo che è immigrato negli Stati Uniti, non gli han pagato nessun contributo né niente, zero assoluto. E lui e altri tanti come lui, scaricatori di porto, si son trovati a lavorare, che han lavorato una vita, sempre lavorare, a prendere una cosa è successo? Non gli han pagato i contributi, si son fatti le ville, i caporioni, si son fatti le ville e i terreni, e poi qui si piange perché qualcuno è andato in foiba. Ma se l’è meritata! Rovigno aveva una tradizione proprio socialista e di sinistra. Era poco fascista, e quel poco fascismo che c’era era perché la gente aveva bisogno di lavorare e pagava la tessera e andava a lavorare in Fabbrica Tabacchi, e gli altri niente, si arrangiavano. La gente era italiana, di lingua italiana, e snobbava lo slavo, proprio come dire... S’ciavon! Che poi la parola s’ciavone non è un’offesa, però noi si diceva in senso dispregiativo. E’ stato sempre un odio. Non c’era un contatto, niente, e pensare che se andiamo profondamente a vedere, la popolazione è abbastanza mista. Per esempio, mia nonna era di origine slava T.-ich, i nonni invece erano friulani, venivano proprio dalla parte di Udine. Magari sotto l’Austria io non so, ma quando è venuta l’Italia, ci hanno inculcato pian piano la nostra supremazia di italiani rispetto agli slavi, e lo slavo veniva snobbato da parte nostra. E non era una cosa proprio bella questa.
Aldo S.
Io son nato a Rovigno d’Istria il 17 novembre del 1946. Noi eravamo poveri: mia mamma lavorava alla ... [Leggi tutto]
Io son nato a Rovigno d’Istria il 17 novembre del 1946. Noi eravamo poveri: mia mamma lavorava alla fabbrica che faceva le sigarette e mio papà [era] pescatore, quindi non è che eravamo proprio nell’oro, eh! A Rovigno erano tutti italiani, la gente viveva di pesca, tutto di pesca, [erano] tutti pescatori. Poi c’erano quelle poche che lavoravano alla Fabbrica Tabacchi. E poi c’era la Mirna, che faceva pesce in scatola: tonno, pesce in scatola, sardine in scatola. Mirna si chiamava, adesso non c’è più. Cioè, praticamente c’ erano due o tre fabbrichette che lavoravano e, mi ricordo adesso, i pescatori prendevano sarde e sardine e le portavano alla Mirna di Rovigno.
Giuseppe S.
Io la posso ricordare solo con gli occhi di bambina e di ragazza, perché io sono stata portata in ... [Leggi tutto]
Io la posso ricordare solo con gli occhi di bambina e di ragazza, perché io sono stata portata in fasce a Rovigno, nel 1926, e per quattordici anni ho vissuto praticamente sempre a Rovigno, anche se poi ci sono tornata sempre. Quando sono andata per la prima volta, e questa impressione è durata molte volte e forse dura sempre, arrivando dalla strada di Trieste si comincia a vedere, da lontano, il campanile che svetta sulla città vecchia, sul suo colle. E’ un’impressione fortissima, direi che forse è quella l’immagine: questo campanile che aveva un effetto e un impatto emotivo molto forte. In seguito mi son voltata un po’ troppo a guardare Rovigno, perché quella Rovigno è un luogo perduto per sempre. Un sigillo, come tombale: quella Rovigno è morta per sempre. Abbiamo le fotografie. Rovigno è stata austriaca fino alla precedente guerra mondiale e dopo è diventata italiana. Prima ancora era stata veneziana; insomma, aveva subito molti passaggi, per cui era multietnica e multiculturale. E l’Austria-Ungheria, aveva lasciato una grossa impronta, io credo. Era una cittadina elegante”.
Selina S.
A Fiume c’era la fabbrica del Siluruficio, che mio marito lavorava [lì], i cantieri navali, c’era ... [Leggi tutto]
A Fiume c’era la fabbrica del Siluruficio, che mio marito lavorava [lì], i cantieri navali, c’era la R.O.M.S.A. Era poi un porto importante, più importante di quello di Pola, molto più importante, perché veniva subito, sull’Adriatico era il primo porto che incontravi. Era pieno di pescecani però nel Quarnaro, perché i pescecani seguivano le navi e ovviamente [dalle navi] buttavano da mangiare e loro seguivano la nave. Poi [la nave] entrava dentro nel golfo del Quarnaro, loro seguivano la nave e dopo i pescecani non sapevano più uscire, e rimanevano dentro. E allora, se trovavano da mangiare stavano tranquilli, se no mangiavano le persone. E difatti noi avevamo sempre gli stabilimenti con le boe sopra, e oltre quella boa non potevi andare, era tua responsabilità ovviamente. E quando c’era un pescecane in vista, passava subito la guardia costiera ad avvertire col megafono a dire: non allontanatevi, c’è il pescecane in vista, non allontanatevi, c’è il pescecane in vista. Una volta mio marito - questo me lo ha raccontato dopo, perché l’ho conosciuto dopo - che andava a pescare, mi ha raccontato che era andato a pesca con una barca, e c’era un altro suo amico con un’altra barca, ma vicini, che pescavano. A un certo punto mio marito guarda e vede sotto la barca del suo amico il pescecane, perché faceva ombra alla barca e gli dice: non ti muovere che c’hai il pescecane sotto! Quello lì voleva impazzire, e guai se si muoveva! E anzi, se i pescatori riuscivano in qualche modo a beccare un pescecane, a ucciderlo, addirittura ricevevano una ricompensa. Noi eravamo italiani a tutti gli effetti. Io mi ricordo che ero ragazza, prendevo il passaporto e andavo dall’altra parte, perché c’era il fiume che divideva le due città. Io prendevo il passaporto e andavo a fare la spesa a Susak, perché parlando croato sapevo che lì potevo trovare certe cose che magari dall’altra parte non trovavo. Con i croati non c’era niente, almeno che mi ricordo io.
Livia B.
Prima avevamo un porto, e avevamo le navi e i sottomarini che commerciavano in tutto il mondo. ... [Leggi tutto]
Prima avevamo un porto, e avevamo le navi e i sottomarini che commerciavano in tutto il mondo. Avevamo la Fabbrica Tabacchi, la cartiera, il zuccherificio, avevamo tutto. Avevamo tanta gente del bassitalia che lavoravano alla Posta e che venivano lì, avevamo tutto. Anche la fabbrica dei motorini, c’era la Atomos. Fiume faceva parte a sé , come San Marino. Poi, invece, dato che faceva gola a tutti, che faceva gola come acqua, come porto e come tutto, allora l’han sempre occupata.Alla Croazia ha sempre fatto gola Fiume, perché ci divideva solo un ponte: da una parte la Croazia dall’altra l’Italia. Adesso hanno distrutto il ponte, quindi è unico. Era una città molto industriale: non avevamo bisogno di niente, avevamo tutto. Era una città grossa, avevamo anche Standa, adesso non c’è più. Tra i fiumani c’era un incrocio, c’era un miscuglio di razza, anche se da una parte c’era i croati, che si parlavano con gli italiani, però c’era - diciamo - una specie di astio tra italiani e croati.
Fernanda C.
Sono nata l’8 ottobre 1927 a Fiume. Eravamo mamma, papà, io e mio fratello che abita qui a Novara e ... [Leggi tutto]
Sono nata l’8 ottobre 1927 a Fiume. Eravamo mamma, papà, io e mio fratello che abita qui a Novara e che ha cinque anni meno di me. Mio papà lavorava alla raffineria, alla R.O.M.S.A. e mia mamma lavorava in Silurificio nelle frese, ma non so quanto tempo abbia lavorato, ma lavorava anche lì. Io vivevo coi nonni in centro storico, e son cresciuta in centro storico di Fiume. Fiume è una città di mare, è un porto. Era una città industriale: fabbriche, cantieri, raffineria, silurificio, che il silurificio è quello che ha fatto i siluri per tutto il mondo. [Fiume] era sul mare come Genova, [aveva] il clima come Genova, solo che adesso Genova io la definisco così, in salita, invece noi siamo un po’ più piatti! Il confine era a Sussak, e non succedeva niente coi croati veri, con noi italiani. Parlavamo sempre in dialetto, noi ragazzini andavamo oltre la frontiera, e in dialetto si diceva: sa, camina tutela, dove ti va? Facevamo una vita normale, di tranquillità. I croati erano dopo Sussak, che poi adesso è tutto insieme, [mentre prima] c’era il ponte, quello di ferro. E poi da quello che sentivo, Francesco Giuseppe, gliene fregava come parlavamo, basta che lui aveva lo sbocco sul mare! E i rapporti coi croati erano buoni. Per me era una città normale, però ho sentito che alcuni che son rimasti parlano il croato. E coi nostri non si pizzicano, ma non vanno tanto d’accordo!
Amedea M.
Io sono nata a Fiume il 14 luglio 1941. Io Fiume la ricordo benissimo, abitavo di fronte al teatro ... [Leggi tutto]
Io sono nata a Fiume il 14 luglio 1941. Io Fiume la ricordo benissimo, abitavo di fronte al teatro Verdi. E ricordo anche il ponte di Sussak: la mia casa era angolare, e vedevo il ponte di Sussak che era rotabile, si girava. Dunque, parliamo di sessant’anni fa, [il ponte] si girava: qui c’era il teatro Verdi con una scalinata come il San Carlo di Napoli - proprio identico, perché poi a mia volta sono andato in collegio a Napoli e lo ricordo - e poi un’altra cosa che ricordo molto bene è la città vecchia, dove c’era la torre. Mi ricordo che da casa dove abitavamo noi, si faceva una strada e si andava proprio nella città vecchia - che la chiamavano città vecchia- che andava sotto la torre di Fiume, dove c’era l’orologio. [Fiume] era marittima, vivevano tutto sul porto. La gente era italiana: per i cittadini la città di Fiume in sé stessa è italiana. Anche se dal ’45 è diventata croata, per la gente è italiana. Le persone si sentivano italiane, perché se io le dicevo a mia mamma sei titina, lei rispondeva eh no eh, io sono italiana! Fiume era la loro città, era proprio italiana. [I croati erano] a Sussak, da Sussak in poi. Il confine della montagna era italiano, invece dal mare andavamo in Jugoslavia, da Tito e dai croati, perché Veglia, Spalato, tutto diventava croato, mentre invece andando su in alto, tutto diventava Italia. Fiume era importante, perché era un porto di congiunzione, sia dalla montagna che dal mare. E penso che per quello Fiume era sentita italiana. E lo era sentita: coloro che sono venuti in Italia, non sono venuti in Italia come croati, ma come italiani, e io penso che con i croati i rapporti non siano mai stati buoni, sono sempre stati cattivi. Penso che non ci sia mai stato, ma mai, un buon [rapporto].
Nirvana D.
Son nato a Fiume il 9 settembre 1936. Mio papà aveva un negozio per parrucchiere per uomo e signora ... [Leggi tutto]
Son nato a Fiume il 9 settembre 1936. Mio papà aveva un negozio per parrucchiere per uomo e signora sul ponte di Sussak. Prima eravamo fuori, eravamo a Torretta, dove la prima bomba ha preso proprio il negozio di mio padre, perfetto! Poi siamo andati giù, ci siam trasferiti e siamo andati di fronte alla capitaneria di porto: eravamo io, mio papà, mia mamma e mio fratello, che è del ’40. E noi abbiamo vissuto lì così, mio padre aveva sto negozio, stavamo bene, io andavo a scuola alla città vecchia... Fiume era una città, un paese: non c’erano le macchine, c’era la carrozzina, c’era i tram che girava e si girava a piedi, c’era il corso... C’era sto corso dove tutta Fiume, al sabato, si trovavano lì e combinavano andiamo qui, andiamo là e poi decidevano. C’era il Silurificio, c’era il porto... No, no, si stava bene! Sono arrivati loro e non si trovava più neanche un limone, niente!
Franco S.
[Fiume] era una città industriale, perché anche la Safe, la raffineria, è un’ emanazione della ... [Leggi tutto]
[Fiume] era una città industriale, perché anche la Safe, la raffineria, è un’ emanazione della raffineria che c’era a Fiume [la R.O.M.S.A.]. Era una zona molto industriale, era il porto dell’Impero austro-ungarico. Mio padre era un meccanico, faceva i siluri al silurificio Whitehead, che era un silurificio che durante il tempo di guerra forniva siluri non solo agli italiani ma anche agli stranieri, vendeva i siluri a tutti, perché i nostri siluri affondavano le navi, i siluri che facevano a Napoli affondava il siluro! Principalmente perché nell’esplosivo mettevano acqua minerale, non mettevano acqua di mare! Era allora una città di 60-70.000 abitanti, c’era il fiume, Sussak, che era la linea di confine con la Croazia. E Fiume era per metà italiana e l’altro pezzo, che era Sussak, era sotto il controllo della Croazia.
Giuliano K.
Sono nato il 4 giugno 1935 a Fiume. Eravamo nella mia famiglia io, il papà e la mamma, perché ero ... [Leggi tutto]
Sono nato il 4 giugno 1935 a Fiume. Eravamo nella mia famiglia io, il papà e la mamma, perché ero figlio unico. Mio papà lavorava al gas [Azienda Autonoma Servizi Luce e Gas] - era letturista - e mia mamma era casalinga. Da noi era tutto italiano, [mentre] la parte slava...Vede, io ho una pianta [della città]: il fiume Eneo divideva Fiume italiana da Susak jugoslava: era un fiume con un piccolo ponte - che adesso è grande, lo hanno fatto di cemento e han buttato via quello di ferro - e questo corso d’acqua divideva la parte italiana dalla parte croata.
Elio H.
Sono nato a Fiume il 2 maggio 1938. Mio padre era veneto, di Padova, la mamma, invece, non era per ... [Leggi tutto]
Sono nato a Fiume il 2 maggio 1938. Mio padre era veneto, di Padova, la mamma, invece, non era per niente italiana: aveva il nonno che era austriaco, la nonna ungherese, il bisnonno era russo e la bisnonna era inglese. Pensi lei che mischiata che c’era! Poi si son sposati lì a Fiume. Mio padre era praticamente un muratore che aveva una ditta e mia mamma era casalinga. [A] Fiume c’era un grande porto, un grande smistamento. Poi c’era il ponte di Sussak, che si chiamava ponte di Sussak ed era lungo ottanta metri, e divideva la Dalmazia e praticamente commerciavano. Poi c’era il Silurificio che facevano le navi e c’era tante altre cose: Zuccherificio, Raffineria. Fiume era cento per cento italiana, c’era solo quel ponte che divideva e, praticamente, di là era Dalmazia e di qua c’era Fiume. [Italiani e croati] erano tutti d’accordo, praticamente. Finché non è successo quel patatrac lì che sono arrivati i titini e poi ci sono arrivati i tedeschi, perché i tedeschi a noi ci hanno fatto del bene, perché non li abbiamo mai toccati: loro dicevano non toccate noi, e noi non vi tocchiamo. Poi c’è arrivati gli ustasa e i domobranci, e allora lì c’è stato un po’ di disaccordo, un po’ di invidia, e non c’era più quell’affiatamento che c’era prima.
Ilario B.
Sono nato a Veglia, provincia di Fiume, il 4 gennaio 1934. Eravamo quattro fratelli, io sono il più ... [Leggi tutto]
Sono nato a Veglia, provincia di Fiume, il 4 gennaio 1934. Eravamo quattro fratelli, io sono il più giovane, mio papà faceva il pescatore, mia madre la casalinga. Veglia viveva di turismo e di pesca. C’erano un sacco di pescherecci, e i pescatori stavano bene, perché di pesce ce n’era in abbondanza, almeno per quello che mi ricordo ancora io. Lì andavano a pescare, e le barche - magari quando era bel tempo - stavano due giorni fuori o tre, e c’era una barca che faceva la spola: raccoglieva il pesce e poi lo portava a Fiume, al mercato. E vivevano così. [Poi c’era il turismo], lì è un posto che è stupendo! Venivano da tutte le parti, tedeschi, dalla Jugoslavia, da tutte le parti venivano. [A Veglia] c’erano più italiani: c’erano anche le percentuali, c’era fino all’80% di italiani, che poi mi sembra alla fine del ’38 sono arrivati al 50%, poi le scuole erano italiane. C’era maggioranza italiana, c’erano le scuole italiane e poi c’erano anche le scuole jugoslave. D’ogni modo, c’era la maggioranza, poi col tempo sono andati diminuendo fino a quando siamo andati via che c’è stato l’esodo e siamo rimasti più o meno il 10%. Però fino a un certo periodo c’erano il 60-70% [di italiani], e poi si parlava l’italiano. Io non so una parola di slavo, mia mamma che è morta a settantotto anni non sapeva una parola di slavo, niente! [Gli slavi] convivevano anche con noi, eravamo - come si può dire - in comunità. Però loro avevano le scuole loro e noi le nostre. Almeno, io quella volta lì andavo alle elementari, ma mio fratello che era del ’28 aveva fatto le elementari e anche il ginnasio, e c’erano le scuole italiane. Scuole italiane e c’era anche scuole slave. Però quell’astio forte, forse fino a quei periodi, non c’è n’era. Io avevo dei ragazzi che venivano a scuola con me e si giocava anche a pallone insieme, si viveva la vita della gioventù. Della gioventù... dei bambini.
Mario M.
Sono nato a Parenzo il 24 novembre del 1936. I miei nonni sono emigrati friulani, per motivi di ... [Leggi tutto]
Sono nato a Parenzo il 24 novembre del 1936. I miei nonni sono emigrati friulani, per motivi di lavoro, che in Friuli c’era scarsità. Era [una terra] povera, e hanno emigrato. Insomma, son venuti in Istria che era sotto l’Austria, gli è piaciuto il mare e si son fermati al mare, in Istria. E io sono nato in Istria. Mio padre era perito agrario, faceva il perito agrario. Però allora non c’erano i notai, e allora faceva anche testamenti, divideva i terreni, faceva quel lavoro lì. Tempi che fu, non c’erano neanche i soldi, ci davano la farina, e qualche cosa in cambio invece di Lire. Ci davano farina, un pezzo di lardo, patate e cose da mangiare, così! La storia era quella. A Parendo eravamo italiani, gli slavi stavano fuori, e i rapporti [tra italiani e slavi] era sempre battibecco, come diciamo noi . C’era battibecco sempre, c’erano due cose che si dividevano, sempre. C’era delle risse qui e là; insomma, ce l’avevano con noi, inutile.
Renato L.
Parenzo è la gemma dell’Istria. E’ una zona dove all’interno, nei borghi, c’era la campagna, e ... [Leggi tutto]
Parenzo è la gemma dell’Istria. E’ una zona dove all’interno, nei borghi, c’era la campagna, e quindi c’erano i contadini, però c’era già allora anche la zona proprio turistica. Era un posto dove già Francesco Giuseppe e [altri] nobili venivano in villeggiatura, e quindi lì ci sono i famosi hotel che hanno tutta una storia. Mio padre aveva la macelleria, ma c’erano poi i pescatori, i negozianti. Ecco, soprattutto i negozi, perché c’era questa via centrale, la via Decumana, che era proprio fiorente di negozi. Credo che non sia un errore dire che a Parenzo c’era un miscuglio di gente: certo, c’erano le differenze - che sono differenze che si trovano anche adesso - tra chi sa e chi non sa, tra la persona che è colta e quella che non ha, tra chi ha soldi e chi non ne aveva. C’erano queste distinzioni che ci sono [anche oggi], e quindi è vero che il contadino che arrivava [era visto con sospetto], gli s’ciavi! Ma io dalla mia famiglia non l’ho mai sentito: è una cosa molto lontana, non mi appartiene, perché anche [alcuni] tra i miei parenti lì erano contadini. No, la cosa che io ho sentito molto nella mia famiglia e in quegli [nella popolazione] dell’Istria è questa cosa dell’Austria, [e cioè quello] che l’Austria ha lasciato in queste terre. Cioè, s’ciavi o non s’ciavi, cittadini o non cittadini, hanno avuto l’imprinting dell’Austria, che l’Austria ha fatto delle belle cose. Allora, mentre qui sappiamo che nel lombardo-veneto l’Austria era veramente odiata, nelle terre istriane l’Austria ha fatto solo del bene. Perché mi raccontava mia nonna che, ad esempio, non so, se un raccolto non andava bene, i contadini non pagavano le tasse. E questo mi dispiace dirlo, perché mia nonna diceva sempre: attenzione, quando arriveranno gli italiani vi metteranno le tasse anche sui giri della ruota! Cioè, c’era proprio la fama dell’italiano che arrivava e che ti riempiva di tasse. Mentre nel discorso di mia nonna l’Austria [era vista come lo stato] che ti veniva incontro, che capiva le esigenze di tutti. Però l’altra cosa che devo dire è che mia nonna parlava in slavo con il marito, ma con il figlio ha sempre parlato l’italiano, mio padre non sapeva lo slavo, forse questo è un sintomo.
Rita L.
Orsera è un paesino dell’Istria, uguale a Rovigno, e aveva anche le stesse attività, pur essendo ... [Leggi tutto]
Orsera è un paesino dell’Istria, uguale a Rovigno, e aveva anche le stesse attività, pur essendo più piccolo di Rovigno. Cioè, aveva la pesca e i pescatori perché il mare era lì il porto di Orsera è un porto molto bello, è un porto richiamato anche dalla storia perché , come dico, dalla storia e forse anche dalla leggenda, perché storia e leggenda molto spesso si intersecano. Ha tre isolotti davanti, scoglio san Giorgio, scoglio Rondino e un altro scoglio di cui non ricordo il nome... Pare che le vicende epiche raccontino che Orlando al ritorno dalla crociate, venuto dalla sua Angelica, li abbia tagliati con la sua durlindan. Orsera era anche luogo di soggiorno e di riposo del Casanova che quando non era disposto dalle sue performances che tutti conosciamo, aveva scelto Orsera come luogo di [riposo]. Orsera è stata anche sede vescovile quando c’era il potere temporale dei papi, quindi era un paesino che comunque ha avuto la sua importanza in quel contesto. Aveva al suo interno tutto un paese agricolo, e sul mare aveva la pesca. Diciamo che era un paese - parlo prima di venire via, nel ’46-47 - che aveva circa 2.000 abitanti, ed era un paese che si manteneva da sé , come attività. Quasi tutti lavoravano sul proprio e quindi anche le attività commerciali e quelle cose lì funzionavano. Orsera aveva la produzione di vino Terrano e Malvasia che, essendo proprio i vigneti sul colle in riva al mare, era molto apprezzata. Per esempio gli osti di Trieste e di Fiume, che avevano palato per il vino, quasi sempre prendevano il vino, e davano delle certezze e delle garanzie a chi lavorava e gli permetteva anche di fare degli investimenti. Orsera era anche un punto di riferimento per quelli che venivano dall’interno, dei croati tra virgolette. Perché vicino tra Orsera e Parenzo c’era un paese che si chiamava Fontane, che oggi si chiama Funtana, ed era il paese dove di abitudine si erano fermati dei croati già nei tempi molto molto passati, e dove avevano conservato la loro comunità che si sviluppava. Quindi Orsera e Fontane si integravano molto bene; molti di Fontane venivano a Orsera e si sposavano e molti di Orsera andavano a Fontane, come del resto andavano nel Pasenatico, nell’interno. Quindi c’era questo continuo movimento, e poi c’erano persone che si erano stabilite, che si erano sposate con uomini e donne ad Orsera. Quindi era [un paese] che non aveva conflitti specifici: non possiamo dire che era un luogo dove si incontravano, non so, gli estremisti o i nazionalisti; era un paese fondamentalmente pacifico. Anche se questi mondi [quello italiano e quello croato] non erano mondi paralleli, che si incrociavano o c’era un unico tema: il croato che arrivava nel paese nostro arrivava con lo scopo, con la voglia e col desiderio di lavorare, di affermarsi e di consolidare la sua presenza. Il croato estemporaneo era quello che il giorno del mercato veniva dal paese con la roba del mercato, e magari dopo due o tre anni che veniva era conosciuto da chi andava ad acquistare e viceversa. Ma il croato che veniva per lavorare magari iniziava con lavori umili - donna di servizio o uomo di aiuto in campagna o in porto per scaricare la roba -, e pian pianino cercava di affittare una casa e farla propria e comprarsi poi un pezzettino do campagna. Vedeva e imparava, perché loro venivano poi da un interno dove non c’erano attività, neanche artigianali, non c’era niente. Quindi venivano ad affrancarsi per migliorare se stessi, per crescere. Non è che portavano qualcosa di suo, perché non avevan nulla da portare, né come cultura, né come attività e come mestieri. Assimilava molto, però è chiaro che gli restava la sua lingua, anche le sue abitudini e i suoi usi e costumi, che siccome non erano molto diversi dai nostri, si integravano e poi crescevano così. Perché quando parliamo di Jugoslavia è una cosa, parliamo di bosniaci e di serbi, di usi costumi e abitudini dal mangiare al parlare al vestire, ma quando parliamo di Croazia, cioè di paesi limitrofi, non c’era molta differenza, tutto sommato. Va beh, la lingua, i modi e gli usi si, perché ognuno ha i suoi usi, ma quelli che erano stanziali, diciamo non quelli di passaggio... Perché il nomadismo è una cosa, ma quelli che vivevano nei paesi, venivano lì e poi continuavano a tornare al paese due, tre, quattro, cinque volte all’anno, e qualche volta portavano anche gli amici nel nostro paese. Cioè non c’erano steccati o barriere; steccati o barriere onestamente non c’erano. Purtroppo per noi sono state portate dalla guerra, portate da altri che magari erano un poco dissimilari.
Fulvio A.
Valle [era] prevalentemente un paese di contadini, poi si, c’era quello che aveva la bottega - un ... [Leggi tutto]
Valle [era] prevalentemente un paese di contadini, poi si, c’era quello che aveva la bottega - un negozio di generi alimentari per lo più, e vendeva anche qualche stoffa -, però era un paese di 2.500 anime, e non è che fosse stato un paese grosso. E si viveva praticamente della campagna. Poi tra i giovani [c’era] chi cominciava ad andare a lavorare a Pola, cioè a Scoglio Olivo, le donne magari andavano, ma a casa mia non erano molto per la quadra che le donne andassero a lavorare in giro. Si, qualcosa facevano, però sempre nell’ambito del paese. Che poi - e c’era anche un mio cugino che dirigeva tutta la faccenda - lavoravano il tabacco, che poi mandavano a Rovigno alla Fabbrica Tabacchi. Coltivavano il tabacco, lo sceglievano, lo asciugavano, lo preparavano, facevano tutto e poi lo mandavano alla Fabbrica Tabacchi a Rovigno. Valle era italiana: dopo la guerra del ’15-’18 era italiana, prima era austriaca, come il resto dell’Istria. Gli slavi erano nei paesi spostati: ad esempio c’era Carnedo, un paese a quattro chilometri da Valle... Ma guardi, mi sento persino un po’ in imbarazzo a dirlo... C’è sempre stata un po’ di avversione per lo slavo, perché era ritenuto un po’ diverso. A parte che parlavano lo slavo istriano loro, non parlavano il dialetto che parlavamo noi, l’istroveneto. Ma c’è sempre stato un pochino di odio, soprattutto nel periodo del ventennio, con questi paesi dell’interno dell’Istria. Non dicevano slavi, li chiamavano s’ciavoni, ed era un po’ dispregiativo.
Argia B.
Valle era un paese rurale: allevatori, agricoltori, producevano vino e olio, e allevavano capre e ... [Leggi tutto]
Valle era un paese rurale: allevatori, agricoltori, producevano vino e olio, e allevavano capre e pecore. Diciamo che la maggioranza della gente viveva di quella cosa lì, dei loro prodotti. Infatti i nonni avevano sempre le botti piene di vino, portavano il loro olio, il pane lo facevano con la loro farina, avevano i prosciutti, avevano le loro pecore che davano le formaggette, quel buon formaggio e bom. Poi producevano il malvasia, il cui gusto è inconfondibile, quello nostro ha un profumo! Era prevalentemente italiana. Io ricordo che i miei avevano un pastorello che si diceva s’è s’ciavon! Perché , poverino, veniva da un paese dell’entroterra ed era - diciamo - gente più grezza, forse più povera e meno acculturata.
Ginevra B.
Valle era molto [italiana], molto. Era proprio italiana, perché Valle ha influenza veneziana, anche ... [Leggi tutto]
Valle era molto [italiana], molto. Era proprio italiana, perché Valle ha influenza veneziana, anche come costruzioni, c’è persino il leone. [Gli slavi] erano a Carmedo, Moncalvo, nei paesi fuori. A casa mia i rapporti [con gli slavi] erano buoni, non ho ricordi brutti. Secondo me, dal mio punto di vista, il razzismo è subentrato dopo, soprattutto dopo l’8 settembre, per questa guerra che c’è stata. Perché , la convivenza con loro, con quelli che erano nati lì provenienti chissà da quanti millenni anche loro - che anche loro si sentivano a casa loro - era buona.
Nives P.
Sono nata nel 1942 a Valle d’Istria. I miei erano contadini. Però poi mio padre, oltre che lavorare ... [Leggi tutto]
Sono nata nel 1942 a Valle d’Istria. I miei erano contadini. Però poi mio padre, oltre che lavorare la campagna, aveva trovato un posto presso il Consorzio della lavorazione dei tabacchi: quindi era stato fortunato, perché avevamo uno stipendio fisso. E lui organizzava la coltura del tabacco, dalla coltivazione fino all’essiccazione e ricordo che quando il tabacco veniva secco venivano tutte le ragazze dal paese all’essiccatoio. L’essiccatoio lo chiamavano le baracche, perché c’erano tutte le baracche dove lo mettevano ad essiccare. Venivano le ragazze - giovani, erano tutte donne - che lo infilavano su una stanghetta di legno, su un bastone con il filo e l’ago, appendevano tutte queste foglie e poi lo mettevano ad essiccare. Quando poi era essiccato dovevano fare l’imballaggio, e quando facevano l’imballaggio, la pesatura e tutto, c’erano i finanzieri che venivano a sovrintendere tutto lo stoccaggio. Comunque Valle era una cittadina prettamente agricola, e quelli che non lavoravano i campi, non so ad esempio il fabbro o il pittore [imbianchino] li chiamavano gli artisti. Cioè [loro] cioè avevano tra virgolette un’arte, non un lavoro! Valle era per la maggioranza italiana, e quelli che erano croati erano nelle frazioni. E in giro, nelle frazioni, che le più importanti erano Carmedo e Moncalvo, erano in maggioranza croati. E c’è sempre stato un po’ di distacco, un po’ di astio, ma veniva da lontano. S’ciavo, s’ciavone, è proprio dispregiativo! E’ veramente un modo [di dire] dispregiativo, assolutamente. Poi per quelli che non trovavano moglie nel paese [si diceva]: ah, s’è anda a trovase una s’ciavona, no? Per dire uno che non si sposava con una del paese, che la trovava fuori o nei dintorni, [si diceva]: ah, se g’ha sposase con una s’ciavona! Non si dice con tizia o caia, ma con una s’ciavona e basta. Quindi no, un po’ [di astio] c’era.
Anna Maria P.
[Sono nata a] Valle d’Istria nel 1932. Valle era un paese agricolo, con tutti i villaggi intorno ... [Leggi tutto]
[Sono nata a] Valle d’Istria nel 1932. Valle era un paese agricolo, con tutti i villaggi intorno contavamo ai 3.000, 3.500 [abitanti]. Però molta gente andava a lavorare a Rovigno, in Fabbrica Tabacchi, molti a Pola, molti in Arsia e molti, quando avevano lavori tipo muratore eccetera lavoravano a Valle, e se no poi andavano a lavorare nei vari villaggi. Mio padre lavorava allo stabilimento che chiamavano Consorzio Tabacchi, per la coltivazione del tabacco: quando si sposò, subito, rimase in casa con la madre, però appena si fece questo posto, che cercavano, andò lì. E lì lavoravano questo tabacco. Producevano tabacco di sigaretta, pregiato, e lo spedivano a Venezia, che [lì] c’era una fabbrica [una Manifattura Tabacchi] abbastanza grande. Era, come si dice, un consorzio e lo chiamavano le Baracche, che sarebbero stati dei capannoni dove seccavano il tabacco. Molte volte arrivava il camion a prendere ilo tabacco per portarlo a Rovigno, perché collaboravano con Rovigno, che a Rovigno c’era la Fabbrica Tabacchi. [Alle Baracche] lavoravano quasi tutte donne. Soltanto quando preparavano i vivai, in primavera, commissionavano degli uomini a giornata, a ore. Si usava così. E trovava sempre, perché erano persone che lavoravano la loro campagna, ma non avendone tanta trovavano del tempo per andare a fare giornate da altre parti. Seminavano come l’insalata, e poi mettevano i telai di vetro sopra, poi li scoperchiavano, e tante volte mi ricordo mio padre che mi prendeva per mano [e mi diceva]: vieni ad aiutarmi a pulire l’erba che si fa, perché diceva che l’erba mangia la pianta. E poi una volta che queste piantine arrivavano grandi, questi soci del consorzio - che era quasi una cooperativa - venivano a prendersele in base a quanto avevano stipulato. Che una volta si usava dire le giornate, più che ettari: non so, due giornate di tabacco, [si diceva] metterò due giornate di tabacco, e poi se lo piantavano. E poi quando era pronto lo spelavano, e lo portavano con le cassette a Valle a seccare. Questo era d’estate, perché poi c’era tutta una lavorazione... Poi in autunno cominciava il lavoro d’inverno: dopo secco il tabacco, bisognava toglierlo dai telai, e inumidirlo: avevano un umiditoio con la terra, una terra speciale, argillosa, e con una caldaia col fuoco. E accendevano questa caldaia per inumidire queste sfilze di tabacco, che appendevano con dei rampini, come fossero state delle pannocchie, e buttavano quest’acqua calda che si inumidisce, perché specialmente quando tirava la bora il tabacco si sarebbe rotto. E poi dal magazzino sotto andavano al magazzino sopra, portavano sopra queste [foglie] e c’era la spianatura. Che c’erano quelle che lo spianavano sul ginocchio: si mettevano i grembiuli, e poi con dei dischi, dei dischi di un legno speciale, lo facevano diventare come una piramide, come un cerchio. E dopo di quello andava alla cernita, alla selezione, e dopo la selezione all’imballaggio. E quando avevano l’imballaggio lo mettevano in un magazzino, che allora lì all’imballaggio, dopo la spianatura, non c’era più il pericolo che si rompesse. E poi veniva spedito, ma non subito, in genere da un anno all’altro, e mi ricordo quando venivano col camion a portare via [il tabacco].E allora in quel momento lì, quando veniva questo tabacco verde dalle campagne, che lo portavano per l’infilzatura, subentrava la Finanza, e dormivano anche là: facevano un distaccamento di sei o sette, avevano una casa apposta per la Finanza, mentre d’inverno no. Ne veniva uno ogni giorno, ma mattino e sera, andava a casa: a volte venivano con dei mezzi, che il consorzio dava a disposizione un camion, quello delle Baracche di Rovigno, e li portavano su e giù. E così siamo andati avanti fino al ’43.
Nives P.
Sono nato a Valle d’Istria il 19 dicembre 1928. Era un paese agricolo: non c’è industria. La gente ... [Leggi tutto]
Sono nato a Valle d’Istria il 19 dicembre 1928. Era un paese agricolo: non c’è industria. La gente lavorava nei campi, o andavano a Pola a lavorare sotto le ditte da fare i manovali. Nient’altro. [A Valle] per la più parte [erano] tutti italiani: ci sarà state circa 2.500 persone. [La componente slava] era più nell’interno. I rapporti non erano mai buoni, perché quando venivano dai paesi dicevamo che erano slavi, non croati. Diciamo che parlavano slavo, non parlavano il nostro [dialetto]; non c’era proprio tanto rapporto, con tutto che erano nativi a Valle. Dicevamo s’ciavoni...Era che si offendevano quando dicevamo s’ciavoni, capisce? E allora non è il caso di metterle neanche su ste cose qui. Comunque si, il modo di dire era arrivano i s’ciavoni.
Pietro S.
Sono nato a Valle d’Istria il 26 gennaio 1929. Eravamo in cinque: io, due sorelle e i miei ... [Leggi tutto]
Sono nato a Valle d’Istria il 26 gennaio 1929. Eravamo in cinque: io, due sorelle e i miei genitori, che erano contadini, [perché Valle era un paese agricolo]. Come produzione agricola c’era di tutto, come qui in Piemonte. C’era [in] più anche gli ulivi, che qui non ci sono. [Valle] era italiana [mentre] nei paesi che [la] circondavano parlavano tutti la lingua slava. [C’] è sempre stato un po’ di odio tra italiani e slavi, c’era sempre un po’ di astio.
Giovanni R.
[A Valle] eravamo tantissimi italiani, tantissimi. La maggioranza era italiana, non erano gente ... [Leggi tutto]
[A Valle] eravamo tantissimi italiani, tantissimi. La maggioranza era italiana, non erano gente dell’interno, c’è n’erano pochi, eravamo più italiani, ci sentivamo italiani ed è per quello che siamo venuti via. La maggioranza era tutta italiana. [I croati] stavano più all’interno, non tanto distanti da noi, vicino , cioè magari cinque chilometri, però loro erano già croati. Slavi, non le dicevano croati, le dicevano slavi [o] anche s’ciavoni! Eh, [il rapporto] non era buono, perché si son sempre un po’ odiati tra gli italiani e [gli slavi].
Aldina P.
[Sono nata il] 9-9-1938 a Valle d’Istria, [e] la mia famiglia era molto numerosa. [Valle] era un ... [Leggi tutto]
[Sono nata il] 9-9-1938 a Valle d’Istria, [e] la mia famiglia era molto numerosa. [Valle] era un borgo agricolo, basato solo sull’agricoltura: c’era l’essiccatoio tabacco, [già] da sotto l’Italia, da tantissimi anni. Forse già sotto l’Austria. Anzi, le baracche [la struttura dell’essiccatoio] le ha fatte l’Italia, ma l’Austria aveva già fatto la Fabbrica Tabacchi di Rovigno, che era una risorsa, una grande risorsa. Piantavamo il tabacco, la vite e gli ulivi: erano queste le colture dell’Istria. Una terra molto povera - perché manca l’acqua in Istria - a forza di tanto lavoro. Hanno tanto lavorato la nostra gente!
Antonietta C.
Io sono nata a Dignano d’Istria. Eravamo in quattro: mia madre, mio papà, la mia defunta sorella e ... [Leggi tutto]
Io sono nata a Dignano d’Istria. Eravamo in quattro: mia madre, mio papà, la mia defunta sorella e io. Noi avevamo un oleificio, in più avevamo delle terre e la casa, eravamo possidenti. Mio Dignano era tutta italiana, gli slavi erano dei dintorni, erano fuori. Noi avevamo l’oleificio, e venivano fuori dalla campagna a fare la spremitura delle olive, che mio papà aveva sempre uno, un croato, che veniva non so da dove a fare il servitore. Si faceva l’olio, dormivano lì nell’oleificio e, poveretti, si portavano da mangiare. Ma io di croato non sapevo una parola! Mia madre l’aveva imparato, perché vendevamo l’olio alle persone da fuori che non sapevano neanche parlare italiano e allora lei si arrangiava. Ma io no. Un giorno una persona mi fa: ma possibile che tu non sai [il croato]? Ma io sono italiana e vado a imparare il croato!? No, no.
Maria D.
Sono nata a Dignano d’Istria nel 1940. Dignano era una cittadina abbastanza rigogliosa. Gente ... [Leggi tutto]
Sono nata a Dignano d’Istria nel 1940. Dignano era una cittadina abbastanza rigogliosa. Gente contadina, abbastanza ricca, che, insomma, stavano bene. Si viveva di vino, avevano tanto vino, tanto olio, facevano grano, che poi si vendeva l’olio e la farina ai paesi: la gente di Dignano andava a vendere a prezzo d’oro i suoi prodotti. Era una città prevalentemente agricola. Nel paese di Dignano erano italiani. Fuori di Dignano c’erano dei paesini, per esempio Divicici, Savincenti, Canfanaro, che c’eran gli slavi, che parlavano un po’ italiano e un po’ non so quelle parole croate come si parla nella ex Jugoslavia o nell’interno della Croazia, parlavano un po’ misto. E li chiamavano gli slavi, gli s’ciavoni. E c’era un po’ un odio con sta gente: il popolo - chiamiamoli gli italiani - con quelli esteri, fuori, ce l’avevano un pochino. [Dall’interno] venivano nel paese e vendevano le uova o che, per poi racimolare per fare la spesa per il mese, per quindici giorni. E anche adesso, ogni tanto sento dire: ah, quella s’ciavona, lo dicono ancora con disprezzo, e a me da fastidio. Per esempio, io nel ’43 sono andata in sanatorio a Venezia, perché da una caduta da un muro, mi è venuta una fistole al ginocchio, praticamente una tubercolosi al ginocchio. Mia mamma, nella contrada che viveva, c’erano sette Marie, ogni Maria aveva il suo soprannome. E c’era un giorno di pasqua, che mia mamma era sopra che faceva da mangiare per mio papà che doveva venire dalla miniera, che una le ha detto: eh, la Maria! Basta ch’ella fasa de magnar! On un toco, con dieci deca de carne fa brodo e anche sugo... Che vada a prenderse quella fia, quella s’ciavonassa de la fia a Venezia. Mia mamma, quando ha sentito sta s’ciavonassa, ha fatto le scale a quattro o a otto per non dire, perché se la prende per collo la ammazza! Lo dicevano con disprezzo la parola s’ciavoni. Questo s’ciavoni, era dispregiativo, proprio dispregiativo. Che io le dico, ancora adesso, ogni tanto che io porto mio marito in parrocchia e c’è una signora che siamo anche parenti, suo marito con mio marito. Ecco lei dice quella s’ciavona là, e questo lo dicono perché magari le è rimasto dai suoi genitori, però mi dispiace. Lei lo dice sentendo dai suoi genitori, quando era ragazza... Quando parla di questa gente dice s’ciavonassi, è una cosa che si tramanda. E a me questo da fastidio delle volte: ma porca miseria, perché dovete dire s’ciavoni a sta gente qua, che tanto voi vivevate con sta gente? C’era proprio una diversità, un odio c’era per questa gente!
Anita B.
Io sono nata a Dignano d’Istria, in provincia di Pola - come dicono tutti i papiri adesso -, il 30 ... [Leggi tutto]
Io sono nata a Dignano d’Istria, in provincia di Pola - come dicono tutti i papiri adesso -, il 30 ottobre 1935. Mio padre era un contadino benestante. Siamo in sette: cinque figli e mio papà e mia mamma. Io ero la più grande. Il mio pese era bellissimo! Era un paese agricolo, erano tutti contadini. E tutti italiani, tutti, tutti. Gli slavi erano, fuori, sa, come quelli che adesso abitano nelle cascine, perché erano distanti. Erano tutti fuori, distanti da noi. I rapporti con loro non c’erano, non esistevano. Non ci incontravamo, non si vedevano. Dopo si, chissà da dove sono scesi sti slavi, da dove arrivano e dove abitavano.
Maria Mn.
Dignano era un paese agricolo. E poi posso dirti una cosa: che mentre mio padre era di Dignano, ... [Leggi tutto]
Dignano era un paese agricolo. E poi posso dirti una cosa: che mentre mio padre era di Dignano, quindi della comunità italiana - il mio cognome dice già tutto -, mia madre abitava in una cascina fuori ed era di origine croata. Poi è venuta ad abitare a Dignano, però, voglio dire, è sempre stata [croata]. Cioè, io un pochettino sono un po’ misto, ecco! Che era [una caratteristica] di molti. Erano due mondi - voglio dire - che convivevano. Però c’era una cosa: c’era un gran rispetto, diciamo a livelli un pochettino più alti: per esempio la famiglia di mia madre erano dei discreti benestanti, che avevano campi e tutto, e quindi avevano un certo [prestigio]. E c’era un rapporto abbastanza buono con loro, però man mano che scendevi diventava cattivo, abbastanza brutto. Cioè, per gli italiani, i sloveni erano s’ciavi, che era un modo di dire. Io qualche volta sentivo anche mia madre che si lamentava perché le sue cognate [dicevano]: ah, quella s’ciavona! Cioè era dispregiativo, chiaro. Che poi dopo, chiaramente, vivi con le persone, e penso che anche quelli più vicini, cioè, dipende da quello che sei. Però c’era questa realtà, diciamo un po’ altezzosa da parte degli italiani rispetto agli slavi. E gli slavi rispetto agli italiani sarebbe bello capire. Perché una cosa è certa: loro erano molto più aperti: perché noi italiani non sapevamo lo slavo, in Istria, e gli slavi parlavano tutti l’italiano? Non basta dire: eh, ma c’è stato i vent’anni che Mussolini li ha costretti, qua e là. Non è vero. Era una cosa che partiva anche più da lontano: noi italiani ci parlavamo il nostro istro-veneto e buonanotte al secchio; loro lì, potevano parlare il loro slavo-croato e invece quasi tutti - anzi, penso tutti - parlavano anche l’italiano. Era così.
Mario B.
Io son nato a Dignano d’Istria, in provincia di Pola. [I miei] erano di origini contadine, anche se ... [Leggi tutto]
Io son nato a Dignano d’Istria, in provincia di Pola. [I miei] erano di origini contadine, anche se mio papà e mia mamma lavoravano all’Opificio di Pola, all’Opificio militare, dove facevano le scarpe per i militari. Quindi diciamo che negli anni durante la guerra, pur avendo terreni dove in parte ci si lavorava - e quindi ulivi e altre coltivazioni - hanno abbastanza lavorato e quindi unendo un po’ le forze era una famiglia che stava, nei limiti del normale, abbastanza bene. Dignano era un paesino prettamente agricolo, un paesino abbastanza piccolo con alcune cose importanti, tipo il campanile e altre cose. Però tutta gente che viveva sull’agricoltura e poi, buona parte, andando a Pola a lavorare in questo opificio militare o in altri posti. Era tutta italiana, tutta italiana, perché , tutta la parte della costa - quindi l’Istria, se vogliamo - era quasi totalmente italiana. I croati erano le persone che stavano all’interno, quindi non sul mare e non nei posti che allora - e penso anche oggi - sono i posti dell’Istria in cui si viveva meglio per tutta una serie di motivi. Per cui, c’era - devo dire - abbastanza sufficienza da parte degli italiani nei confronti dei croati; quindi è giusto quando dicono che il croato in quel momento lì si sentiva abbastanza un abitante di serie B, pur vivendo anche loro in quei paesi lì. Diciamo che quando si voleva insultare uno, anche scherzando o ridendo, si diceva: sei come un croato. S’ciavo, s’ciavon, croato... Quindi, non c’è mai stato un buon rapporto tra gli italiani e gli slavi in quei posti lì. L’italiano era di gran lunga a maggioranza, anche perché uno slavo avrebbe avuto difficoltà a vivere con gli italiani in questi ultimi sessant’anni, però c’erano pochi croati, pochi slavi e molti italiani. E questo rapporto era tutt’altro che idilliaco.
Sergio M.
Sono nata a Dignano d’Istria, il 20 novembre 1942. Mio papà lavorava a Pola, ed è stato sempre ... [Leggi tutto]
Sono nata a Dignano d’Istria, il 20 novembre 1942. Mio papà lavorava a Pola, ed è stato sempre operaio e la mamma faceva la casalinga, come tutte le donne istriane, credo. Dignano [era una città] agricola, perché era attorniata da campagna, a soli dieci chilometri da Pola e cinque da Fasana. Una bella cittadina, il paese più grande dell’Istria, come paese, col campanile che si vantano tutti! Il campanile più alto dell’Istria, che si vede già mentre si arriva. Delle case in stile veneziano, come credo in tutti i paesi. Era un bel paesone, [di] 12.000 abitanti, mi pare, tra il paese e i piccoli dintorni. Era un paese molto, molto vivace: c’era il coro, la banda, come in tutti i paesi. Poi l’abitudine degli uomini, c’era il solito bar, dove andavano a chiacchierare, a giocare a carte, [mentre] le donne cosa facevano? Mah, mia mamma andava al cinema con qualche amica. E bom, [si faceva] una vita normale, di paese [Il paese] era quasi tutto italiano. Lungo la costa [la popolazione] era quasi tutta italiana. Nelle campagne erano insediati dei croati... Che oltretutto, come li chiamavano? Gli s’ciavoni... Pur andando d’accordo, si vede che c’era sempre un po’ di astio. Però io direi che i rapporti erano anche buoni, perché in fondo erano della brava gente. Cioè, non ci sono mai stati dei disaccordi da doversi ammazzare o da bisticciare, almeno da quel che ne ho sentito parlare... Quelli che si conoscevano, che stavano così nei paesi delle campagne erano delle bravissime persone. E, oltretutto, mi ricordo mio papà che diceva che lui durante la guerra portava del carburo che aveva nella ditta dove lavorava e in cambio i croati gli davano delle uova in cambio del carburo per accendere la luce e fare quelle cose lì. Credo che i rapporti erano buoni, io non ho mai sentito disprezzarli o parlarne male, assolutamente. Almeno in casa, nella mia famiglia mai, nessun croato. Logicamente ce l’hanno avuta con il croato finale, con l’esodo, cioè per il fatto di averci mandati via, con Tito.
Assunta Z.
[Sono nato a ] Dignano d’Istria, provincia di Pola, il 18 aprile 1935. [Sono] di origini molto ... [Leggi tutto]
[Sono nato a ] Dignano d’Istria, provincia di Pola, il 18 aprile 1935. [Sono] di origini molto semplici e umili: mio padre era un contadino, lavorava la terra, e poi faceva anche altri lavori, come per esempio il barbiere. Lui faceva il barbiere per i contadini, e [loro] venivano a farsi si la barba e i capelli, ma non pagavano, si pagava con la questua. Cioè, ogni anno - e lo ricordo anche io - io e mio padre andavamo con la cariola e con una misura e ci davano del grano, e noi venivamo quindi pagati in questo modo. Mia mamma era prettamente casalinga, e quindi aiutava il papà. [Dignano] era [un paese] di contadini e quindi quasi tutti lavoravano la terra: non avevamo altre risorse e quindi si lavorava in campagna. Il nostro era un paese dove si parlava italiano e soprattutto si parlava in tutti i posti il dialetto, tranne che a scuola, ovviamente, e negli uffici. Quindi, demograficamente [era] altro che italiano! [Anche] se [bisogna dire] che l’Istria aveva anche delle isole croate, ma non croati venuti dopo l’occupazione di Tito, ma prima. Ma queste isole erano poche: per esempio la città di Pisino, vicino Dignano, era croata, per esempio Peroi, un piccolo borgo, quello era ortodosso, per dire... Poi se andiamo su verso Fiume e verso Sussak, quelli parlavano veramente il croato e soltanto in zone circoscritte parlavano l’italiano e il dialetto. [Con i croati] i rapporti erano molto buoni. Ma, ripeto, parlo di quei croati che non venivano dall’interno della Jugoslavia, per cui anche la cultura era diversa e quindi ci si intendeva. Questi croati non avevano preso possesso del territorio dopo Tito, ma molto tempo prima, per cui i rapporti erano, veramente, sempre buoni. [In dialetto] c’era una parola, s’ciavoni, usata proprio con disprezzo: cosa se venudi a far qua sti s’ciavoni! Per dirla in dialetto... Ecco, [questa parola] è stata praticamente non dico coniata, ma ripresa per dare scherno a questi croati che son venuti dopo, perché questi hanno portato allo scombussolamento della nostra terra. E quindi, come le ho detto, noi abbiamo sempre avuto ottimi rapporti [coi croati] e anche il rapporto così, sociale, non era assolutamente d’ingombro o di conflitto con noi, no.
Luigi D.
Sono nata a Dignano d’Istria, l’11 di agosto del 1933. Papà aveva un pezzo di terra, però faceva il ... [Leggi tutto]
Sono nata a Dignano d’Istria, l’11 di agosto del 1933. Papà aveva un pezzo di terra, però faceva il carpentiere sulla pietra, [mentre] mamma era casalinga. Noi [eravamo] sei figli. Dignano [era] un paese, agricolo, ma alla mattina gli operai partivano con il treno degli operai per Pola e c’era la stazione piena. E viceversa la sera. Noi eravamo collegati con Pola, con tutto: andavamo a lavorare, andavamo a fare la spesa più bella. A parte che il mio paese era una cittadina che non aveva solo i negozi di pane e frutta, ma c’era tutto: avevamo il tribunale, il municipio, le carceri, la scuola agraria. E diciamo che chi voleva andare a fare le superiori andava a Pola o a Trieste, ed eravamo anche molto in contatto con Trieste. Quindi noi vivevamo bene. [Era] tutta italiana: Pola, Dignano, Fasana, Gallesano, Orsera, Rovigno, Parenzo e anche altri paesi che erano un po’ all’interno erano tutti di nazionalità italiana, anche se si parlava un pochettino di slavo. [Gli slavi] stavano all’interno, molto, molto all’interno: Montona, Visinada, Visignago, Buie, Umago erano tutte italiane, anche che erano un po’ sull’interno. Io a Dignano ho un amico, un caro amico, che è venuto da San Vincenti, e che era un po’ croato, s’ciavone. Quando lui è venuto, piccolino, perché è cresciuto a Dignano ma la mamma aveva già un’altra pronuncia, ancora adesso che eravamo con mio figlio gli ha detto: sai, io quando sono venuto qua a Dignano me disea s’ciavon! Era [una parola detta] non [con] un disprezzo, non so... Era, io penso, per distinguere che non eri un paesano, e si diceva s’ciavoni.
Olivia M.
Sono nato a Montona in provincia di Pola il 13 - 3 [marzo] 1946. Montona è nel cuore dell’Istria, ... [Leggi tutto]
Sono nato a Montona in provincia di Pola il 13 - 3 [marzo] 1946. Montona è nel cuore dell’Istria, nel centro, e quindi siamo in un’economia agricola, prettamente agricola. I miei quindi erano contadini. Era una società multietnica ante litteram, diciamo, perché c’erano comunità slave, croate, e comunità italiane. Difatti i miei genitori, quando non volevano che noi capissimo l’argomento o i problemi di cui stavamo parlando, parlavano in croato. Non insegnandolo a noi, peraltro! Loro han continuato a parlare in croato anche qui a Torino, però rifiutandosi categoricamente di insegnarcelo, perché la lingua croata era legata alla loro - come si sono costruiti la storia - alla cacciata dall’Istria. Quindi la comunità era mista, si parlavano due lingue, convivevano tranquillamente tutti quanti. Nella mia famiglia non venivano usati particolari epiteti, aggettivi o definizioni per definire le altre comunità di altra lingua. Salvo la definizione di drusi, ma drusi è semplicemente la traduzione croata di compagno, per cui venivano definiti i drusi quelli che erano arrivati lì e quindi quelli che, tra virgolette, avevano cominciato una bella pulizia etnica, perché , sostanzialmente, di questo si è trattato. Insomma, dopo la guerra, quando quella parte è passata alla Jugoslavia. Quindi direi di no, [nella mia famiglia parole come] s’ciavo, no. Ma poi s’ciavo è un po’ dispregiativo, però non l’ho mai sentito a casa mia, solo i drusi.
Giuseppe M.
Sono nata nel 1940 a Bogliuno, provincia di Pola. Però è vicino a Pisino, lungo la ferrovia per ... [Leggi tutto]
Sono nata nel 1940 a Bogliuno, provincia di Pola. Però è vicino a Pisino, lungo la ferrovia per andare a Trieste, saranno dieci chilometri, o dodici. Quindi è proprio un paesino piccolissimo e mio padre lavorava lì, aveva in gestione la stazione, era capostazione. Però per un paio di anni, e poi siamo andati ad abitare a Pisino, Pazin, quando io avevo due anni. Pisino era un paese abbastanza agricolo, cioè nel circondario c’erano tantissimi contadini:ognuno aveva la propria casetta, due mucche, insomma, proprio il contadino non ricco, cioè persone che lavoravano tanto e vivevano a malapena, pur avendo del terreno. Invece la città era di circa 5.000 abitanti. Adesso è diventata orribile! C’è il centro storico che è bello, [poi] ora [ci sono] silos, fabbriche, tutte belle in vista, un’autostrada che taglia per la collina, cioè, è proprio [brutta]!
Adriana S.
La questione del terreno redento, è una cosa molto importante, perché ogni guerra che succedeva, la ... [Leggi tutto]
La questione del terreno redento, è una cosa molto importante, perché ogni guerra che succedeva, la vinceva una volta uno e una volta l’altro, ecco a casa mia abbiamo fatto quel concetto lì. Pola era italiana, era italiana e forte anche! E avevano ognuno la sua casetta, tutti al suo posto: chi lavorava a Scoglio [Scoglio Olivi, cantiere navale], chi lavorava all’Arsenale... [I croati] erano nell’entroterra di più. Ma erano buoni anche quelli, io devo dire che fino a che io non sono andata via de Pola, tutte ste cose [conflitti] non esistevano! Perché ci volevano bene, ci rispettavano, era una vita quasi indifferente di quelle contese lì.
Gina R.
La storia di Pola è dura [da raccontare], duemila anni e qualcosa! Bisogna dire che verso la metà ... [Leggi tutto]
La storia di Pola è dura [da raccontare], duemila anni e qualcosa! Bisogna dire che verso la metà del diciannovesimo secolo, 1850, facciamo 1856, Pola aveva la bellezza di soli 1.300 abitanti. Era niente più di un paesotto, di campagna, benché avesse l’anfiteatro romano, tutti i templi e tutti gli archi di un’epoca storica romanica molto importante: sotto Roma aveva 25.000 abitanti per avere un‘arena di quel tipo là. Però con tutte le epidemie nei secoli, si è ridotta a 1.600 abitanti o giù di lì verso la metà dell’Ottocento. L’Austria la scelse per il porto che aveva come porto militare, e là l’Austria costruì un cantiere navale - Scoglio Olivi, per intenderci -, un cantiere navale che doveva costruire, praticamente, sia la marina mercantile che la marina militare, cosa che il cantiere ha fatto. Per cui già nel giro di cinquant’anni - già all’inizio del secolo Ventesimo - è arrivata ad avere nel ’56 circa 60.000 abitanti. Ora, con il cantiere, è arrivato anche l’indotto, sono arrivate anche le altre fabbriche, e quindi una classe operaia - tra l’altro ben cosciente dei propri diritti- con tutta una classe media, tra scuole e istituti eccetera, quindi una città moderna nel vero senso della parola; aveva anche un tram. Ecco, le Baracche era un rione con dei palazzi, dei caseggiati grandi per la classe operaia che circondavano la Fabbrica Cementi. C’era la Fabbrica Cementi, la Fabbrica delle Bandiere - fabbrica bandiere per le navi, naturalmente - e oltre all’Arena anche il teatro cittadino Ciscutti, fondato alla fine del secolo, nell’Ottocento, quindi poco più di cento anni. Poi è arrivata l’Italia e all’Italia tutti quegli insediamenti cittadini servivano eccome, quindi il cantiere continuò a funzionare, la Fabbrica cementi pure, la Fabbrica del vetro pure, eccetera, eccetera. Dunque, sia l’industria che l’indotto. Per quanto riguarda l’agricoltura, era costituita dall’ortocultura che circondava la città, che serviva la città, ma non un’agricoltura di tipo moderno e sviluppato come quella del granoturco o del frumento o del riso. Le ho parlato delle Baracche... La classe operaia là costituiva una comunità complessa nel senso che c’avevi le comunità familiari - una per ogni appartamento -, molto unite internamente, coese, perché non nella miseria, ma nella modestia della vita dell’operaio la coesione è più forte, perché c’è bisogno dell’aiuto reciproco e della solidarietà, e quindi la comunità è una comunità vera e propria, coesa. Dunque, non solo familiare, ma di corridoio, di palazzo e anche di rione. Per cui i baracheri là, i vecchi tra loro, gli anziani tra loro, i giovani tra loro, i bambini tra loro, solidarizzavano sempre, tra loro, e in questa comunità producevano anche cultura. Ma cultura di primo ordine, nel senso che c’erano complessi di musica: già allora - quando io ero bambino - di musica da ballo, ma anche di musiche americane, si, si, di blues, di jazz. E i baracheri costituivano queste orchestre, non solo orchestre da ballo, ma anche mandolinistiche, sinfoniche e da camera, con pochi membri. Poi avevano i circoli sportivi e i baracheri erano forti e ben quotati, perché nei campionati sia regionali che nazionali in Italia, dall’atletica leggera alla boxe, dal calcio alla pallavolo, alla pallacanestro eccetera, eccetera, riuscivano sempre ad avere delle quotazioni di ottimo livello. Quindi era una comunità favolosa, e anche per questo chi è nato là, e chi visse là - come me e la Nelida Milani per esempio, che ci vive ancora, tra l’altro - porta di quel rione un ricordo indelebile, bellissimo, fantastico. Ed è un comunitarismo - lo chiamerei così io - che ci è entrato nelle ossa, di cui sentiamo il bisogno ancora oggi. Perché ci manca anche oggi, negli ambienti in cui viviamo, sia tra i rimasti, sia tra gli esuli. Gli slavi erano [chiamati] s’ciavi, gli slavi per noi erano s’ciavi. Ma dire s’ciavi significa proprio schiavi veri e propri, schiavi alla Spartaco. Noi non sapevamo neanche cosa significasse quello schiavo: se era schiavo come Spartaco o se era schiavo come contadino servo della gleba, o se era schiavo in che senso. C’era questo modo di dire, e significava che il loro valore come esseri umani era inferiore al nostro. E fu una tragedia, sia per gli uni che per gli altri. Perché tu, ti dai un’importanza che non c’hai, e l’altro lo denigri e lo umili senza nessun motivo. Tra l’altro, l’altro si sente anche offeso, e poi nasce l’odio. E’ inevitabile, no?
Claudio D.
Pola era una città industriale, c’era il cantiere Scoglio Olivi, che si chiamava allora e adesso si ... [Leggi tutto]
Pola era una città industriale, c’era il cantiere Scoglio Olivi, che si chiamava allora e adesso si chiama Uljanik, ed era sia civile che militare. Poi c’era la fabbrica dei siluri, la fabbrica della corde e poi c’era il Cementificio Marchino che là però facevano il cemento marino, non [come] questo qui [a Casale], era ad alta specializzazione. Poi, mi sembra, c’era i mulini, insomma una città industriale, una città industriale al 100%. Pola era una città operaia, e per quello i dalmati dicono a noi che siamo tutti manovali e operai e invece loro sono intellettuali! Pola [era italiana] al 100%. Non proprio al 100% perché c’era sicuramente influenza del 5-6% di origina slava. Prima che arrivassero gli jugoslavi non c’era nessun problema. E’ venuto quando c’era il fascismo, con quei fascisti venuti dall’Italia che han fatto dei problemi, ma non la popolazione nostra, perché da noi, bene o male, tutti sono imparentati con uno slavo, bene o male. Anche mia nonna era dalmata, si chiamava C.-ich, è slavo, no? Troverai tutti che hanno un parente slavo, perciò non c’era attrito tra noi. C’era magari un po’ di invidia per le case, la terra questo o quello, però in linea generale non c’era niente.
Giulio R.
[Sono nato] il 25 dicembre del 1939, a Pola. [In famiglia] noi eravamo in quattro, io, [mio ... [Leggi tutto]
[Sono nato] il 25 dicembre del 1939, a Pola. [In famiglia] noi eravamo in quattro, io, [mio fratello] e papà e mamma. Il papà a Pola, proprio l’ultimo periodo, lui lavorava alla Fabbrica del Ghiaccio, [che era] anche Centrale del latte di Pola. Questo è stata una buona cosa, perché in tempi di guerra, a casa nostra, non è mai mancato di che mangiare. Prima di essere assunto alla Fabbrica del ghiaccio e alla Centrale del latte, mio papà il suo vero mestiere era elettricista idraulico e poi è stato assunto come manutenzione alla Fabbrica del ghiaccio e alla Centrale del latte. [Mia madre era] casalinga, [anche se], veramente, ha lavorato un piccolo periodo nella Fabbrica Lucchetti. Il posto più grande era [però] Scoglio Olivi, cioè era il cantiere navale, e lì c’erano gli elettricisti, c’erano i falegnami, c’erano i carpentieri, stavano tutti lì. E infatti i nostri esuli, parliamo dei nostri padri, han trovato subito lavoro in Piemonte, perché erano quasi tutti specializzati.
Bruno D.
[Sono nato] a Pola il 28 febbraio 1934. Mio padre era un grosso personaggio di campagna, aveva una ... [Leggi tutto]
[Sono nato] a Pola il 28 febbraio 1934. Mio padre era un grosso personaggio di campagna, aveva una della campagne più grosse di vigne e quella roba lì, mia mamma invece era di una famiglia che era ricchissima, che avevano tutti i negozi industriali. [Pola] era una città che aveva delle grandi industrie. Intanto aveva il bacino di Scoglio Olivi, che tutte le navi che venivano colpite nel Mediterraneo venivano lì a farsi riparare, che io avevo [anche] due fratelli che lavoravano lì dentro. Poi c’era la Fabbrica dei Siluri, la Fabbrica dei Lucchetti, c’erano tante fabbriche, era tutto sul porto. Poi c’era st’arena che era bellissima... Era una città bellissima, e poi era industriale perché c’era l’Arsenale, c’era tutti i militari di tutte le specie. Io mi ricordo che dove abitavo io c’erano cinque caserme, in mezzo avevamo la caserma della Marina, e c’eran tutti militari: c’era il Battaglione San Marco, c’era i Bersaglieri, c’era la Fanteria, erano tutti militari, perché Pola era un posto, come si dice, di battaglia.
Luigi B.
Io son nata a Pola il 31 maggio del 1928. Io le dico subito: la città era una città italiana. ... [Leggi tutto]
Io son nata a Pola il 31 maggio del 1928. Io le dico subito: la città era una città italiana. C’erano il Cantiere Navale Scoglio Olivi - che c’è tutt’ora -, c’era l’Arsenale - che c’è tutt’ora - e poi c’era il Mulino e tutto quello che [poteva esserci] in una città vivibile, tranquilla. Era una città molto militare, perché lì c’erano tutte le qualità: di militari c’è n’eran tutti, meno che gli alpini! Le persone del circondario - cioè per esempio di Medolino, Dignano, Galesano, Fasana- , gli operai e la gente venivan a lavorare all’Arsenale, venivan a lavorare a Scoglio Olivi, tutti in bicicletta, tutti a piedi. Con gli slavi non eravamo troppo [amici].
Maria G.
Io son nata in Argentina. I miei erano immigrati, e son nata il 13-3 del ’29 a Buenos Aires. La mia ... [Leggi tutto]
Io son nata in Argentina. I miei erano immigrati, e son nata il 13-3 del ’29 a Buenos Aires. La mia famiglia è istriana di Pola. Siamo andati in Argentina perché mio papà era giovane, era già sposato con mia mamma, e c’era una crisi di lavoro: lui ha fatto quattro anni il soldato a Verona, e quando è venuto a casa era spaesato. E allora, in quel periodo, tutti andavano, e lui è andato come tutti i giovani, nel ’28. Papà faceva l’aiuto muratore, mia mamma ha fatto la casalinga fino a che avevo i fratelli piccoli, poi lavorava in una latteria con un’amica; avevano una latteria. Mi ha chiesto com’era Pola? Un gioiello. Non mancava niente, perché lavoro c’era, le scuole c’erano, il mare è il più bello del mondo. [C’erano] dei cantieri navali: Scoglio Olivi che è il più grande, poi c’era l’Arsenale e poi c’era un altro cantiere che chiamavano adesso non mi ricordo come. Poi c’era la Fabbrica Cementi, il Mulino regionale appena si entra in città, e poi tanto commercio e tanti artigiani. La parte slava era da Fiume in là: a Pola, all’interno, c’erano che parlavano ma non croato, era una lingua slava mista. E io l’ho sentita quando sono andata sfollata nell’ultimo anno di guerra, che bombardavano sempre Pola, e allora hanno obbligato le mamme con i bambini di una certa età di andare venticinque chilometri fuori, e siamo andati nell’interno, a Canfanaro. I rapporti [con loro] andavano male, male. Perché io che parlavo solo italiano - e spagnolo, ma aloro non importava - ed ero sfollata, ce l’avevano. Parla come noi, impara come noi, e qua e là, sempre così. Mamma mia, mi sembra ieri, dicevano: draisi italiani, maledetti italiani. Però erano cugini di mia mamma, ma il fatto che io andavo a scuola, che parlavo italiano e non parlavo come loro, era dura, era dura, per tante cose. E poi mi avevano preso di mira.
Maria Man.
Sono nato il 19 luglio 1943 a Pola: mio padre lavorava nella Fabbrica Bandiere, faceva il ... [Leggi tutto]
Sono nato il 19 luglio 1943 a Pola: mio padre lavorava nella Fabbrica Bandiere, faceva il meccanico, e mia mamma lavorava al Pattinaggio. Il Pattinaggio era un club, pattinaggio su rotelle, dove c’era una sala da ballo, un bar annesso e tutte queste cose qui. E lavorava lì. Rovigno è sempre vissuta di pesca e Fabbrica Tabacchi. Pola invece è vissuta di cantieri [navali], Fabbrica Tabacchi e Fabbrica Bandiere. Cantieri Navali intesi come civili e come militari, perché c’era il siluruficio e le armi le facevano a Pola: il golfo di Pola era diviso, metà era militare e metà era civile. Scoglio Olivi c’è due isolette: dalla parte sinistra, dalla terra guardando il mare, c’è Scoglio Olivi e sulla destra invece c’era dove c’era i silurufici e lì è la zona di guerra. E dava lavoro a molta gente, era tutto lì il lavoro, fabbriche non ce n’era, praticamente.
Franco V.
Sono nata a Pola, il 9 dicembre del 1923. I miei [genitori] non erano di Pola, erano della Puglia, ... [Leggi tutto]
Sono nata a Pola, il 9 dicembre del 1923. I miei [genitori] non erano di Pola, erano della Puglia, poveretti! Sono venuti via dalla Puglia, emigrati. Papà e mamma hanno lavorato tanto, per un tre-quattro mesi, di seguito, portavano via i sassi dal terreno che avevano preso in affitto per poi lavorarlo.[Loro erano] orticoltori. Bisognava essere lì per lavorare, erano sempre bagnati, sempre sudati: insomma, era una vita che nessuno può immaginare [a] viverci dentro... Quando siamo poi venuti più grandi, si era quasi invidiati, perché si stava bene, si cominciava a vivere un po’ più da, come dire, meglio. Eh, perché la mamma andava al mercato tutte le mattine a portare la verdura: alle sei e mezza partiva il camion con la verdura. Più verdura facevano, più ne vendevano! La zona [dove stavamo] era una zona ricca, militare. C’erano tante piazzeforti, soldati e marinai che partivano e che arrivavano durante la settimana, e quando dovevano arrivare la verdura doveva essere pronta. Si perché poi, la mamma e il papà hanno potuto prendere anche delle altre terre, ma gratis, nella zona di Portisela [zona militare della città di Pola]. Il terreno glielo hanno dato senza pagare l’affitto, solo lavorarlo. C’erano tanti alberi di olive, poi mio papà faceva l’olio anche.
Gina R.
Sono nato a Pola il 13 ottobre del 1930. Mia mamma lavorava all’Opificio per la produzione di ... [Leggi tutto]
Sono nato a Pola il 13 ottobre del 1930. Mia mamma lavorava all’Opificio per la produzione di equipaggiamenti militari, indumenti, scarpe e maglie. Lei [lavorava] per le scarpe, per cui lavorava per lo stato. Mio padre, boh? Agli inizi lavorava solo la mamma, poi si è messo a fare l’autista. Ma lui era molto per l’osteria! Pola rispetto a Trieste e a Fiume non era una città commerciale. Era una città di piccola borghesia, tipo impiegati di concetto, commercianti, negozianti, eccetera, eccetera. Ma per lo più viveva dei cantieri navali, dell’arsenale e dei vari opifici. Per cui era una città operaia più che altro, e quindi non poteva essere una città, come dire, reazionaria, una popolazione reazionaria come la si considera al tempo del fascismo. Aveva anche una tradizione socialista che, certo, non poteva esprimersi in maniera palese, però nelle osterie si. Gli italiani erano la maggioranza rispetto agli slavi, per cui [Pola] aveva la sua anima istroveneta, o comunque latina. I rapporti con gli slavi erano... Diciamo...Ti farò un paragone... Per esempio, quelle che venivano a Pola, andavano dalle famiglie benestanti a fare le serve, no? O quelle che venivano da fuori a portare le fascine, o quelle che venivano a vendere le uova, mi spiego? A un certo punto c’era un rapporto, come dire, di mutuo rispetto per ognuno. Ci sono state si anche quelli che dispensavano odio, non lo metto in dubbio, ma sono casi, ad esempio, come Torino coi terroni, capisci? Sono situazioni, però non si può fare di tutto uno solo, come dire. Succedevano cose di questo genere. Però non ci sono mai state...Intanto ti voglio dire una cosa, che gli slavi quando venivano a Pola, si uniformavano talmente bene alla cultura, al modo di vivere della gente di Pola che alla fine diventavano più italiani degli italiani, va ben? Perché il croato, in sostanza, non ha una propria cultura, tranne che quella contadina, per carità. Adesso pensi che si travestono da romani davanti all’Arena! Si travestono da romani per far la sceneggiata a Pula, mamma mia! Pola che è stata chiamata dai greci Polai, che vuol dire città degli esuli, guarda te -, poi Polae in latino e poi si, si è chiamata Pietas Julia perché ha preso a parteggiare per i partigiani anti-cesariani, no? E allora siccome ha vinto Cesare han dovuto chiedere scusa! E poi poco dopo Gesù Cristo è stata costruita quella piccola arena, per cui è una piccola Roma in riva al mare. Su sette colli, eh! Tutto tra un colle e l’altro!
Otello S.
Sono nato a Pola il 5 marzo 1939. [Nella] mia famiglia eravamo i genitori più due figli, quindi ... [Leggi tutto]
Sono nato a Pola il 5 marzo 1939. [Nella] mia famiglia eravamo i genitori più due figli, quindi eravamo in quattro. Mio padre lavorava all’Arsenale di Venezia come tutti i veri polesani - o quasi tutti - [mentre] mia madre faceva la casalinga. Pola diciamo che di industrie ne aveva parecchie se contiamo l’Arsenale, Scoglio Olivi - Uljianik si chiama adesso - che mi pare all’epoca facesse 8.000 operai, pertanto enorme rispetto alla popolazione civile di Pola, che mi pare fosse sui 30-35.000 abitanti. Pertanto la città era decisamente industriale, grazie al fatto dell’Arsenale e di altre fabbriche: mi ricordo che c’erano alcune fabbriche non grandi, [come] la Fabbrica Lucchetti, la Manifattura Tabacchi, [dove], insomma, qualche centinaia di persone ci lavorava. Ma sicuramente era il fatto dell’Arsenale e l’indotto - oggi si direbbe - dell’Arsenale che occupavano moltissime persone. Credo che veramente tutti i polesani abbiano prima o poi lavorato all’Arsenale. La popolazione era notevolissimevolmente italiana. Ritengo che Pola fosse veramente italiana per una serie di motivi, era italianissima. Gli slavi erano considerati cittadini di serie B, si direbbe oggi. Diciamo pure che Pola era italiana e che attorno a Pola nelle campagne c’erano gli slavi, che erano un po’ i fratelli poveri, perché i commerci, i traffici e le industrie ce l’avevano in mano gli italiani e loro erano un po’ delle riserve, non dei cittadini di serie A, decisamente. Diciamo che noi italiani - per quello che mi ricordo io - vedevamo lo slavo come un cittadino di secondo livello, ecco, questo si. Non c’erano - generalizzando - dei rapporti paritetici: c’era questa sensazione che l’italiano era meglio dello slavo.
Gianfranco M.
Pola era italiana. Dai miei nonni e dai miei bisnonni [ho saputo che] nell’interno dell’Istria si ... [Leggi tutto]
Pola era italiana. Dai miei nonni e dai miei bisnonni [ho saputo che] nell’interno dell’Istria si parlava già un dialetto di tendenza croata, comunque croato di base. Il vecchio croato si parla ancora nei vecchi paesi, nei piccoli paesi dell’interno, però ancora adesso, e a me fa piacere, che vai a Pola, si parla ancora polesano, [oppure se] lei va a Rovigno difficilmente parlano croato. La componente croata era all’interno, perché i vecchi contadini, i vecchi istriani, avevano un’influenza croata. Poi, se andiamo dietro alla storia, lì ne son passati di tutti e di più! [Però c’era] un termine, [usato] proprio per dividere l’italiano e il croato che arrivava dall’interno. Ma non era proprio dispregiativo: s’ciavo era un modo di dire, come per dire io sono piemontese, torinese, e tu sei di Montanaro. T’ses ‘n barot! Era la stessa cosa, non era un discorso di s’ciavi o s’ciavoni, il discorso è che le orde di Tito era un’accozzaglia di gente che aveva a capo gente sicuramente intelligente e tutto quello che vuole, però era gente di un’ignoranza e di una barbarie abbastanza pronunciata. Anche perché abbiamo visto che noi come Italia dopo la guerra ci siamo ripresi in pochi anni, loro [invece] ci hanno messo vent’anni! C’era l’incapacità, cioè era un’accozzaglia di gente!
Franco V.
Loro [gli slavi] facevano paura e poi erano descritti in un modo...Ad esempio, anche la stampa ... [Leggi tutto]
Loro [gli slavi] facevano paura e poi erano descritti in un modo...Ad esempio, anche la stampa locale [li descriveva]. Noi [a Pola] avevamo un giornale locale umoristico, si chiamava «L’Espin», cioè la spina della rosa, ed era un giornale umoristico dove c’è sempre stato un po’ di campanilismo spinto. [Sulle pagine del giornale] il croato era descritto sempre come uno straccione, sempre con la barba lunga, sempre come un poveraccio, sempre mal combinato, sempre ignorante. E pertanto diciamo che i croati - per me bambino - erano delle persone che mi facevano paura: l’orco cattivo, parlava croato, insomma, ecco. Ce l’avevamo un po’ dentro.
Gianfranco M.
Sono nata il 20 ottobre del 1947 a Visignano d’Istria, un paese piccolo, contadino, in provincia di ... [Leggi tutto]
Sono nata il 20 ottobre del 1947 a Visignano d’Istria, un paese piccolo, contadino, in provincia di Pola. A Visignano d’Istria erano tutti italiani, era un villaggio piccolo e la componente slava era la di fuori del villaggio. I miei si sentivano italiani, e sono sempre rimasti italiani perché parlavano l’italiano, non hanno mai parlato lo slavo. Mia mamma lo sapeva il croato, mio papà no, non l’ha mai parlato.
Irene V.
Portole era proprio roba italiana, però nei paesi fuori erano più misti, diciamo. Si parlava slavo, ... [Leggi tutto]
Portole era proprio roba italiana, però nei paesi fuori erano più misti, diciamo. Si parlava slavo, due dialetti, bilingue, cioè non era né croato né italiano, era una lingua... Il dialetto slavo non era né sloveno né croato, era una roba mista, e come c’era anche il dialetto italiano, che era veneto, insomma, più o meno veneto. Si parlava anche in famiglia, cioè mettiamo che in famiglia con un figlio si parlava italiano e con un altro figlio si parlava slavo: c’era ad esempio mio fratello, che con un cugino parlava slavo e con un altro e con me e altre mie sorelle parlava italiano. E questo perché c’era un miscuglio, una mescolanza. [Però] quei che erano di Portole, Umago, Buie, Rovigno, quei che erano di sti paesi de fori, li ciamavano schiavi. Quindi i rapporti non erano buoni... Si, si viveva insieme però... Insomma, se diceva s’ciavo. A Trieste, se vai adesso a Trieste, quei che sono de Buie, de Rovino, de Umago, ancora adesso ei disi s’ciavi! Quando che venivano, ai tempi di Tito, che venivano a Trieste a fare la spesa - che li mantenevano, che la Jugoslavia teneva su Trieste quella volta - gli gridavano dietro s’ciavi. Capisci com’è? No, per me no, non erano buoni rapporti: non i’era nessun litighe, però... S’ciavo! Venivan dentro e...s’ciavo, bom.
Guido C.
Sono nato a Visignano d’Istria - non so se è vero che si chiama Istria adesso! - provincia di Pola ... [Leggi tutto]
Sono nato a Visignano d’Istria - non so se è vero che si chiama Istria adesso! - provincia di Pola il 6 aprile 1943. Eravamo in quattro: mia mamma è rimasta orfana da ragazza, [mentre] mio papà lavorava in miniera, in Arsia, ad Albona. Era [un paese] agricolo. Era piccolino...Sul cucuzzolo c’è la chiesa e poi ci sono due o tre frazioni. L’economia del paese era totalmente agricola: [si produceva] granoturco principalmente, olio - perché ci son gli ulivi - e vino, e patate, che le patate lì si fanno sempre. La maggioranza eravamo italiani, molto nettamente, eravamo anche l’80-85%, c’era poca gente [che non fosse italiana]. E si parlava in dialetto istroveneto. Mia mamma poi lei sapeva il croato, lo jugoslavo, però - e forse sbagliando - non voleva insegnarlo ai figli e non parlava con nessuno [quella lingua], lei parlava in italiano o in dialetto. [La componente croata] se c’era era fuori, o comunque era talmente inserita bene che non c’erano problemi.
Guerrino B.
Sono nato a Ceppi di Portole, provincia di Pola, il 31 gennaio 1937. Eravamo per la più parte tutti ... [Leggi tutto]
Sono nato a Ceppi di Portole, provincia di Pola, il 31 gennaio 1937. Eravamo per la più parte tutti contadini, si lavorava la terra. Eravamo in quindici in famiglia! Erano due fratelli, mio papà e mio zio e allora c’erano le due famiglie che lavoravano assieme. [Il mio paese] era per la più parte [contadino], di altro non c’era niente. Contadini e basta. Pola è lontano da noi... Era provincia, ma era lontana: andavamo pochissimo a Pola, perché tutto quanto serviva era a Portole. E la gente lì era contadina, come la maggior parte dell’interno dell’Istria, perché lì non è vicino al mare.
Guido C.
Castelnuovo d’Istria era slavo, erano tutti contadini. Contadini e montanari, e la gente viveva ... [Leggi tutto]
Castelnuovo d’Istria era slavo, erano tutti contadini. Contadini e montanari, e la gente viveva proprio di miseria, eh! Si, c’era un po’ di allevamenti, mi ricordo un po’ di pecore che giravano, ma poche. Perché poi c’era anche poco da mangiare: le doline del Carso non sono un granché produttive, eh! La coltivazione era tutta a pezzetti di un metro o due metri quadri: c’erano quattro piante di fagiolo, tre piante di mais, tre piante di patate, tutto a pezzettini, perché il terreno era così. E poi quello che ricordo è che l’acqua... Arrivavano le cisterne da Trieste per rifornire d’acqua: quando mancava l’acqua, specialmente la siccità, che non arrivava l’acqua dai rubinetti, dovevano arrivare le cisterne da Trieste. E allora vedevi le donne con ste mastelle in testa che andavano giù a prendere l’acqua e se la portavano a casa. Una, due e tre mastelle, e poi dovevi fare attenzione, perché serviva non tanto per lavarsi, quanto per mangiare, per fare il bucato e via dicendo. Quello me lo ricordo, perché c’erano delle siccità enormi. Di italiani c’era il segretario comunale, il veterinario, il medico, l’esattore che aveva anche la banca. E poi - che venivano sempre a casa nostra - c’era le guardie forestali - che lì c’era la stazione- e la guardia di finanza, che cercava di combattere il contrabbando, perché essendo Fiume vicina, che era zona franca, c’era un po’ di contrabbando. E quello me lo ricordo, perché giocavano a scacchi a casa nostra con mio papà che era fissato degli scacchi. Che poi smettevano magari la partita all’una di notte e la sera dopo la ricominciavano...Poi io sono andato a fare festa in caserma, perché il maresciallo, quando era la sua festa, siamo andati in caserma mogli, figli e bambini. Idem la guardi forestale. I carabinieri non ricordo se c’erano; dovevano esserci, però non me li ricordo, non avevamo dimestichezza con loro. La colonia italiana si frequentava: venivano a casa mia, o andavano a casa di altri, o ci si trovava in un bar, un bar pasticceria che aveva anche una terrazza dove qualche volta ballavano e mettevano dei dischi. E si chiamava Baldassi, quello mi è rimasto proprio in testa; bar pasticceria Baldassi. E gli italiani si frequentavano tra di loro, era difficile avere slavi nel giro di feste o cosa. Qualche volta, ma rarissimamente.
Antonio P.
[Sono nata a Sissano] il 29 maggio del 1929. Mia mamma aveva quindici anni quando son nata io, lei ... [Leggi tutto]
[Sono nata a Sissano] il 29 maggio del 1929. Mia mamma aveva quindici anni quando son nata io, lei non ha mai lavorato. Invece mio papà faceva il meccanico, era a Scoglio Olivi, che sarebbe al cantiere navale. E poi a casa faceva il meccanico, per conto suo. E poi vendeva anche le macchine da cucire: [era] rappresentante delle macchine da cucire là in paese e lui le vendeva, faceva il rappresentante nei paesi. [Sissano] era un paese agricolo, abbastanza, perché tutti avevano un po’ di terra, un po’ di grano, un po’ di uva, il maiale e sa, anche in tempo di guerra lì non ci mancava niente, perché avevamo tutto.
Jolanda T.
Il [mio] paese è Sissano, in italiano, e comandava l’Italia. Tutti i paesi attorno erano croati, e ... [Leggi tutto]
Il [mio] paese è Sissano, in italiano, e comandava l’Italia. Tutti i paesi attorno erano croati, e i croati erano un po’ messi da parte, e quando è venuta la Jugoslavia si è capovolta la cosa. Sissano, Gallisano, Dignano, Fasana erano tutti paesi italiani. Pola anche era italiana, ma io parlo di paesi. Invece Valtura, Monticio, Lavarigo, Marsana, Medolino, Albona erano tutti paesi croati.
Giuseppe T.
A Zara non c’erano delle grosse industrie al di fuori dei Luxardo e Vlako che erano dei liquori. ... [Leggi tutto]
A Zara non c’erano delle grosse industrie al di fuori dei Luxardo e Vlako che erano dei liquori. [Poi c’erano] la Fabbrica Tabacchi, la Fabbrica di cioccolata, dolciari e queste cose qui. Però era una città del benessere e quindi diciamo che non avendo la dogana, essendo porto franco... Mentre Fiume era porto franco, ma c’era il porto franco solo sul porto, cioè solo nella zona del porto, noi avevamo il porto franco in tutta la provincia di Zara, che si allargava abbastanza. E venivano a fare il contrabbando lì: lì c’era contrabbando di sigarette, di cioccolata, di caffè, che lì da noi il caffè si usava poco, si usava per fare il caffè e latte al mattino, ma non c’era [l’abitudine]. Poi Zara era una città di cultura - io ero bambino, e non è che mi ricordi -, però diciamo che era una città di gente benestante. C’era molta gente benestante, e il più - lo chiamavano il padrone della città - era Tojan, ricchi. Era tutta gente che aveva ereditato, erano nobili: da noi c’era diversa gente che aveva due cognomi, e i nobili avevano tutti due cognomi. Era una città di cultura e una città benestante. Poi era etnica, era una città etnica. Perché se tu pensi che Zara aveva cinque patroni: San Simone, Sant’Anastasia e San Donato, che sono i tre più [famosi], e poi c’erano altri due minori Doimo e San Crisogono. Ecco, San Crisogono è proprio il patrono di Zara, perché nello stemma di Zara c’è San Crisogono, che è un cavaliere romano, un soldato romano, perché la storia è antica: mi sembra che [Zara] è stata costruita nel 44 prima di Cristo da reduci romani e via dicendo. Quindi, avendo cinque patroni, vuol dire che lì c’era un’etnia diversa, non era un’unica etnia o due etnie come tanti [dicono]. Da noi c’è n’erano tante. Poi noi avevamo anche gli albanesi: avevamo proprio un borgo, borgo Erizzo, che era proprio formato da albanesi, e parlavano proprio l’albanese tra di loro. Noi a scuola si imparava anche delle parole, quelle più brutte, che quando ci si prendeva si dicevano queste parole! Poi c’era - è logico -, gli slavi, l’etnia dei slavi perché lì si è sempre convissuto. Dove stavo io, proprio nel borgo dove stavo io, si parlava tutti slavo. Noi in casa parlavamo slavo, croato. Lo parlavamo tutti in casa; poi io mi son dimenticato, insomma adesso mi arrangio, però... Si parlava slavo fuori, poi magari si andava a scuola e si parlava il nostro dialetto, l’italiano diciamo. L’odio è stato inculcato , che poi secondo me - anche leggendo, cercando anche di capire - veniva da lontano. E’ venuto da lontano: come, diciamo, l’odio che è stato portato dagli italiani verso gli slavi è venuto dall’interno dell’Italia. Noi non avevamo questo rapporto di conflitto con loro, con gli slavi. Io so che i nostri [dicevano]: stai zitto s’ciavo! Si diceva queste cose, che poi s’ciavo era una cosa sotto i romani... Lo schiavo era il contadino che lavorava. Mentre loro, gli slavi, prendevano proprio gli schiavi, perché tra tribù si schiavizzavano, loro han sempre vissuto di queste cose. La storia lo dice. C’era questa cosa... Ma anche in Istria e a Fiume c’era - mi sembra - questo modo di parlare: stai zitto s’ciavo! Come i meridionali, che noi li chiamavamo pignol, che vuol dire fantoccio, [per dire] uno venuto dall’Italia. C’era questa cosa, però si scherzava da una parte e dall’altra, nelle osterie si cantavano le canzoni italiane e le canzoni slave. C’era questo modo di comunicare, ma era diverso, non c’era quest’odio. E allora quest’odio è stato inculcato da lontano, è venuto da lontano, han cominciato a fomentare questo odio, i nazionalismi. Questa cosa è venuta piano piano, ma finchè io ho vissuto là non c’era mai sto sentore uno contro l’altro. C’era questo modo di vivere assieme: si viveva assieme e ognuno professava la sua idea. Come dovrebbe essere oggi, no? Come dovrebbe essere oggi la politica nostra. Logico che Zara era anche diciamo una città irredentista, essendo, diciamo, fuori dall’Istria, che era staccata da tutto il contesto, era stata staccata politicamente e allora si era raggruppato tutto questo irredentismo. Irredentismo che, diciamo, eravamo più di destra, tanto che anche gli esuli oggi lì sono più verso la destra. Però avevamo una concezione diversa della destra: destra sociale e oggi anche le nostre associazioni io penso che quell’impronta l’hanno sempre avuta. Però è diverso, un modo di pensare diverso da quella destra... Sarà stato Mussolini che anche, all’origine, aveva intrapreso quella destra sociale e popolare, che poi dopo le cose sono poi andate diversamente. Ecco, noi siamo molto attaccati alla madrepatria, alla bandiera italiana. Noi siamo quelli che soffriamo molto di più rispetto a tanti altri: noi le cose italiane le sentiamo molto di più.
Antonio V.
Io sono nato a Zara, sono zaratino. Noi abitavamo in una zona che si chiamava Bellafusa di Zara, ... [Leggi tutto]
Io sono nato a Zara, sono zaratino. Noi abitavamo in una zona che si chiamava Bellafusa di Zara, che era a trecento metri dal porto in linea d’aria ma era già in periferia in una città piccola come Zara, e quindi non c’era quasi niente allora nella periferia: noi avevamo le patate, l’orto e tutte queste cose qui, e naturalmente se c’era bisogno di tutto il resto si andava in città per comprare quello. Mia è di origine slava perché si chiama M.-cich, mio padre si chiamava V.; lei è nata nell’isola di fronte e noi parlavamo croato e italiano. Parlavamo tranquillamente, non c’era nessun problema. Io ricordo per esempio che c’erano alcuni che avevano un’osteria e quando entravano i tedeschi alcuni facevano finta di non conoscere l’italiano e parlavano solo croato. E allora magari i tedeschi passando vicino a casa nostra chiamavano qualcuno di noi, lo prendevano per mano [e dicevano]: dai, vieni con noi, perché vogliamo capire. Ma non c’era nessun astio. Il rapporto [con i croati] era normale, si andava oltre confine dappertutto e tranquillamente, anche perché poi c’erano vincoli di parentela con gente che abitava oltre il confine. I confini erano vicinissimi. Era una cosa completamente diversa dall’Istria: più era vicina l’Italia e più si sentivano queste cose. Perché bisogna ricordare anche questo, bisogna vedere cosa han subito loro prima. Nulla giustifica le foibe, ma c’è qualcosa, c’era una reazione anche al comportamento precedente. Ma non del fascismo vero e proprio, ma delle persone che abitavano quelle zone, che ritenevano i croati dei cittadini di serie B. E lo si capiva dalle canzonette: ricordo qualche canzone che diceva che non esisterà tra noi nessun croato. C’eran queste cose qui. Quindi il croato era considerato un cittadino di serie B. Ma questo fa parte della normalità, secondo me, nelle zone di confine. I privilegi erano tutti degli italiani. Ma al mercato, per esempio, in piazza delle Erbe, croati e italiani vendevano tutto, senza problemi. Non c’era chi sceglieva quello, chi sceglieva quell’altro, nel modo più assoluto. Quindi questa promiscuità tra quelli di lingua italiana e quelli di lingua [croata] era proprio naturale, normale. C’è stata una spinta dall’esterno poi per creare odio, tant’è vero che molti son rimasti a Zara e nessuno ha fatto loro niente. In Istria c’è stato qualcos’altro che è difficile secondo me capire, ma c’è stato sicuramente un [qualcosa]... Eppure lì l’influenza del fascismo non era così [grande]... Come dire, il fascismo era lontano dall’Istria, perché era concentrato tutto su Fiume e Zara.
Sergio V.
Sono nato a Zara [nel 1940]. Zara è in Dalmazia, di fronte ad Ancona. Ecco, mia mamma da giovane ha ... [Leggi tutto]
Sono nato a Zara [nel 1940]. Zara è in Dalmazia, di fronte ad Ancona. Ecco, mia mamma da giovane ha lavorato un periodo nella fabbrica di reti che c’era a Zara, poi invece ha fatto la casalinga e mio papà invece in questa fabbrica di reti era un caporeparto: c’erano due reparti, produzione e manutenzione, e lui era il capo della manutenzione di questa fabbrica di reti, [che] si chiamava Sapri ai tempi dell’Italia e poi dopo con la nazionalizzazione dopo la guerra è venuta la Jugoslavia e allora è diventata una fabbrica governativa, perché , appunto, era tutto governativo. Essendo una città di confine, [Zara] era molto agevolata, non c’era il dazio, ad esempio, e allora era una città molto sviluppata, anche se la città era piccola, aveva 20.000 abitanti ai tempi. Però era sviluppata, [soprattutto] nel commercio, anche perché non essendoci il dazio allora, si sviluppava soprattutto il commercio e le attività e la pesca. Questo fino ai tempi della guerra.
Rino P.
I confini di Zara sono piccini: c’era Bibigna che era otto chilometri, ed erano croati, si andava ... [Leggi tutto]
I confini di Zara sono piccini: c’era Bibigna che era otto chilometri, ed erano croati, si andava anche a piedi... In città erano tutti italiani e le isole erano tutte croate, anche perché sono poi state tutte occupate. [Gli slavi] erano gente che venivano tutti dall’interno, che noi li chiamavamo blai, che sarebbe morlacchi... [Erano gente] ignorante, poverini, venivano in città anche a vendere o a comprare qualcosa.
Alma M.
[Zara] era italiana, erano italiani. Fino a Spalato, fino a Sebenico, fino a Dubrovnik era ... [Leggi tutto]
[Zara] era italiana, erano italiani. Fino a Spalato, fino a Sebenico, fino a Dubrovnik era italiano, tutta la Dalmazia. Perché da noi, i più vecchi, tutti parlano italiano. Adesso penso che è meglio, [ma un tempo] c’era sempre un po’ di odio verso gli italiani, perché quelli che eravamo siamo andati tutti via.
Adua Liberata P.
Zara era tipicamente italiana: infatti il governo era italiano, le maestranze e l’esercito che ... [Leggi tutto]
Zara era tipicamente italiana: infatti il governo era italiano, le maestranze e l’esercito che venivano erano italiani, ed era propriamente italiana, la città. Invece i confini, cioè l’entroterra, era slavo, perché gli slavi sono arrivati dai Carpazi nel 1200 o 1300 - non so bene la data - e sono arrivati al mare. Anche se certe isole erano italiane, l’entroterra era proprio slavo. [Com’erano] rapporti [con gli slavi]? Siccome [Zara] viveva del commercio dell’entroterra, allora le derrate alimentari arrivavano dai contadini dell’entroterra, che portavano le cose da vendere in piazza e si approvvigionavano invece delle cose che non c’erano nell’entroterra data la povertà di quella zona lì. E vivevano in quel senso lì, perché permettevano questo scambio: infatti quelle che portavano il latte dall’interno - le mlekaritze - portavano anche gli alimenti in città e vendevano. Naturalmente essendo i cittadini in città, avevano questo tono come di distacco dal contadino, c’era questa cosa. Però la collaborazione era essenziale: nell’entroterra c’era il terreno dove poter produrre i generi dell’agricoltura e in città no. Per quello che so, erano agevolati coloro che aderivano al partito [fascista] o cambiavano cognome. E poi c’era il discorso dei] s’ciavi... S’sciavi è un termine veneto per indicare i s’ciavi, ma da noi non li chiamavano così ma in un altro termine - che adesso non mi viene in mente - che indicava il contadino, indicava il foresto, indicava non so, come qua si usa dire il terrone del meridione... Ecco, in quel senso là, in quel modo lì. E avevano questo distacco, questa sufficienza del contadino rispetto al campagnolo.
Rino P.
Ah, [a Spalato] c’erano pochi italiani. Noi eravamo pochi italiani ed avevamo una scuola elementare ... [Leggi tutto]
Ah, [a Spalato] c’erano pochi italiani. Noi eravamo pochi italiani ed avevamo una scuola elementare italiana, e anche la chiesa italiana. Là andavamo noi bambini - quelli che avevano la cittadinanza italiana - ma era solo la scuola elementare, e chi voleva continuare a studiare doveva andare a Zara. Per far le medie, e poi chi voleva fare l’università andava a Bologna o a Fano, un po’ di qua e un po’ di là. Oh, noi eravamo pochi! Eravamo forse una cinquantina di famiglie. E quando sono nato io, Spalato aveva solo 18.000 abitanti, era un paese. E dopo è diventata una città, ha aumentato la popolazione. E noi, questi italiani, eravamo pochi, avevamo i nostri ritrovi. La chiamavano, mi ricordo, L’operaia: lì c’era il biliardo, andavamo a giocare alle carte, si ballava alla festa e venivano solo italiani. E poi i simpatizzanti - diciamo come i miei amici - venivano anche loro, ma non erano italiani. Venivano lo stesso per ballare, per sentire la musica e così.
Giovanni R.

Immagini

Cartina 3: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento austriaco del 1851
Cartina 3: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento austriaco del 1851
Cartina 4: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento del 1921
Cartina 4: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento del 1921
Cartina 5: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento del 1936
Cartina 5: Distribuzione della popolazione nella Venezia Giulia rilevata in base ai dati del censimento del 1936

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